Per utilizzare questa funzionalità di condivisione sui social network è necessario accettare i cookie della categoria 'Marketing'
Crea PDF

Le parole per dirlo

“Com’è successo che …?”. Le parole che vengono utilizzate per descrivere un evento possono arrivare a cambiare profondamente il suo divenire all’orecchio in noi che ascoltiamo. Questo vale per un testo letterario, per le indicazioni per una procedura di lavoro e ancor di più per la descrizione di un evento come può essere un incidente inatteso. Il fatto è che ogni testo è in fondo come una sorta di macchina pigra che, per funzionare, richiede una partecipazione attiva, sia che lo ascoltiamo, sia che lo leggiamo. Quando Guttenberg inventò i caratteri mobili, non solo fece nascere il libro, che negli anni ha creato un pubblico sempre più vasto di lettori, ma ha anche avviato l’evoluzione del linguaggio con il quale era scritto determinato proprio dalla reazione degli stessi. Poi con le prime “gazette” l’uso delle parole subì una nuova e sostanziale evoluzione per il fatto che si trattava di un giornale con un numero preordinato di pagine, che doveva uscire a scadenze periodiche. Il solo aumento del numero di parole utilizzate cambiò il modo di comunicare. 

A volte la descrizione che produciamo con il linguaggio ci appare nitida, ma il più delle volte è come avvolta da un sottile strato di nebbia che ne oscura i dettagli. Dettagli che, inevitabilmente, mettiamo a fuoco sulla base dei nostri valori pregressi o, più semplicemente, secondo i criteri di lettura della realtà che ci appartengono e condividiamo con gli altri. 

Pubblicità
MegaItaliaMedia

Sempre più il compito di chi comunica è quello di connettere tra loro aspetti razionali con le loro implicazioni culturali, sociali ed emotive. Solo la conoscenza e l’opera di condivisione di questi rende la comunicazione efficace. In particolare, occorre ricordare che trattando qualche cosa che ha a che fare con il reale, accanto al principio della verità (“le cose sono andate così”), entra in gioco anche quello della fiducia (“te lo dico io”). D’altra parte, crediamo vere molte cose che accadono o sono accadute nel passato fondamentalmente sulla base di questo secondo principio. Ma la verità o meno delle parole utilizzate non è sempre semplice da determinare. Ad esempio, se dicessimo che Penelope è la moglie di Odisseo, ben pochi lo considererebbero un falso, ma se aggiungessimo che lo stesso Odisseo è l’aiutante di Scherlok Holmes, questa seconda frase risulterebbe un falso. Occorre, quindi per definirne l’attendibilità, circoscrivere prioritariamente il contesto nel quale vengono pronunciate le parole. Affermazione tutt’altro che banale perché i terrapiattisti sono tra noi, come quelli che attendono il ritorno di Re Artù dall’isola di Avalon. 

Certo, può essere divertente immaginare una diversa conclusione anche delle storie che conosciamo. Philip Dick ha scritto un libro nel quale racconta della vittoria di Hitler nella seconda guerra mondiale (La svastica nel sole – 1962). Un romanzo che risulta gradevole perché sappiamo che la stessa guerra è finita in modo ben diverso, con la sconfitta di Hitler. Ecco allora che la condivisione del contesto comunicativo è una tappa essenziale per le parole che vengono pronunciate. Per rimanere all’interno degli esempi fin qui proposti, definire se stiamo parlando di un contesto storico o romanzato è importante, ma non semplice e agevole come l’attuale vicenda del Covid19 ci sta indicando. 

Le possibili strategie comunicative 
Affrontiamo il tema delle strategie comunicative utilizzando degli esempi tratti dalla letteratura proprio perché il nostro intento non è scrivere l'ennesimo articolo relativo alle tecniche comunicative, ma di contribuire ad accrescere la consapevolezza sul tema. 

Un primo esempio ci viene da “La metamorfosi” di Frank Kafka (1915), dove si legge: 
"Destandosi un mattino da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò tramutato, nel suo letto, in un enorme insetto”. 

La sorpresa determinata da queste parole non è supportata da nessuna spiegazione del perché sia avvenuta questa metamorfosi. L'autore ci chiede di accettare che questa è la realtà vissuta da Samsa. 

Queste parole non permettono a noi che le leggiamo di comprendere cosa sta accadendo. D'altra parte, è troppo difficile pensare, per chiunque di noi di svegliarsi trasformato in uno scarafaggio: chi si addormenterebbe con la preoccupazione che questo avvenga? 

Nel caso di Kafka ci troviamo di fronte a poche e lapidarie parole, ciò non significa però, che aumentandone il numero accresca la qualità della comunicazione. Per vederlo prendiamo in prestito due brani letterari. Il primo è dello psicologo statunitense Roger Schank (1946): 

“Gianni amava Maria ma lei non voleva sposarlo. Un giorno, un drago rapì Maria dal castello. Gianni balzò in groppa al suo cavallo, e uccise il drago. Maria acconsentì a sposarlo. Vissero felici e contenti da allora in poi." 

Anche in questo caso il numero delle parole aumenta e lo scenario che descrivono si approfondisce. Ciò nonostante, le cose non dette superano di gran lunga il contenuto del testo e siamo indotti a porci una serie di domande le cui risposte arrivano a determinare la possibilità di costruire storie profondamente diverse tra loro. Vediamone alcune: Perché Maria non voleva sposare Gianni e cosa poi l’ha spinta a cambiare decisione. Perché il drago ha rapito Maria. Perché Maria viveva in un castello. Come ha fatto Gianni a uccidere il drago. Perché per raggiungere il drago Gianni si è servito di un cavallo e perché per farlo gli è balzato in groppa. Già solo la risposta a queste semplici domande, ma ve ne sono anche tante altre, cambia profondamente il senso della vicenda che abbiamo appena letto e le sue possibili interpretazioni. 

Passiamo a un brano tratto dal libro di Achille Campanile “Agosto, moglie mia non ti conosco” (1930). Campanile è stato giornalista e scrittore, noto per il suo umorismo 

“Gedeone fece gran gesti di richiamo a una carrozza che stazionava in fondo alla strada. Il vecchio cocchiere scese di serpe a fatica e venne premurosamente, a piedi, verso i nostri amici, dicendo: "In che posso servirli?" "Ma no," gridò Gedeone impazientito "io voglio la carrozza!" "Oh," fece il cocchiere, deluso "credevo che volesse me." Tornò indietro, rimontò in serpe e chiese a Gedeone, che aveva preso posto in vettura con Andrea: "Dove andiamo?" "Non glielo posso dire" esclamò Gedeone, che voleva mantenere il segreto sulla spedizione. Il cocchiere, che non era curioso, non insisté. Tutti rimasero per qualche minuto a guardare il panorama, senza muoversi. Alla fine Gedeone si lasciò sfuggire un: "Al castello di Fiorenzina!", che fece trasalire il cavallo e indusse il cocchiere a dire: "A quest’ora? S’arriva di notte." "È vero," mormorò Gedeone "ci andremo domattina. Vieni a prenderci alle sette in punto." "Con la carrozza?" chiese il cocchiere. Gedeone rifletté qualche istante. Alla fine disse: "Sì, sarà meglio." Mentre si dirigeva alla pensione, si volse di nuovo al cocchiere e gli gridò: "Ohè, mi raccomando; anche col cavallo!" "Ah, sì?" fece l’altro, sorpreso. "Come vuole, del resto”. 

In questo testo all’inizio troviamo molte informazioni espresse solo implicitamente, di cose non dette senza le quali però ogni azione diviene senza senso. Giungono successivamente una sequela di precisazioni che al nostro orecchio sembrano del tutto inutili per determinare quello che accadrà, passo dopo passo, ma che appaiono riempire l’insieme di significato. A titolo di esempio si arriva a precisare che il cocchiere andrà a prendere Gedeone con la sua carrozza e lo farà con il suo cavallo. Campanile ci mostra che tutto quello che non nomina e descrive espressamente viene sottinteso, come corrispondente alle leggi e alla situazione del mondo, a quella che tutti sembrano conoscere e ri-conoscere. 

Sembra dirci che non c’è nulla di nuovo da aspettarsi: in fondo tutto è in realtà conosciuto, almeno implicitamente. È quello che ci dice e scrive Erich Maria Remarque con lo stesso titolo del suo libro: “Nulla di nuovo sul fronte occidentale” (1929). Uno dei più intensi libri sulla follia della guerra. Un “nuovo” che semplicemente non riusciamo a vedere nella rassicurante certezza che ci fornisce il titolo: non accade nulla di nuovo atto a sconvolgere le nostre conoscenze e certezze. 

Come già sottolineato all’inizio il contesto nel quale vengono pronunciate le parole ha rilevanza notevole. Contesto che però può anche non essere dichiarato, ma appartenere alla lettura condivisa che ne danno coloro che ascoltano. L’esempio è quanto avvenuto il 30 ottobre del 1938, negli Stati Uniti, quando Orson Welles organizzò la versione radiofonica della “Guerra dei Mondi”. Wells, insoddisfatto della semplice trasposizione e dalla poca incisività della storia, ha l’intuizione di costruire il dramma come una serie di notizie trasmesse durante un programma musicale con l’orchestra di Ramon Raquello. Questa soluzione fornì alla storia una sua veridicità, anche se alla fine il risultato, dal punto di vista puramente artistico, secondo lo stesso regista, non risultò brillante. Gli ascoltatori della radio non si sintonizzarono tutti nello stesso orario (si stima che ciò sia avvenuto da 5 a 7 minuti dall’inizio). Non essendo tutti informati che si trattasse di un radiodramma reagirono in modo diverso, anche perché, la trasmissione si presentava come un programma musicale interrotto da notizie flash. A fornire maggiore credibilità alle notizie è il fatto che l’evento è ambientato in luoghi veramente esistenti nel New Jersey. Le reazioni sono immediate: le persone abbandonano i loro posti di lavoro e cercano di allontanarsi dalla città in tutti i modi. Questa reazione permane nonostante dopo 40 minuti venga ripetuto per ben due volte che si tratta di una commedia: nulla sembra in grado di fermare la reazione già innescata. 

Eppure, c’erano molti motivi che avrebbero dovuto far capire che si trattava di una finzione (ogni domenica sera alla radio andava in onda un radiodramma), ma anche un contesto culturale che le forniva credibilità. In particolare, la condivisa preoccupazione che vivevano in quel periodo negli Stati Uniti riguardo alla possibilità di una guerra in Europa (solo un mese prima Hitler aveva invaso la Cecoslovacchia), dopo i gravi lutti e i profondi problemi sociali che avevano colpito i reduci dal primo conflitto mondiale. 

I marziani venivano a rappresentare e a coagulare tutte queste paure. Ha pesato anche la sensazione di essere assolutamente impotenti di fronte all’evento, accentuata forse dal fatto che il radiodramma si concludesse con la morte dei marziani a causa di alcuni batteri terrestri e non per l’azione dell’uomo. Parafrasando March Bloch possiamo dire che appare evidente come questa reazione collettiva nasca da idee e rappresentazioni mentali che preesistevano. Il collegamento tra la trasmissione di Welles e la reazione popolare è solo apparentemente casuale o, meglio, possiamo considerare del tutto fortuita la scelta della commedia da rappresentare. Il fatto è che essa ha fatto scattare un lavoro di immaginazione che era già silenziosamente preparato. 

L’importanza del contesto comunicativo acquistò una notevole importanza anche in un fatto di cronaca nera. Il 23 ottobre del 1963 Jack Ruby uccise con un colpo di pistola Lee Ovwald, che pochi giorni prima aveva sparato al presidente Kennedy. Ebbene gli avvocati di Ruby rifiutarono costantemente ogni giurato, chiamato a far parte del collegio giudicante, perché affermavano che gli stessi si erano già fatti una loro idea avendo assistito alla diretta televisiva dell’omicidio. 

Che la condivisione delle parole e dei loro significati sia decisiva per la comunicazione e in particolare per le reazioni che provoca e gli scenari che apre a chi le legge, lo troviamo in due esempi emblematici della letteratura italiana. “La sventurata rispose”, sono le parole con cui Manzoni (Promessi Sposi, 1825) tratteggia l’inizio della vicenda dei rapporti tra Geltrude e Egisto. Lapidario ed efficace: in quell’aggettivo “sventurata” c’è sia la condanna sia il compiangere la futura monaca di Monza. Solo condanna troviamo in quel “e l’infame sorrise” con cui De Amicis (Cuore, 1886) descrive la reazione di Franti a quanto afferma il direttore della scuola quando incontra la madre del ragazzo e dice “Franti, tu uccidi tua madre”. Poche parole, in entrambi i casi, che acquisiscono un significato perché il contenuto morale attribuito dallo scrittore e dal lettore sono analoghi. Certo che se le parole di Manzoni fossero il prologo alla sceneggiatura di un film hard, la parola “sventurata” perderebbe di significato, come accadrebbe con Franti se leggessimo la descrizione dell’incontro tra il Direttore della scuola e la madre del ragazzo alla luce dei suoi connotati Kitsch. 

Una piccola storia indiana 
Per concludere una piccola storia indiana, in una delle tante versioni che ci sono giunte, che ci aiuta a comprendere come solo la condivisione del conoscere può favorire il sapere e garantire la comunicazione. 

“C’era una volta una città dove tutti gli abitanti erano ciechi. Un giorno un principe straniero che stava attraversando il paese, si fermò ai piedi dei bastioni della città a cavallo di un animale straordinario. Nessuno ne aveva mai visto uno simile e poteva immaginarne l’aspetto. Sei saggi furono invitati a toccare l’animale in modo da descriverlo a tutti gli altri. Al ritorno furono accolti dal popolo incuriosito. “Beh, disse il primo uomo – è come un grosso ammasso ruvido”. “Assolutamente no – disse il secondo – è come un paio di ossa lunghe”. “Niente affatto – disse il terzo – sembra una corda molto spessa”. “Sbagliate tutti – disse il quarto – è potente e solido come un tronco d’albero”. “Non so cosa state dicendo – disse il quinto – è come un muro che respira”. “Non è vero – gridò il sesto – è come una lunga piccola coda”. 

I sei saggi cominciarono a discutere, ognuno rifiutandosi di ascoltare gli altri cinque. La gente non sapeva più chi di loro avesse ragione. Disturbato da tanto rumore, il Principe andò a vedere cosa stesse succedendo e disse: “tutti questi uomini dicono il vero, ma ognuno di loro guarda solo una parte dell’animale. Finché ognuno di loro penserà che solo ciò che dice è giusto, non sapranno mai tutta la verità”. Il principe descrisse nuovamente l’animale mettendo insieme tutti e sei i racconti, così la gente del paese riuscì finalmente a comprendere: era un elefante”. 

Antonio Zuliani & Wilma Dalsaso 

Fonte: Pde, n. 35


Per visualizzare questo banner informativo è necessario accettare i cookie della categoria 'Marketing'

Pubblica un commento

Ad oggi, nessun commento è ancora stato inserito.

Pubblica un commento

Banca Dati di PuntoSicuro


Altri articoli sullo stesso argomento:


Forum di PuntoSicuro Entra

FORUM di PuntoSicuro

Quesiti o discussioni? Proponili nel FORUM!