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La tutela della salute e sicurezza nel lavoro all’estero
Roma, 13 Mar - Nell’ambito della mia attività professionale capita sempre più spesso di interloquire con aziende o operatori della prevenzione che mi pongono quesiti relativi alla gestione del lavoratore inviato all’estero o, di converso, a quella del lavoratore inviato dall’estero in Italia a svolgere una prestazione lavorativa. Le domande poste sono, peraltro, disparate, in larga misura “sollecitate” da dinamiche economiche – legate al consolidamento di un mercato economico sempre meno nazionale e alla facilità degli spostamenti delle persone in ambito europeo ed extracomunitario – quasi mai prese in considerazione da una regolamentazione legale della salute e sicurezza sul lavoro per sua natura (penale) inderogabile e, quindi, particolarmente rigida. Per quanto questo breve contributo non abbia certamente la pretesa di rispondere a tutti i possibili dubbi relativi al lavoro Italia-estero o estero-Italia, esso costituisce il mio tentativo di individuare in via estremamente sintetica i principali riferimenti normativi applicabili in materia, in modo che di essi si possa tener conto per risolvere le questioni che “sul campo” giornalmente emergono.
Il fondamentale dubbio da risolvere in questi casi è fornire la risposta alla domanda: “che Legge si applica”?; domanda non solo legittima ma quasi “obbligata”, visto che in simili casi si intersecano tra loro normative differenti, nazionali ed estere e, in particolare:
- Le Direttive comunitarie (in particolare, n. 89/391 CE in materia di salute e sicurezza e n. 97/71 CE in materia di distacco dei lavoratori nell’ambito delle prestazioni di servizio);
- I Regolamenti UE (593/2008 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 giugno 2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, c.d. Roma I);
- I principi di diritto penale;
- I principi inderogabili in materia di salute e sicurezza sul lavoro (d.lgs. n. 81/2008).
Tanto premesso, in linea di massima la Legge applicabile viene scelta – in modo convenzionale – dalle parti che stipulano il contratto. Tuttavia, va sempre ricordato che le parti possono liberamente regolare tra loro i propri rapporti economici ma certamente non possono derogare a determinate regole, a tutela di beni di rilevanza costituzionale (come, appunto, la salute dei cittadini e la sicurezza dei lavoratori, ai quali afferiscono – rispettivamente – l’articolo 32 e l’articolo 41, secondo comma, della Costituzione).
Ma l’infortunio del lavoratore di una azienda italiana avvenuto all’estero può comportare responsabilità per il datore di lavoro e subdelega (o altro soggetto obbligato ai sensi della normativa antinfortunistica come, ad esempio, un dirigente) in Italia? Dal punto di vista penalistico le regole di riferimento per rispondere a tale quesito si rinvengono nei primi articoli del codice penale. In particolare l’articolo 6 c.p. dispone che: “il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, cioè in Italia, quando l'azione o l'omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è verificato l'evento che è la conseguenza dell'azione o dell'omissione”; prendendo ad esempio i reati con evento infortunistico (lesioni o omicidio con violazione della normativa antinfortunistica, artt. 590 e 589 c.p.), ciò significa che si considera commesso nel territorio dello Stato non soltanto il reato di omicidio colposo o lesioni personali quando il lavoratore si infortuna nello Stato italiano, ma anche, in caso di evento all'estero, il reato che derivi causalmente da una azione o omissione che è avvenuta in tutto o in parte nel territorio dello Stato (si pensi, ad esempio, ad una incompleta valutazione dei rischi o, ancora, ad una omessa formazione). Cass. Pen., 17 Ottobre 2014, n. 43480, evidenzia – in un caso di morte di un lavoratore inviato dal datore di lavoro all’estero – che è : “corretta l'affermazione della giurisdizione italiana e l'individuazione del giudice competente per territorio, trattandosi di delitto comune (infortunio sul lavoro) astrattamente ascrivibile a un cittadino italiano, ossia al datore di lavoro, commesso all'estero e come tale punibile, ai sensi dell'art. 9 c.p., comma 2, su istanza della persona offesa, nella specie sussistente essendo stata avanzata querela - denuncia dal prossimo congiunto della vittima”.
L’obbligo di sicurezza nei confronti del lavoratore italiano che svolge attività fuori dai confini nazionali ricade – quindi – sul datore di lavoro italiano, che deve assicurare idonee misure per tutelarne la salute e sicurezza, tenendo conto del noto principio della “massima sicurezza tecnologicamente possibile”, pacificamente ritenuto applicabile dalla giurisprudenza in materia di salute e sicurezza alla prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali. Come ribadito, solo tra le ultime sentenze, da Cass. pen., sez. IV, 5 Febbraio 2014, n. 2626, “seppure è vero che l'art. 2087 c.c. non introduce una responsabilità oggettiva del datore di lavoro, è altrettanto vero che, per la sua natura di norma di chiusura del sistema di sicurezza, esso obbliga il datore di lavoro non solo al rispetto delle particolari misure imposte da leggi e regolamenti in materia anti infortunistica, ma anche all'adozione di tutte le altre misure che risultino, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, necessarie a tutelare l'integrità fisica dei lavoratore, salvi i casi di comportamenti o atti abnormi ed imprevedibili del lavoratore medesimo, ma non di colpa di quest'ultimo. In sostanza le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente (…)”.
Il datore di lavoro dell’azienda o unità produttiva del lavoratore inviato all’estero deve, quindi, assicurare idonee misure per la tutela della salute e della sicurezza secondo i livelli prescritti dalle norme di prevenzione della normativa italiana, avuto riguardo al principio appena richiamato. Ciò è ulteriormente confermato dalla circostanza che (come si evince, peraltro, dalla ampiezza delle informazioni che si trovano al riguardo sul sito dell’INAIL, al quale si rinvia per approfondimenti sul punto) il lavoratore rimane anche assicurato INAIL in Italia.
In termini pratici di fondamentale rilevanza è la programmazione e realizzazione di una corretta valutazione dei rischi, della quale, in caso di invio di lavoratori all’estero, deve fare parte integrante la considerazione dei rischi ai quali sono esposti tali lavoratori; ciò per pianificare e realizzare (nei limiti del possibile) tutte le misure che siano idonee a tutelare il lavoratore “mandato” , per ragioni produttive, fuori dall’Italia. In tale logica il datore di lavoro italiano deve considerare i c.d. “rischi generici aggravati”, vale a dire i rischi concernenti le caratteristiche geografiche e climatiche della località estera, le condizioni sanitarie, le caratteristiche culturali, politiche e sociali della comunità, il rischio di guerre o secessioni e l’adeguatezza delle strutture di supporto per l’emergenza e il pronto soccorso. Di conseguenza, le misure da adottare saranno protocolli sanitari, notizie da fornire ai lavoratori relativamente alla security e simili. A tale riguardo, va detto che le procedure “interne” utilizzate da aziende italiane che, da molti anni, svolgono attività all’estero – anche in zone a rischio pandemia e/o guerra – hanno raggiunto, come ho potuto personalmente constatare nelle mie collaborazioni professionali, livelli di grande puntualità ed efficacia, costituendo un importante patrimonio di conoscenze che andrebbe, casomai, esteso (magari divulgando tali “buone prassi” attraverso soggetti pubblici come il Ministero del lavoro, l’INAIL o le Regioni, a seguito di “validazione” da parte di tali soggetti delle esperienze aziendali) alle imprese che, non avendo tale background operativo, si accingano ad inviare maestranze all’estero.
Tornando, però, alla domanda iniziale, va sottolineato che le modalità di gestione del lavoro all’estero vanno sensibilmente differenziate – pur nel medesimo contesto normativo di riferimento, al quale si è accennato nelle precedenti righe di questo contributo – a seconda che:
A) Il Paese in cui si invii il lavoratore sia “in area UE”
B) Il Paese in cui si invii il lavoratore sia in un Paese “extra UE”.
Ai lavoratori distaccati in ambito comunitario si applicano, in particolare, le disposizioni di cui alla direttiva n. 97/71/CE, la quale prevede che la normativa applicabile sia quella del Paese ospitante. In caso di invio di un lavoratore presso un Paese UE è possibile per il datore di lavoro fare affidamento su un “substrato” comune di regole che permette una sorta di reciprocità tra i regimi giuridici applicabili. Ad esempio, le parti possono concordare che si applichi interamente la normativa del Paese ospitante e il datore di lavoro che invia il lavoratore può essere relativamente tranquillo rispetto alla coerenza tra i sistemi giuridici (es.: la valutazione dei rischi ha sostanzialmente gli stessi contenuti nell’area dei Paesi UE). Ne deriva che qualunque sia lo Stato dell'Unione europea in cui venga svolta la prestazione, purché questo abbia recepito le direttive comunitarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro, applicando la normativa locale vengono sicuramente garantite misure di prevenzione con i livelli i essenziali di tutela equivalenti a quelli italiani.
Nel caso di invio di un lavoratore in un Paese non europeo non è, invece, possibile fare affidamento su un sistema uniforme tra il Paese di provenienza ed il Paese UE. Il datore di lavoro deve, in questo secondo caso, quindi valutare quanto le regole del Paese in cui si invia il lavoratore siano adeguatamente “sicure” per il lavoratore. Ciò perché, si ripete, anche nei Paesi extracomunitari il datore di lavoro dovrà garantire livelli di tutela equivalenti a quelli previsti dalle norme di prevenzione del nostro Paese. Di conseguenza, nei cosiddetti “Paesi a rischio”, individuabili anche in base alle informazioni reperibili sul sito del Ministero competente (Affari esteri, c.d. “Farnesina”), dovrà essere data particolare valenza alla valutazione dei possibili “rischi generici aggravati”. Ad esempio, in materia di requisiti di sicurezza di apparecchiature e macchine, si evidenzia che gli standard vigenti in Europa, emanati dagli organi di normazione europei CEN, CENELEC, ETSI, sono equivalenti a quelli internazionali emanati dagli organismi di normazione internazionale ISO, IEC, ITU, o a quelli recepite dagli organismi nazionali di normazione dei Paesi extraeuropei.
Un brevissimo cenno va fatto all’ipotesi “inversa” rispetto a quella sin qui considerata, corrispondente alla circostanza che l’azienda italiana si avvalga di personale straniero che lavori in Italia, la quale va inquadrata alla luce dei medesimi principi sin qui riportati, che verranno attuati in modo “simmetrico” rispetto a quanto appena esposto. A tali lavoratori si applicherà la normativa che le parti hanno individuato come riferimento e, comunque, al lavoratore straniero operante in Italia andrà garantito dalle parti (compresa, quindi, l’azienda italiana “ospitante”) un livello di tutela coerente con quello che il nostro Paese garantisce al lavoratore italiano che opera – magari svolgendo medesime mansioni rispetto al lavoratore straniero – nella medesima azienda.
A tale ultimo riguardo – fermo restando che l’argomento meriterebbe uno specifico approfondimento, che qui, per ragioni di economia della trattazione, non è possibile effettuare – interessante appare quanto recentemente esposto dalla Suprema Corte (Cass. pen., sez. IV, 27 Agosto 2014, n. 36268) nel caso di un infortunio occorso ad un lavoratore di una ditta straniera (per la precisione, di nazionalità croata) in un cantiere italiano, evidenziando come rispetto alla impresa straniera: “…l'imputato avesse omesso di esaminare la documentazione relativa alla sicurezza del lavoro dell'impresa appaltatrice e non avesse esercitato controlli e verifiche…” in ordine alla capacità tecnico-professionale dell’azienda straniera ad operare “in sicurezza”, come richiesto dalla normativa italiana (articolo 26 e Titolo IV del d.lgs. n. 81/2008). In particolare, secondo la Corte di Cassazione, anche nei riguardi di una impresa non italiana“la posizione di garanzia del datore di lavoro in merito alla scelta dell’impresa appaltatrice trova la sua ragion d'essere nella finalità di evitare che, attraverso la stipula di un contratto di appalto, vengano affidate all'appaltatore lavorazioni o mansioni che il singolo lavoratore non sia in grado di svolgere, con incremento del rischio per la sua sicurezza. (…) Si può, dunque, desumere dalla norma in esame una precisa regola di diligenza e prudenza che il committente dei lavori dati in appalto è tenuto a seguire e, in particolare, l'obbligo di accertarsi che la persona alla quale affida l'incarico sia, non solo munita dei titoli di idoneità prescritti dalla legge, come si evince dal riferimento, comunque non esclusivo, al certificato della Camera di Commercio, ma anche della capacità tecnica e professionale proporzionata al tipo di attività che deve esserle commissionata e alle concrete modalità di espletamento della stessa. In altre parole, tale norma svolge funzione integrativa del precetto penale che sanziona il reato di lesioni colpose ponendo a carico del committente l'obbligo di garantire che anche l'impresa appaltatrice che svolge attività nella sua azienda si attenga a misure di prevenzione della cui inosservanza lo stesso committente sarà chiamato a rispondere”.
Avv. Lorenzo Fantini
Avvocato giuslavorista, già dirigente (anni 2003-2013) delle divisioni salute e sicurezza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali
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Rispondi Autore: Fulvio Beneggi - likes: 0 | 13/03/2015 (02:18:47) |
L'autore scrive: "Ne deriva che qualunque sia lo Stato dell'Unione europea in cui venga svolta la prestazione, purché questo abbia recepito le direttive comunitarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro",.. Spero che tutti i Paesi abbiano recepito le Direttive europee sulla sicurezza sul lavoro? Se no, quali Paesi? Distinti saluti. Fulvio Beneggi |
Rispondi Autore: Andrea - likes: 0 | 13/03/2015 (08:30:00) |
beh..l'Italia per esempio..non ha recepito tutte le Direttive comunitarie e per questo prendiamo anche delle multe salate! |
Rispondi Autore: Stefano Arcangeli - likes: 0 | 13/03/2015 (15:56:48) |
Una chiara spiegazione che ci illumina e definisce al di la di ogni dubbio un agomento spinoso e delicato la cui applicazione in campo è spesso tutt'altro che semlpice. Come di consueto per questo professionista, grande competenza esperienza e dettaglio normativo. Grazie per l'utilissimo articolo. |
Rispondi Autore: Claudio Stellato - likes: 0 | 16/03/2015 (08:37:52) |
In un paese, l'Italia, dove la legge 81/08 è vista come un obbligo da assolvere e non come un'opportunità da parte del DDL, poco importa se le direttive europee siano state recepite o meno. Bisogna lavorare sull'informazione e sulla cultura della sicuurezza. Non "imporre" ma far comprendere quanto sia importante rispettare una normativa che mira al miglioramento delle condizioni di sicurezza per i lavoratori. Abbiamo veramente recepito le direttive europee? Buona giornata a tutti e "buona sicurezza". |
Rispondi Autore: dario tripiciano - likes: 0 | 17/03/2016 (09:48:32) |
Interessante articolo, esiste tuttavia un ulteriore caso, ovvero lavoratore di nazionalità straniera assunto da ditta italiana e operante all'estero. Caso pratico: lavoratore di nazionalità algerina assunto da ditta italiana per rappresentarla (tecnicamente e commercialmente) presso un impianto chimico in Algeria. Che normativa si applica? Formazione 81/08 rischio alto? Valutazione del rischio (probabilmente specifica della singola attività?)? DPI marcati CE? |
Rispondi Autore: Alessio Porto - likes: 0 | 23/03/2016 (07:44:49) |
Innanzi tutto vorrei ringraziarla e farle i complimenti per l'articolo. Poi, avrei una semplice domanda: Nel caso in cui un lavoratore italiano fosse portato all'estero e l'azienda fornisse l'alloggio, essa sarebbe responsabile della sicurezza del lavoratore presso l'alloggio stesso? Ovvero, giuridicamente, l'alloggio verrebbe considerato alla stregua del posto di lavoro? |
Rispondi Autore: Luca Voch - likes: 0 | 10/05/2016 (14:19:35) |
Dal punto di vista della sicurezza/salute il sistema sembra essere valido, il vero problema della formula del distacco è però quello della evidente lesione del principio di concorrenza leale. Difatti le migliaia di lavoratori distaccati versano i contributi previdenziali/sociali nelle casse degli enti dei Paesi d'origine, l'entità di questi versamenti risulta essere nettamente inferiore a quelli richiesti dai nostri INPS e INAIL (risultato: preventivi eccezionali). Così facendo il mercato sta rapidamente cambiando e mettendo in forte crisi l'impresa italiana e di conseguenza i lavoratori italiani. L'intuizione dell'Europa unità è sicuramente valida ma queste storture rischiano davvero di creare più danni che altro. |