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Rischio rumore: problemi e suggerimenti per la misura e valutazione
Torino, 13 Apr – Il rumore negli ambienti di lavoro può provocare diversi danni alla salute del lavoratore, dalla perdita permanente di vario grado della capacità uditiva fino a problemi a vari organi ed apparati (apparato cardiovascolare, endocrino, sistema nervoso, …). Senza dimenticare le conseguenze sulla sicurezza, ad esempio quando il rumore determina un effetto di mascheramento che rende difficili le comunicazioni verbali e la percezione di segnali acustici di sicurezza.
Come indicato dal Decreto legislativo 81/2008 è dunque necessaria un’attenta valutazione del rumore, valutazione che deve prevedere misurazioni e deve essere effettuata da personale qualificato.
Al “rischio da rumore” sono dedicate diverse relazioni che sono state presentate al 74° Congresso Nazionale SIMLII (Società Italiana di Medicina del Lavoro ed Igiene Industriale) “2011 - Dall’Unità d’Italia al Villaggio Globale. La Medicina del Lavoro di fronte alla globalizzazione delle conoscenze, delle regole, del mercato”, congresso che si è tenuto a Torino dal16 al 19 novembre 2011.
Ci soffermiamo oggi su una di queste relazioni, pubblicata sul numero di luglio/settembre 2011 del Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia, dal titolo “ Problematiche riguardanti la misura e la valutazione del rumore negli ambienti di lavoro” e a cura di Alessandro Peretti (Scuola di Specializzazione in Medicina del Lavoro, Università di Padova). Una relazione dedicata alle criticità della misura e valutazione del rumore negli ambienti di lavoro.
Infatti si sottolinea che la misura e valutazione del rumore spesso “vengono effettuate in termini minimali con l’unico scopo di rispettare alcuni obblighi di legge, dimenticando che i compiti da assolvere sarebbero molteplici. Così facendo le indagini si riducono a semplici adempimenti formali, mirati alla stima dei livelli di esposizione; nel contempo viene meno l’obbiettivo prioritario riguardante la riduzione dei rischi”.
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In relazione alle indagini fonometriche, la relazione ricorda che generalmente il rischio da rumore viene valutato “rilevando i livelli sonori medi energetici (equivalenti) a cui il lavoratore è esposto durante le diverse fasi lavorative giornaliere e considerando le relative durate”.
Semplificando il più possibile, il livello sonoro equivalente di un suono o rumore variabile nel tempo si può definire come quel livello sonoro di un ipotetico rumore costante che sostituito al rumore reale per lo stesso intervallo di tempo comporterebbe la stessa quantità totale di energia sonora. In questo senso le “singole dosi di rumore assorbite vengono quindi sommate tra loro e la dose complessiva viene distribuita sull’intervallo standard di 8 ore”: il livello medio ottenuto costituisce il livello di esposizione.
Il problema è che tale procedura “si fonda sul principio dell’uguale energia, per il quale i deficit uditivi sono determinati dalla dose complessiva a prescindere da come essa si suddivide nell’arco della giornata lavorativa”. Principio che “costituisce una ragionevole semplificazione”, ma che non è sempre affidabile.
Infatti “la costanza del rumore nel tempo oppure la presenza di eventi impulsivi, di componenti di alta frequenza o di toni puri” possono determinare, fermo restando il livello di esposizione, un “aggravio del rischio”. E se una volta la determinazione di queste caratteristiche poteva costituire un problema, oggi con l’avvento di nuovi fonometri, “che riportano a fine misura contemporaneamente tutti i parametri acustici, ha cambiato profondamente la situazione, rendendo ingiustificabile la disattenzione dei tecnici nei confronti di tali parametri”.
E d’altronde è la stessa legislazione a sottolineare l’importanza della tipologia e dell’impulsività del rumore (D.Lgs. 81/2008, art. 190, comma 1).
C’è un altro motivo che dovrebbe spingere verso la determinazione di questi parametri: “la loro conoscenza (si pensi in particolare alle caratteristiche spettrali) è fondamentale nell’elaborazione di un qualsivoglia progetto di riduzione del rumore. Ne consegue che l’assenza di tali parametri rende fine a sé stesso il documento di valutazione dei rischi”.
Inoltre se “da un lato vanno determinati tutti i parametri acustici, dall’altro vanno acquisite tutte le informazioni che caratterizzano i singoli rilievi”.
Generalmente l’indagine fonometrica viene svolta in un arco di tempo limitato e assume la connotazione di una fotografia istantanea “che non consente di disquisire sulla rappresentatività dei dati ottenuti”. In questo senso è essenziale annotare con cura le varie condizioni di misura.
Normalmente, come accade per i parametri acustici, “anche le informazioni associate ai rilievi e riportate nei documenti di valutazione dei rischi sono generalmente minimali, con la conseguenza che i dati di indagine rimangono improduttivi”.
La relazione, che vi invitiamo a leggere, si sofferma poi sulle norme tecniche.
In fase di valutazione del rischio da rumore la norma europea di riferimento è la UNI EN ISO 9612/2011 “Determinazione dell’esposizione al rumore negli ambienti di lavoro - Metodo tecnico progettuale”. Una norma che “definisce tre strategie di determinazione dell’esposizione a seconda che le misure fonometriche si basino:
– sui compiti (il turno giornaliero di un lavoratore o di un gruppo omogeneo viene scomposto in singoli compiti per ciascuno dei quali vengono effettuati i rilievi);
– sulle mansioni (si considera l’intero turno di lavoro del gruppo omogeneo e, all’interno del turno, i rilievi vengono eseguiti per campionatura casuale);
– sull’intera giornata di lavoro (tramite dosimetri)”.
Tuttavia, secondo il relatore, anche la norma presenta diverse criticità.
Innanzitutto “essa cerca di inquadrare una realtà complessa come quella lavorativa spesso difficilmente prevedibile”. E in questo senso “piuttosto che una norma cogente sarebbe stato preferibile elaborare linee guida, magari riferite concretamente ai diversi comparti produttivi, in grado di fornire le conoscenze sulla base delle quali il tecnico potesse operare con maggiore autonomia e flessibilità”.
In particolare “tutti e tre i metodi definiti dalla norma sono spesso inapplicabili, in quanto il numero dei rilievi e le durate di misura rendono insostenibili i tempi di indagine”.
Inoltre la norma “si allontana dai principi ispiratori dell’igiene del lavoro, ossia la valutazione e la caratterizzazione dei rischi al fine della loro riduzione”.
Infatti rilevati i diversi livelli equivalenti a cui il lavoratore è esposto e le relative durate, è evidente la “necessità di calcolare il contributo delle specifiche posizioni o attività lavorative alla determinazione del livello di esposizione, in considerazione sia del loro livello che della loro durata, in modo da giungere ad una graduatoria dei problemi da risolvere. Ciò malgrado la norma considera questo calcolo ‘facoltativo’”.
Infine, sempre riguardo a questa norma, “solleva forti perplessità l’incertezza relativa al livello di esposizione, intorno alla quale la norma si dilunga per quasi metà del documento”.
La relazione si conclude sottolineando che la valutazione dei rischi “non costituisce il fine dell’igiene del lavoro ma uno strumento mediante il quale è possibile contenerli al minimo”.
E il raggiungimento dell’ obiettivo di contenimento dipende da diversi fattori, ad esempio:
-la formazione del tecnico: “essa deve basarsi sulla conoscenza di molteplici aspetti (dai processi produttivi alle caratteristiche del fenomeno da rilevare) e non solo sulla competenza in fatto di disposizioni di legge. Data la complessità e l’importanza della realtà in esame, il tecnico deve essere spinto ad acquisire una visione consapevole e critica del suo operare”;
-il dialogo tra tecnico e medico competente: “questo dialogo, oggi praticamente inesistente, è fondamentale: la valutazione e la riduzione dei rischi dovrebbero interagire continuamente con la sorveglianza sanitaria, ponendo a confronto i risultati di ambedue queste attività al fine di ottimizzarne le modalità di pianificazione ed esecuzione”.
“ Problematiche riguardanti la misura e la valutazione del rumore negli ambienti di lavoro”, a cura di Alessandro Peretti (Scuola di Specializzazione in Medicina del Lavoro, Università di Padova), relazione al 74° Congresso Nazionale SIMLII “2011 - Dall’Unità d’Italia al Villaggio Globale . La Medicina del Lavoro di fronte alla globalizzazione delle conoscenze, delle regole, del mercato”, pubblicata in Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia, Volume XXXIII n°3, luglio/settembre 2011 (formato PDF, 49 kB).
Tiziano Menduto
Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.
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Rispondi Autore: Ing. Carosi Marica - likes: 0 | 13/04/2012 (10:02:24) |
Sono assolutamento in accordo con questo articolo! |
Rispondi Autore: Gabriele Brion - likes: 0 | 13/04/2012 (11:24:14) |
In qualità di tecnico competente in acustica ambientale che spesso si trova a fare misurazioni per la valutazione dell'esposizione dei lavoratori, concordo principalmente sulla scarsa applicabilità delle norme tecniche nella quotidianità. Seguire alla lettera la normativa tecnica comporta una dilatazione dei tempi di misura tale da determinare l'uscita dal mercato in fase di offerta a fronte di un risultato che comunque non è mai garantito poichè il valore aggiunto di un tecnico esperto e/o qualificato resta pur sempre una variabile. Farei però delle considerazioni aggiuntive in primis sull'errore di misura. L'art. 190, comma 4, D.Lgs.81/08, infatti stabilisce che il datore di lavoro "tiene conto" dell'errore di misura, formulazione, a mio avviso, quanto mai infelice poichè generica. Personalmente ritengo che, all'atto pratico, ha un senso calcolare l'errore solo se poi lo sommo al valore di esposizione calcolato sulle 8 ore (Lex) in modo da ottenere un Lex "corretto" sulla base del quale andrò poi a identificare la fascia di esposizione ed i relativi adempimenti. Ciò ha un senso, intanto perchè è cautelativo nei confronti del lavoratore, perchè può coprire in tutto o almeno in parte quelle che possono essere le eventuali variabili citate nell'articolo e poi perchè, diversamente, tanto vale non calcolare l'errore. Siamo poi al paradosso che utilizziamo strumentazione in classe I (con errori da 0,5 a 0,7 dB) per poi calcolare valori di errore (che sono pur sempre grandezze statistiche) anche doppi! Comunque sia, molte valutazioni si limitano ad indicare tale valore senza valutarlo. Ciò va certamente a vantaggio del datore di lavoro ma non dei lavoratori che devono essere tutelati. Esempio: Lex=84,5 dB(A) con errore 1 dB. Se lo sommo sono ad 85,5 e quindi devo fare il programma di riduzione del rumore (cosa che comunque quasi nessuno fa perchè è un costo) altrimenti no con possibile danno ai lavoratori. Ritengo che l'errore debba essere sommato per l'ottenimento del Lex corretto sulla base del quale definire la fascia di esposizione, dopodichè, una volta che il tecnico ha segnalato nelle conclusioni la necessità del piano di riduzione dando magari anche qualche indicazione, la palla passa al datore di lavoro anche perchè il piano di riduzione in molti casi deve passare da una fase di progettazione degli interventi che non può certo essere inclusa nelle attività di misurazione. Concordo anche sul fatto che manchi l'attenzione sugli eventi impulsivi ma anche, ed è bene ricordarlo sulle sostanze ototossiche. Queste ultime costituiscono un altro pasticcio normativo in quanto i tecnici di acustica non hanno necessariamente basi di chimica con tutte le difficoltà del caso anche perchè non esiste un elenco delle sostanze ototossiche cheil tecnico possa consultare. In definitiva, trovo curioso, oltrechè scarsamente appropriato, affidare al tecnico di acustica il compito di individuare le sostanze ototossiche. Riterrei più utile obbligare il datore di lavoro, eventualmente attraverso il RSPP o il medico competente, a fornire tali informazioni se proprio devono essere indicate nella valutazione. Cordiali saluti. |
Rispondi Autore: Francesca De Santis - likes: 0 | 13/04/2012 (16:45:21) |
Rispetto alla vecchia edizione della norma UNI 9432:2008, le nuove UNI 9432 e UNI EN 9612 possono essere un valido aiuto in fase di analisi e valutazione del rischio rumore. Un'attenta ricognizione dei contesti lavorativi (secondo le indicazioni fonite da teli norme) può consentire al valutatore di giungere ad un risultato molto prossimo a quello reale. Ovviamente, concordo sul fatto che il calcolo delle incertezze ha senso solo se vengono sommate ai livelli di esposizione per l'individuazione della classe di rischio ... come peraltro credo sia altrettanto giusto precisare che la classe di rischio del lavoratore non cambia mettendogli a disposizione idonei DPI. Sebbene la valutazione dovrebbe essere eseguita di concerto con le figure della sicurezza aziendali, in letteratura esistono elenchi di sostanze ototossiche. Cordiali saluti |
Rispondi Autore: Francesca De Santis - likes: 0 | 13/04/2012 (18:04:30) |
Rispetto alla vecchia edizione della norma UNI 9432:2008, le nuove UNI 9432 e UNI EN 9612 possono essere un valido aiuto in fase di analisi e valutazione del rischio rumore. Un'attenta ricognizione dei contesti lavorativi (secondo le indicazioni fonite da teli norme) può consentire al valutatore di giungere ad un risultato molto prossimo a quello reale. Ovviamente, concordo sul fatto che il calcolo delle incertezze ha senso solo se vengono sommate ai livelli di esposizione per l'individuazione della classe di rischio ... come peraltro credo sia altrettanto giusto precisare che la classe di rischio del lavoratore non cambia mettendogli a disposizione idonei DPI. Sebbene la valutazione dovrebbe essere eseguita di concerto con le figure della sicurezza aziendali, in letteratura esistono elenchi di sostanze ototossiche. Cordiali saluti |
Rispondi Autore: Gabriele Brion - likes: 0 | 16/04/2012 (17:42:58) |
Precisazione corretta; in effetti, intendevo dire che gli elenchi di sostanze ototossiche sono indicativi e non esaustivi. Cordiali saluti. |