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E’ necessaria una cultura dell’errore?

Di continuo ci troviamo di fronte ad un problema di confusione e di disordine su vari livelli all’interno delle organizzazioni aziendali e sistematicamente sono palesi gli effetti di questi stili di vita lavorativa sbagliati non solo sull’organizzazione stessa, ma anche sui lavoratori.

 

Spesso però, la tendenza è quella di prendere atto dei risultati negativi, senza però approfondire la loro origine e da dove essi derivino; pertanto, non ci si sofferma a trovare delle soluzioni che migliorino l’impatto impegno vs. risultato, o che riescano a ridurre i tempi persi o “tempi morti”, avendo tra gli obbiettivi un miglioramento del clima aziendale e della vita personale e della salute dei singoli individui che compongono le aziende. Partiamo dal postulato che una mente sovraccarica e troppo stressata non può diventare, alla lunga, una mente innovativa.

 

Si riportano, di seguito, alcuni fra gli errori di comportamento principali che possono portare gli individui allo sfinimento, compromettendo efficacia delle loro azioni e salute, ripercuotendosi inevitabilmente sugli obbiettivi globali di un’organizzazione.

 

Oggi uno degli sbagli più comuni è non prendersi mai il tempo per valutare i propri obiettivi, creandoci una scaletta di priorità, perché tutto è diventato urgente e pertanto tutto merita la stessa priorità e la stessa fretta di concludersi. Difficilmente in molte organizzazioni si valutano i compiti da eseguire attraverso i concetti di importanza e di urgenza. Così, persone diverse si ritrovano spesso a seguire e lavorare sulle stesse attività, compreso ciò che non è fondamentale e prioritario, mettendo automaticamente e anche non intenzionalmente ogni impegno allo stesso livello. Il risultato è quindi ritrovarsi in ritardo su quelli che sono veramente gli aspetti importanti, perché i singoli individui si sentono circondati da lavori di ogni genere che rincorrono senza avere neanche tempo di fermarsi a pensare se veramente siano così fondamentali. Parallelamente, quelle che potrebbero essere considerate le vere urgenze finiscono per passare in secondo piano, portandosi dietro tutti gli effetti negativi del caso, mentre ciò che poteva essere programmabile e gestibile diventa all’improvviso indifferibile, in quanto non sono state definite nel tempo le corrette esecuzioni, e sono passate settimane prima che qualcuno iniziasse veramente a preoccuparsene.


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Di conseguenza, il polmone dell’organizzazione diventa, alla lunga, un modello del “tutto e subito”, una rincorsa perenne a una serie di continue emergenze, che con tutta probabilità, se analizzate in un contesto ordinato e organizzato, non si potrebbero neanche definire tali.

Una metafora potrebbe essere quella di un cliente seduto al tavolo di un ristorante, in cui tutte le portate gli vengono servite allo stesso momento; nella fretta di finire tutto, il cliente è naturalmente predisposto per assaggiare le pietanze in modo casuale, senza seguire un filo logico, per esempio, di iniziare con gli alimenti che vanno mangiati caldi prima che si raffreddino e perdano di gusto, rischiando quindi di ingerire tutto a freddo.

La posizione di alcuni lavoratori di prendersi un po’ di tempo per analizzare le varie situazioni aperte, valutare cosa vada fatto prima e cosa dopo, programmare le attività che possono essere diluite nel tempo e affrettare le urgenze (scadenze che determinano effetti negativi, ad esempio) viene talvolta vista dai vertici delle organizzazioni come una perdita di tempo, mentre dovrebbe piano piano diventare un’abitudine di tutti che, una volta collaudata e rodata, permetterebbe di stilare un’ottimale programmazione settimanale delle attività in poco tempo, portando in primis enormi benefici in termine di gestione del proprio tempo, della propria fatica, e non di meno una maggiore lucidità mentale da impiegare sulle priorità.

Anche se non viene percepita subito come tale, la sensazione che tutto sia importante e da fare nello stesso momento è una fonte di stress enorme, e il risultato inevitabile è che non sarà il lavoratore a gestire gli impegni nel tempo, ma saranno “gli impegni a gestire il lavoratore”, come se egli stesso fosse assalito da tanti nemici insieme, non rendendogli possibile affrontarne uno alla volta.

Da questo consegue che, a qualsiasi richiesta, il lavoratore si senta obbligato ad acconsentire ad ogni richiesta che riceve, avendo la percezione di non essere autorizzato a “dire di no”.

Di fronte ad una chiara pianificazione degli impegni con le priorità in primo piano, esiste la possibilità di valutare se una nuova attività possa essere inserita adeguatamente o se non rimanga spazio, naturalmente, dopo aver considerato quanto la stessa sia realmente importante ed urgente.

Se non lo fosse, e questo calendario ipotetico fosse già colmo, allora potremmo avere la serenità di rinunciarvi o di progettarne l’esecuzione in tempi migliori, ma definendola già al momento della richiesta.

Se invece l’organizzazione lascia che le attività dei lavoratori diventino un accumulo di oggetti ammassati l’uno sull’altro, senza cercare di mettere ordine, continua ad accantonarne pensando dopo dove sistemarli, ma questo poterà inevitabilmente al punto di partenza, ovvero che persone diverse se ne occuperanno parallelamente quando davvero sarà tardi, e si affretteranno a finire qualcosa che avrebbero potuto serenamente organizzare con il giusto tempo.

 

Questo fenomeno prende il nome di “effetto stimolo-risposta”: entra lo stimolo, esce subito la risposta, così si rischia di seguire troppe cose contemporaneamente ed in modo inevitabilmente superficiale.

 

Un’altra conseguenza che spesso emerge è quella, da parte del singolo individuo, di mettersi in secondo piano (tendenza che viene mediamente rinforzata ulteriormente nelle donne anche per un fattore culturale). Se una programmazione definita per priorità, urgenza ed importanza permette ad un’organizzazione di pianificare anche a lungo termine e di avere ben chiari i compiti da svolgere e i tempi entro cui realizzarli, devono essere contemplati anche i progetti personali dei singoli elementi che la compongono. Una vita lavorativa organizzata permette ai lavoratori di riempire le “caselle” della propria agenda inserendo anche qualche spazio dedicato ai propri piani personali: nel momento in cui non si deve più essere costretti a “correre dietro alle emergenze”, che in buona parte erano sicuramente figlie della disorganizzazione, rimarrà lo spazio anche per i propri progetti. Non è soltanto questione di tempo recuperato, ma soprattutto di metodo: se tra i compiti da svolgere per conto dell’organizzazione, il singolo individuo si abitua ad inserire regolarmente anche quelli che riguardano sé stesso, avrà modo di portarli a termine nel tempo seguendo una calendarizzazione chiara.

 

È anche possibile, però, che le reazioni negative non siano direttamente collegate al carico di impegni: si è infatti dimostrato che sia possibile lavorare intensamente senza accusare sintomi di stress, anche se in misura limitata nel tempo; se la disorganizzazione diventa uno stile di vita, gli effetti negativi prima o poi iniziano a presentarsi. Tuttavia, a fare la differenza è soprattutto il senso di controllo sulle proprie attività oltre che il supporto sociale, cioè quel controllo che può derivare soprattutto da una corretta organizzazione.

 

Massimo Servadio

Psicoterapeuta e Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni





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Rispondi Autore: FRANCESCO ZAMPINI - likes: 0
19/11/2022 (18:07:28)
Argomento molto interessante. Sarebbero utili approfondimenti.

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