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Fra etica, legge e concretezza: il mestiere del consulente in materia di SSL

Questo breve articolo vuole esprimere l’impostazione del mestiere del consulente sulla sicurezza sul lavoro esaminando le sfaccettature dell’approccio e delle sue motivazioni per trarne qualche piccola conseguenza dal punto di vista dell’azienda committente.
Più della legge (oltre la legge): considerare la “miglior tecnica possibile”
Concretezza nella gestione della SSL
L’importanza dello stato dell’arte e della organizzazione
Etica
La “ questione etica” è fondamentale; la enciclopedia Treccani ne fornisce una sintesi nella definizione che segue che riporto testualmente:
“In senso ampio, quel ramo della filosofia che si occupa di qualsiasi forma di comportamento (gr. ἦθος) umano, politico, giuridico o morale; in senso stretto, invece, l’e. va distinta sia dalla politica sia dal diritto, in quanto ramo della filosofia che si occupa più specificamente della sfera delle azioni buone o cattive e non già di quelle giuridicamente permesse o proibite o di quelle politicamente più adeguate.”
Ciò che è buono e ciò che è cattivo dipende da una visione prima di tutto personale, ma poi tale visione viene influenzata dal contesto sociale in cui si opera. Possedere schiavi è un aspetto sociale che anche i Vangeli non condannano, mentre maltrattarli per un senso di superiorità padrone – schiavo privo di qualunque ulteriore giustificazione è sicuramente male; quindi se da una parte l’individuo ha dei diritti non discutibili né alienabili, dall’altra la società impone o propone modelli che, tutti, sono migliorabili sotto qualche aspetto.
Se però restringiamo il ragionamento alla sicurezza sul lavoro, già la definizione ci indirizza a dire che l’operato di tutti coloro che si occupano del tema deve essere orientato alla tutela fisica, psichica e morale di ogni individuo, a cui si potrebbe aggiungere anche un aspetto relativo al riconoscimento sociale del lavoro di tale individuo, ma qui cadremmo in un terreno scivoloso perché la dignità sociale di qualunque lavoro dovrebbe essere la stessa, mentre così non è e neanche si può imporre tale visione “per decreto”.
In ogni caso la tutela della persona, la sua sicurezza, la sua salute e la sua integrità psichica e morale sono fattori definiti e universalmente considerati positivi e doverosi, considerando che anche la carta costituente precisa all’inizio dell’articolo 1:
“L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Quindi mi viene difficile che un consulente che si muove in un alveo morale e giuridico / sociale ben consolidato possa derogare da quanto sopra.
Ma è vero? Non sempre, e qui si apre un primo aspetto delicato: chi per guadagno (soldi) è disposto a derogare da principi base che dovrebbero essere comuni a tutti gli uomini indipendentemente dalla razza o dalla nazionalità? Diciamoci la verità: di fronte a situazioni critiche può essere che entrambe le parti, committente e consulente, deroghino per tutelarsi giuridicamente, il primo, o per ottenere più lavoro, il secondo.
Per cui esulando dalle belle parole che si possono trovare nei quadretti appesi nei nostri uffici (la famosa politica aziendale oppure il codice etico), un committente serio deve in qualche modo accertarsi della visione etica della persona a cui si affida per consiglio sulla sicurezza dei suoi dipendenti e, non ultimo, per la ottimizzazione dei propri investimenti.
Evidentemente un consulente che cerca di compiacere il cliente, oltre che discutibile, può fare dei danni illudendolo che determinate scelte di sicurezza siano sufficienti e che non sia necessario o obbligatorio spendere di più per conseguire una maggiore tutela dei lavoratori. Nel passato, e forse anche oggi, ci sono state aziende che hanno scelto consulenti disponibili a “truccare le carte a loro favore” commettendo quello che credo si definisca falso ideologico. Fino a che l’operazione di maquillage ha successo sembra che sia un bene per entrambe le parti:
- Il consulente riceve un bonus per le sue false relazioni.
- L’azienda spende di meno in prevenzione.
Ma vorrei ricordare a tutti che se la questione emerge, l’azienda si trova sola anche se non esistono tracce (prove) del suo operato perché può quantomeno essere incolpata di un reato colposo, che eventualmente diventa “con colpa cosciente” se la verità emerge nella sua interezza.
Ma escludendo azioni volontarie esistono anche altri casi da considerare:
- Se il consulente è competente su alcuni temi, ispira fiducia ecc. potrebbe convincere l’azienda a dargli lavoro anche su temi per i quali non è adeguatamente competente, e qui si parla di “ culpa in eligendo” che di nuovo richiama una responsabilità aziendale derivanti dal millantato credito e dagli errori concreti del consulente.
- Peggio ancora è quando una società di consulenza imposta correttamente un lavoro (poniamo una valutazione dei rischi) e poi ne lascia in mano lo sviluppo a “ragazzi di bottega” che ritengono sufficiente una sorta di operazione copia – incolla.
Questo secondo è un rischio concreto che corriamo tutti noi consulenti nel tentativo di contenere i costi; sarebbe importante quanto meno riverificare l’operato del “ragazzo di bottega” prima di consegnare il lavoro al cliente, quanto meno concentrando l’attenzione su quegli aspetti che mal valutati o gestiti possono arrecare un danno serio alle persone [1].
Ciò detto penso che una trasparenza non verbale ma effettiva verso il cliente sul modo di sviluppare il lavoro che la società fornitrice intende adottare sia, in qualche modo, una necessità per spuntare prezzi giusti e per dormire sonni ragionevolmente tranquilli, tutti, sia il fornitore che il cliente.
Disposizioni legislative
È evidente che le disposizioni di legge applicabili devono essere rispettate. In un rapporto cliente – fornitore sano questo significa che: le disposizioni di legge dovrebbero essere note ad entrambe le parti; anche il cliente qualcosa deve pur sapere, per esempio tramite il supporto del RSPP, per capire se quello che gli viene proposto è davvero quello che gli serve, e se il “prodotto” fornito è almeno ad un livello accettabile [2].
Esistono comunque alcune precisazioni che è necessario fare e che riconducono alla questione etica, ovvero agli obiettivi ultimi di ogni attività volta a migliorare la tutela dei lavoratori:
- Purtroppo la legislazione vigente [3] è un po' schizofrenica in quanto approfondisce dettagliatamente certe tematiche (anche tramite prescrizioni tecniche di difficile attuazione), mentre altre questioni sono trattate superficialmente o addirittura ignorate. Se in oltre trenta anni la UE non ha raggiunto obiettivi equilibrati è difficile immaginare che il gap venga colmato a breve, per cui ritengo che la questione sarà destinata a protrarsi negli anni.
- Nella legislazione vigente esiste una dicotomia fra valutazione dei rischi e prescrizioni tecniche di difficile interpretazione in sede giudiziaria, specie da parte di una magistratura seria e preparata ma poco cosciente della realtà industriale [4]. Secondo chi scrive comanda la valutazione dei rischi, nel senso che prescrizioni idonee per un certo rischio possono introdurne uno diverso e maggiore in funzione della realtà fattuale e tecnica.
- È necessario che, come previsto dal D.lgs. 81/08, forse in modo non tanto esplicito, vengano valutati tutti i rischi, anche quelli non considerati nel medesimo decreto o in altri documenti legislativi applicabili all’oggetto della valutazione. Un esempio che spesso mi assilla è legato alla miscelazione indesiderata di sostanze chimiche che fra loro reagiscono creando situazioni pericolose; non mi pare che anche interpretando in senso lato il capo I del titolo III del decreto, gli impianti chimici non rientrino chiaramente, e spesso capita che non vengano considerati a meno che l’azienda non ricada nel settore dei grandi rischi (c. d. direttiva Seveso), ma questa è un’altra storia.
Più della legge (oltre la legge): considerare la “miglior tecnica possibile”
Detto dell’obbligo di valutare tutti i rischi, dobbiamo domandarci se eventuali specifiche e precise disposizioni di legge sono l’unica soluzione possibile o la migliore. Lo stato dell’arte della prevenzione si evolve molto più velocemente della legge per cui talune prescrizioni possono essere, ad oggi, poco efficaci rispetto a soluzioni diverse. Dunque, che fare? Direi che vada scelta la soluzione più sicura ma, come mi suggerì un ispettore dell’asl, è opportuno motivare esplicitamente il discostamento dalla “piena conformità” tramite il DVR per dimostrare che la soluzione adottata è migliore di quella “di legge”; e sempre lui mi suggeriva di redigere una istruzione operativa per i lavoratori che indicasse il modo più sicuro di lavorare e facesse cenno della scelta di sicurezza fatta.
Concretezza nella gestione della SSL
Ma sin qui ci siamo discostati dalla teoria senza però considerare in senso completo e consequenziale il legame fra la concretezza tecnica, fattuale e operativa e le scelte volte a garantire la sicurezza dei lavoratori.
Per spiegare il concetto mi riferisco al titolo III, capo I, del citato decreto, relativo alla sicurezza delle attrezzature di lavoro. Il tema è complesso [5] ma spero, con la dovuta calma, di saperne illustrare alcuni aspetti a valenza generale.
Per una trattazione accettabile sono costretto a riportare alcune parti degli articoli sulla sicurezza delle attrezzature di lavoro, partendo dalle definizioni rilevanti e dalle prescrizioni che ne conseguono:
All’art. 69 del citato D.lgs. 81/08 si legge:
“1. Agli effetti delle disposizioni di cui al presente Titolo si intende per: a) attrezzatura di lavoro: qualsiasi macchina, apparecchio, utensile o impianto, inteso come il complesso di macchine, attrezzature e componenti necessari all’attuazione di un processo produttivo,
destinato ad essere usato durante il lavoro; [OMISSIS]”.
All’art. 70 viene indicato che:
“1. Salvo quanto previsto al comma 2, le attrezzature di lavoro messe a disposizione dei lavoratori devono essere conformi alle specifiche disposizioni legislative e regolamentari di recepimento delle Direttive comunitarie di prodotto.
2. Le attrezzature di lavoro costruite in assenza di disposizioni legislative e regolamentari di cui al comma 1, e quelle messe a disposizione dei lavoratori antecedentemente all’emanazione di norme legislative e regolamentari di recepimento delle Direttive comunitarie di prodotto, devono essere conformi ai requisiti generali di sicurezza di cui all’ALLEGATO V. [OMISSIS]”.
Quindi dall’art. 70 si desume (vedere l’allegato V) che il reverse engineering si deve applicare solo alle attrezzature “non CE”.
All’art. 71, valido tutto per tutte le attrezzature di lavoro indipendentemente dalla loro certificazione, si legge fra l’altro:
“[OMISSIS] …
2. All’atto della scelta delle attrezzature di lavoro, il datore di lavoro prende in considerazione: a) le condizioni e le caratteristiche specifiche del lavoro da svolgere; b) i rischi presenti nell’ambiente di lavoro; c) i rischi derivanti dall’impiego delle attrezzature stesse; d) i rischi derivanti da interferenze con le altre attrezzature già in uso. [OMISSIS].”
Ricapitolando, la sicurezza delle attrezzature di lavoro deve essere considerata come segue in funzione della eventuale certificazione:
- Attrezzature CE: art. 71 (completo) fra cui il citato comma 2.
- Attrezzature non CE: art. 71 + allegato V.
Quando parlo di concretezza ciò a cui faccio riferimento è l’art. 71 che chiede al datore di lavoro di andare oltre ai requisiti di sicurezza di base che deve avere una attrezzatura (garantiti dal CE oppure verificati secondo l’allegato V) ma anche di considerare l’attrezzatura (già conforme in sé stessa) rispetto all’uso previsto e all’ambiente in cui è inserita che possono cambiare anche in modo radicale i rischi e le migliori misure di prevenzione da adottare. Questa è concretezza perché l’attrezzatura piuttosto che la sostanza chimica piuttosto che l’impianto elettrico di distribuzione o la cabina del trasformatore AT / BT, non sono monadi isolate ma concorrono insieme alla conformazione di un luogo di lavoro e ai rischi che ne derivano.
L’importanza dello stato dell’arte e della organizzazione
Per raggiungere un livello di prevenzione dei rischi accettabile due, come minimo, sono i punti da tenere a mente:
- Lo stato dell’arte della prevenzione tecnica che, come dicevo, potrebbe andare oltre le mere prescrizioni esplicite di legge.
Chiudo questo argomento dicendo che NON esiste sicurezza là dove le persone, tutte le persone, non sono adeguatamente coinvolte!
Spero di poter riprendere e approfondire queste tematiche ancora su PuntoSicuro nei prossimi tempi, perché l’evoluzione della tecnica, della organizzazione e delle competenze individuali sono fondamentali per rispettare al meglio il principio etico di tutela delle persone.
Alessandro Mazzeranghi
[1] Se un giovane esce dall’università con una laurea in materia di prevenzione, pur se ha una buona valutazione, difficilmente ha la competenza pratica che consente di intuire le possibili situazioni che non ha la fortuna di osservare direttamente; d’altra parte questi ragazzi e queste ragazze vanno inserite nel mondo del lavoro, ed è quindi giusto che sbaglino e vengano corretti (si tratta di un misto fra formazione e addestramento): peccato che la fase di correzione da parte di un qualcuno più esperto sia un costo notevole che la società di consulenza fatica a giustificare davanti al cliente, e che quindi si troverebbe a “pagare di tasca sua” cosa che facilmente conduce alle premesse del fallimento della società.
[2] Al di là dei giudizi sulla diligenza e appropriatezza della fornitura, evidentemente il cliente deve ricontrollare che nella “fornitura” non ci siano errori o dimenticanze marchiane che potrebbero ribaltarsi contro di lui in sede penale. Qualche volta capita anche che il consulente, accecato da un senso di “onnipotenza normativa”, proponga soluzioni a problemi di sicurezza rilevati eccessive o, peggio, concretamente inapplicabili. Per come la vedo io il consulente, insieme al cliente, deve studiare i miglioramenti massimi possibili per poi dare al cliente chiara cognizione del delta fra quello che otterrà e l’ottimo teorico. Quindi il consulente deve rapportarsi col cliente anche in una ottica imprenditoriale che sia, tornando al paragrafo precedente, eticamente corretta ma industrialmente realizzabile.
[3] Vorrei rimarcare che negli ultimi 30 e passa anni la legislazione sulla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori è di origine UE e che i paesi membri la devono recepire eventualmente aggiungendo proprie specificazioni ma senza stravolgerne i principi e i contenuti tecnici. Quindi le debolezze legislative che andrò a dire sono le stesse in tutta la unione europea.
[4] Difficile che un giudice abbia visitato aziende produttive; se per questo ciò vale anche per molti PM e avvocati. Il rischio è di ragionare sui massimi sistemi piuttosto che sulla concretezza dei fatti e delle cause; credo spetti a noi periti illustrare senza fronzoli i fatti, che se siamo capaci di spiegarli e narrarli, poi parlano da soli senza bisogno di nostre ardite speculazioni semi – giuridiche.
[5] Ho personalmente partecipato, tramite Associazione Ambiente e Lavoro, struttura (onlus) che per CIGL si occupa di diffusione delle conoscenze (editoria) e di formazione (corsi in house e presso aziende), alla strutturazione di alcune parti di questo titolo influenzando in modo piuttosto determinante il modo diverso di fare sicurezza per le attrezzature marcate CE e per quelle prive di certificazione. Avendo redatto alcune bozze di articoli a mio avviso chiave, che nel vecchio D.lgs. 626/94 non funzionavano, spero di aver reso la gestione della sicurezza delle attrezzature più fluida anche rimuovendo fasi di reverse engineering assolutamente superflue: per ora prendete la struttura della legge così come è, solo in un secondo articolo cercherò di spiegarne la logica di fondo che spesso viene “smarrita” dagli specialisti.

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