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Formazione per la sicurezza, un abito prevenzionistico su misura

Formazione per la sicurezza, un abito prevenzionistico su misura

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Categoria: Informazione, formazione, addestramento

15/02/2022

La necessità strategica di coltivare una cultura della formazione che va di pari passo con quella della sicurezza e l’importanza di un processo formativo adattativa e dinamico. A cura di Rita Somma.

L’obbligo formativo, come misura di prevenzione dai rischi per i lavoratori e gli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale, ha comportato senz’altro passi avanti nel garantire sicurezza nei luoghi di lavoro ma, l’osservazione della realtà, ci dice che qualcosa ancora non funziona come dovrebbe. Troppo spesso, infatti, la formazione è relegata ad un mero obbligo formale, fatto di carte ed attestati (quando non sono fasulli), canalizzata in una logica capitalistica che la fa intendere come un bene di consumo, un oggetto come un altro che può essere commercializzato nell’ottica neoliberale di mercato, che non garantisce così il raggiungimento dell’obiettivo prefissato: quello di favorire sicurezza.

Formazione che non è la panacea di tutti i mali, ma costituisce senz’altro un punto di partenza per poter operare in sicurezza. Una formazioneperò che, se inefficace, non sposta di un millimetro il problema. Lo scopo dell’azione formativa deve essere il raggiungimento dell’obiettivo educativo, non quello certamente di inseguire un attestato fine a sé stesso. Per trasferire ai lavoratori le conoscenze utili all’acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei compiti, si sa, oltre alla forma ci vuole la sostanza. Il legislatore sembra essersi accorto della questione e, nelle più recenti modifiche al D. Lgs. 81/08 (Legge 17 dicembre 2021, n. 215 di Conversione del decreto-legge 21 ottobre 2021, n. 146), ha introdotto novità importanti proprio in materia di formazione, seppur rinviandone sostanzialmente l’applicabilità a modalità attuative da definirsi con successivi ASR. 


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La speranza è che questi preannunciati Accordi trattino adeguatamente gli aspetti qualitativi che oggi sembrano non sempre essere all’altezza dell’importante compito, ma che impattano prepotentemente sull’efficacia dell’azione formativa: soggetto formatore, docente formatore, contenuti, metodologia didattica, modalità di verifica, etc., questioni che gli addetti ai lavori conoscono bene e che necessitano senz’altro di un intervento per garantire qualità. La sfida però dovrà essere anche quella, altrettanto ardua, di indirizzare verso una progettazione formativa inclusiva della persona, per garantire percorsi performanti ed equità di accesso all’acquisizione di competenze, spostando l’obiettivo oltre la mera applicazione delle indicazioni prescrittive, talvolta poco coerenti con una rappresentazione delle persone e delle loro specifiche necessità. Una progettazione coerente con il risultato finale atteso non può, infatti, prescindere dalla peculiarità del destinatario del processo, dalla sua unicità. Siamo così abituati a parlare di lavoratori, considerati come insieme unitario, standardizzandoli in base al comparto o al rischio, che spesso ci dimentichiamo che ognuno di loro ha una singolarità, una propria storia e caratteristiche che lo rendono unico. Per soddisfare le reali esigenze formative dei lavoratori è importante sapere “chi sono” questi lavoratori, comprendere le capacità, caratteristiche e conseguentemente le specifiche necessità. Fattori soggettivi, quali: età, esperienze pregresse, abilità, genere, istruzione, cultura, caratteristiche personali impattano non poco sulla scelta dell’adeguato percorso formativo e nel decretarne quindi il successo o l’insuccesso.

Le norme indirizzano per la definizione del fabbisogno formativo, ma richiamano necessariamente “tipizzazioni” omogeneizzanti di un lavoratore-tipo, rappresentato nelle sue condizioni dominanti. Ma non tutte le situazioni sono uguali, non tutti i lavoratori sono uguali. Risulta pertanto importante conservare questa consapevolezza nel momento della sua applicazione e, una volta definito l’obiettivo, reintrodurre le variabili che erano state date provvisoriamente per costanti, ragionando quindi sulla persona reale, con tutte le sue sfaccettature e la sua complessità, e non su quella idealizzata. Se questo non avviene, il risultato non risolve in problema, oppure il problema non era quello che era stato inizialmente affrontato. Dalla generalizzazione normativa dunque le organizzazioni devono passare, nell’articolazione del percorso formativo, necessariamente alla specificità, andando oltre gli stereotipi, adattandolo rispetto al destinatario. Il percorso formativo del lavoratore va cucito addosso, in modo sartoriale, partendo certamente dall’orientamento normativo, che deve costituire il punto di partenza e non di arrivo, ma in una progettazione che deve imprescindibilmente considerare la dimensione qualitativa soggettiva, condizione propedeutica per la definizione di strategie educative maggiormente coerenti alle necessità, con un unico obiettivo legittimo: quello di generare competenza. Non bisogna entrare in scena con un copione prestampato, ma interpretare in base agli attori e alla storia da recitare, contaminarsi con il luogo (il palinsesto è tutto, compresi gli altri attori). La standardizzazione tout court delegittima la formazione proprio perché incapace di incorporare le esigenze specifiche.

L’analisi progettuale deve quindi includere imprescindibilmente la qualità della prestazione e l’impatto sul lavoratore. La formazione, inclusiva della persona, diventerebbe così anche la chiave per i datori di lavoro per investire nel benessere nei lavoratori ed aumentarne la produttività. L’idea è quella di una formazioneche deve avere un obiettivo strategico di ampio respiro, per garantire sicurezza negli ambienti di lavoro e mettere al centro il lavoratore, puntando all’empowerment, all’acquisizione di competenze tali per consentire la partecipazione attiva alla costruzione delle condizioni di sicurezza e prevenire infortuni, in una chiave interpretativa ampia, che rientra nell’ottica più generale di consapevolezza della cultura della sicurezza, che così può liberarsi della demagogia e dalla retorica.

Una prospettiva questa non nuova. La norma tecnica di riferimento per il rischio elettrico CEI 11-27 (ultima ed. 09-2021), ad esempio, indica espressamente che durata ed ampiezza dell’attività formativa devono essere definite dal datore di lavoro anche in base al background e alle caratteristiche personali (preparazione scolastica, esperienza pregressa, attitudini, età, ecc.) ed in relazione alla complessità dei lavori che dovranno essere svolti, con un ruolo di primo piano che deve essere assegnato all’addestramento operativo, alla simulazione ed all’affiancamento.

Se vogliamo una formazionedi qualità, dobbiamo puntare alla qualificazione, all’effettività delle competenze acquisite, garantendo che il personale impegnato nell’esecuzione dell’attività sia davvero in grado di conoscere e percepire i rischi, conosca le specifiche prescrizioni di sicurezza e le procedure aziendali applicabili al lavoro. Passi avanti sono stati fatti ma ancora molto c’è da fare, non solo per la cultura della sicurezza ma per consolidare una diffusa cultura della formazione. L’insieme sicurezza e formazione d'altronde rispecchia la doppia faccia di una stessa medaglia.

Ed è proprio questo passaggio culturale, da una politica della formazione solo prescrittiva a quella in ottica davvero preventiva, se vogliamo trasversale a tutti gli aspetti di sicurezza, che deve diventare grimaldello interpretativo comune ed elemento chiave di svolta, anche per migliorare il valore e la competitività delle imprese.È necessario quindi uscire dalla routine nella quale la formazione sembra caduta, ragionare in modo indipendente o, se si vuole, insubordinato verso i processi di appiattimento prodotti dall’attuale sistema di gestione della formazione, con una nuova formulazione di più ampio respiro che risponde alla necessità di porre le persone reali al centro delle strategie.

In fondo dire che la formazione deve essere adattativa vuol dire che tutto ciò che può impattare con la tutela della salute e della sicurezza deve essere progettato in ottica preventiva reale. Potrebbero aiutare in tal senso riferimenti e regolamenti normativi chiari che promuovono qualità (del soggetto formatore, del docente formatore, della progettazione, metodologica, etc.) e possano rappresentare un orientamento valoriale solido, oltre che prescrittivo. Non che la definizione di norme maggiormente pregnanti possa costituire la terapia per ogni problematica ma, se consideriamo che le norme costituiscono una bussola di riferimento fondamentale per stabilire ed indirizzare verso un comportamento condiviso, è chiaro che questo può costituire un primo problema ostativo nella gestione di tale aspetto.

Il ruolo delle istituzioni è fondamentale per favorire (o meno) questo passaggio. L’invito al legislatore è quello di promuovere politiche che aiutino ad uscire dall’ottica della carta e indirizzino verso una formazione di sostanza e qualità. Il diritto è elemento strutturale ma anche fattore di promozione di processi di cambiamento, anche culturale. La buona volontà non basta, è necessario avere un progetto strutturato e radicale. Una cosa è certa, la formazione per la sicurezza dovrà essere ripensata ma, ancora una volta, dobbiamo domandarci chi sarà a guidare il processo e trovare la via. 



Rita Somma

consulente H&S, sociologa del lavoro, consigliere nazionale AiFOS

Fonte: AIFOS




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Rispondi Autore: Carmelo Catanoso - likes: 0
15/02/2022 (08:14:30)
Ottimo articolo.

Speriamo lo leggano anche coloro (sempre gli stessi), chiamati a scrivere questo nuovo Accordo.
Magari sarà la volta buona che capiranno che è necessario coinvolgere da subito anche chi opera professionalmente, nelle aziende e con le aziende, nella progettazione, organizzazione, erogazione e valutazione dei processi formativi, in modo da avere più ampia del problema.
Speriamo.
In caso contrario avremo l'ennesimo provvedimento che spaccera' per formazione ciò che formazione non è continuando a fare un altro assist ai tanti "corsifici" nati dal nulla negli ultimi anni.
Rispondi Autore: Giovanni Bersani - likes: 0
15/02/2022 (12:29:59)
Grazie per l'ottimo articolo (mi trovo a ripetere il commento sopra...).
Io trovo fondamentale "guardare negli occhi" i discenti, cercare di mettermi nei loro panni per quanto possibile, e scrivere sulla lavagna (...poco, le parole chiave). E trovo fondamentale avvalermi sempre del QUESTIONARIO ANONIMO DI VALUTAZIONE finale, con pochissime domande a risposta chiusa e con ampio spazio bianco per commenti liberi: sono uno strumento utile per migliorare, e per sapere se si è sulla buona strada (a volte poi mi commuovo anche... ed è bello).
Rispondi Autore: Prof. Rocco Vitale, Presidente AiFOS - likes: 0
15/02/2022 (16:55:14)
Un articolo importante che deve (dovrebbe) guidare l'impostazione del n uovo Accordo Stato Regioni. Non è un caso che le modifiche previste dalla Legge 215 del 17 diembre 2021 oltre all'importanza ed al nuovo ruolo che verrà ad assumere l'Ispettorato Nazionale del Lavoro la sostanza si trova nella nuova formulazione dell'art. 37 che viene di fatto rimandata al 30 giugno con la stesura di un nuovo unico Accordo.
Il tema pienamente centrale sviluppato da Rita Somma a questo punto sarà centrale per l'intero accordo e specificamente per la formazione del datore di lavoro.
Rispondi Autore: Salvatore Donato Consonni - likes: 0
15/02/2022 (17:22:47)
Gent.ma D.ssa Somma,

commento volentieri il Suo gradito articolo.

Già sull’incipit c’è molto da riflettere. Lei dice:
“L’obbligo formativo, come misura di prevenzione dai rischi per i lavoratori e gli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale, ha comportato senz’altro passi avanti nel garantire sicurezza nei luoghi di lavoro ma, l’osservazione della realtà, ci dice che qualcosa ancora non funziona come dovrebbe”.

L’osservazione della realtà di cui parla è ben rappresentata, ad esempio, dalle statistiche, in particolare di quelle nefaste del numero dei morti sul lavoro ogni anno. Se andiamo a rivederle a partire dall’introduzione del D.Lgs. 626/94, scopriamo che in quasi un trentennio i passi avanti di cui parla, non sono mai stati percorsi. Lei aggiunge che “qualcosa ancora non funziona come dovrebbe”. Altro che qualcosa, direi: non funziona per niente, a partire dal fatto che molti enti e formatori che vanno in aula per fare formazione non hanno ancora capito cosa significhi il termine “formazione”.

La formazione non è solo mera istruzione, intesa come acquisizione di nozioni (sapere) o di abilità (saper fare), ma soprattutto “saper essere”, ovvero acquisire la dimensione scientifico – umanistica che associa il sapere e le abilità acquisite nelle sessioni di istruzione (quelle che si fanno normalmente, e che vengono chiamate erroneamente formazione) alla presa di coscienza dell’importanza delle nozioni acquisite; la sensibilità verso i valori umanistici, quali ad esempio il rispetto per sé e per gli altri (che sta alla base della sensibilità al mantenimento della propria ed altrui integrità fisica e morale); la consapevolezza del potenziale impatto su sé stessi e sugli altri dell’esercizio delle abilità acquisite, che può condurre al senso di responsabilità. Quest’ultimo è un concetto di cui tanto si parla, ma che purtroppo pochi mettono in atto. Tutto questo richiede un percorso di valutazioni della realtà e di relative riflessioni che dovrebbe iniziare fin dalla scuola primaria, ma che invece non si fa da nessuna parte. E pensare che Socrate già lo faceva 24 secoli fa...

Lei infatti parla di “progettazione formativa inclusiva della persona”: parole sante, se si considera che autorevoli statistiche a livello mondiale attribuiscono agli errati comportamenti umani la maggior parte di incidenti ed infortuni, ben esemplificati nelle piramidi di Heinrich – Byrd, a partire dalla bellissima intuizione che ebbe Heinrich nel 1931.

Il guaio è che se il percorso culturale cui accennavo, non viene iniziato da bambini, difficilmente si può riuscire ad attuarlo quando le menti adulte sono ormai arroccate su posizioni più o meno rigide, piene di convinzioni spesso irrazionali che poco hanno a vedere con la scienza. Quest’ultima, attraverso la statistica (che ne è una branca) ci racconta la storia, cioè di fatti realmente accaduti, non di opinioni. E’ su questi fatti realmente accaduti e sui motivi che li hanno causati che bisogna imparare a riflettere.

Ci chiediamo perché, ad esempio, molte persone si fanno male mettendo in atto comportamenti a rischio, spesso contravvenendo norme che ben conoscono? Non solo sul lavoro, pensiamo ai morti sulle strade che, in Italia, sono ancora oltre il triplo di quelli sul lavoro! Perché conoscere le norme ed i comportamenti improntati alla prevenzione è condizione necessaria, ma non sufficiente. Serve sensibilità, consapevolezza, senso di responsabilità.

Poi ci sarebbe molto da dire sul perché non si arriva alla sensibilità necessaria a mettere in atto comportamenti di prevenzione. Pensiamo, ad esempio, all’approccio del fatalista che pensa che se una cosa deve capitare, capita comunque; o dell’ottimista in eccesso che è convinto che certe brutte cose debbano capitare solo ad altri; o del superstizioso che si sente sicuro con un cornetto in tasca.... E, purtroppo, ci sarebbe ancora molto altro..., ma mi dovrei dilungare oltre il troppo che ho già scritto, ed il tempo che le sto prendendo!

La ringrazio molto per avermi dato spunti per scrivere queste righe; è la prima volta che commento un articolo o un post sui social. Di solito scrivo queste cose nei miei libri perché mi rendo conto che sono argomenti troppo complessi da poter essere rappresentati in poche righe. Certo in aula, avendo a disposizione anche intere giornate, è tutta
un’altra cosa.

Grazie ancora e saluti cordiali.
Salvatore Donato Consonni
Rispondi Autore: FMR - likes: 0
23/02/2022 (16:59:07)
trovo che le considerazioni addotte, molte delle quali condivisibili, scontino una sincera seppur ingenua visione delle realtà produttive aziendali non tutte riconducibili a platee di discenti numericamente gestibili.
come non tenere conto infatti dei costi che gli imprenditori sosterrebbero nelle ipotesi ventilate dall'autrice?
ragionare per mansione/lavorazione/pericolo/rischio/analisi/valutazione/risoluzione credo sia l'unica prospettiva praticabile di cui il legislatore non può non tenere conto.
il processo di informazione/formazione/addestramento non può, a mio avviso (mi occupo di SSL dal 1978), non tenere conto delle realtà produttive aziendali e della necessità di coniugare SSL a sopravvivenza delle aziende stesse.

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