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Descrizione approfondita del modus operandi di una banda di criminali

Descrizione approfondita del modus operandi di una banda di criminali
Adalberto Biasiotti

Autore: Adalberto Biasiotti

Categoria: Criminalità

11/06/2018

Una preoccupante descrizione del modus operandi di una delle più violente bande di malviventi, tra quelle che operano nell’Italia meridionale e hanno come bersaglio preferito i furgoni blindati portavalori.

Quando dalla Procura arrivò l’ok perché due agenti della Squadra Mobile di Ancona andassero in pianta stabile a Cerignola per lavorare al fianco dei colleghi della Mobile foggiana, i due poliziotti dorici “in prestito” erano già sulla giusta strada ed erano certi di arrivare, in un modo o nell’altro, ad effettuare tutta una serie di sequestri nelle case di quelli che, ne erano certi, erano stati gli autori materiali dei vari assalti ai furgoni blindati portavalori sulle autostrade di mezza Italia. Quei due poliziotti, agenti di alto profilo investigativo agli ordini del capo della Mobile Carlo Pinto, avevano anche fiducia che, prima o poi, sarebbero scattate le manette ai polsi dei banditi capaci, in 120 secondi, di bloccare un’intera arteria autostradale, isolare le comunicazioni con jammer sofisticatissimi, speronare 2 furgoni portavalori, sparare raffiche di kalashnikov andando incontro alle guardie giurate e sradicare le casseforti in un inferno di piombo e fuoco.

 

Quello che mai si sarebbero aspettati era di scoprire come quegli stessi uomini fossero a proprio agio in un lusso sfrenato fatto di grandi televisori, opere d’arte e arredi griffati da firme dell’altissima moda italiana come il copriwater maculato di marca trovato nel bagno di uno della gang. Ville e appartamenti arredati in stile boss della malavita del telefilm Gomorra con donne ingioiellate che, di fronte all’irruzione della Polizia, non alzavano le mani, ma poggiavano le loro borse di Luis Vuitton da migliaia di euro sui divani in pelle.

 

Gli uomini di Paolo Sorbo, identificato come il capo della gang latitante da anni e arrestato nell’agosto 2017, ricoprivano perfettamente il ruolo di uomini di successo nella società foggiana, con abiti di alta moda, orologi di lusso, il culto per fisici scultorei e la passione per le arti marziali. Così tutti i milioni di euro, 10 secondo le indagini, frutto delle rapine non servivano per rincorrere il mero sogno di una vita facile, come nell’immaginario di un qualsiasi lavoratore di provincia, bensì a costruire e consolidare una posizione sociale nelle comunità del triangolo Cerignola-Andria-Bitonto. In quello che lo SCO (Servizio Centrale Operativo) della Polizia di Stato ha definito il “triangolo della morte”: dove vivono le famiglie di rapinatori professionisti, specializzati nell’assalto ai portavalori e capaci di agire come un commando militare. Così acquisivano lustro e prestigio dai colpi messi a segno, provocando le invidie degli altri clan.

«Noi abbiamo fatto 10 milioni in 8 mesi, altro che quegli altri lì….» ascolteranno gli investigatori in un’intercettazione ambientale dopo l’assalto al blindato della Fitist al casello Loreto/Porto Recanati, lungo la A14. Era il 30 settembre 2015 e le indagini della Procura di Ancona, nella persona del pm Irene Bilotta, presero il via da lì.

 

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L’impronta digitale e il collegamento col basista

Già dalle ore successive al colpo al blindato anconetano, gli investigatori della Mobile, al tempo in cui era capo Virgilio Russo, cominciarono a setacciare tutto il traffico telefonico dell’area ricoperta dalla cella che faceva riferimento al luogo dell’assalto. Due ore di telefonate in cui la Polizia trovò migliaia di numeri di telefono, per cui serviva una traccia, un qualcosa che isolasse il mondo civile dai potenziali numeri di telefono di quella che ormai era chiaro fosse una banda ben organizzata.

 

Dopo giorni, anche settimane, arrivarono i risultati. Tramite un apposito sistema informatico gli agenti individuarono 5 numeri di telefono molto sospetti: si chiamavano sempre tra di loro, operavano tutti con sim card intestate a stranieri, non avevano un traffico diversificato, ma soprattutto erano tutte attivate nello stesso momento dallo stesso centro di telefonia e, guarda caso, 2 di quei cellulari, nelle ore prima del colpo, avevano ricevuto diverse chiamate dalla cabina telefonica di Lido di Fermo, quella a pochi passi dalla casa di un 50enne di origini foggiane, noto per il suo passato di rapinatore. Gli altri 3 numeri avevano sempre comunicato tra loro nel momento della rapina.

 

Questo portò gli inquirenti a due conclusioni. Primo, i 3 numeri erano quelli usati dai banditi durane l’assalto, ma era un vicolo cieco perché ormai, quelle sim, acquistate da stranieri prestanome, erano diventate inutili. Secondo, i due numeri che generavano traffico prima del blitz sarebbero serviti per comunicare durante una perlustrazione.

 

Quella fu la prima traccia che portò al 50enne di Fermo: il basista della banda. Lo stesso uomo che poi la Polizia anconetana collocò fisicamente in A14 quel giorno. A tradirlo fu il ticket dell’autostrada sul quale aveva lasciato una piena e nitida impronta digitale, rintracciata grazie al supporto del reparto Scientifico della Questura di Ancona e cristallizzata dopo giorni di lavoro su interi pacchi di ticket autostradali da buttare e consegnati dalla Società Autostrade.

 

A quel punto l’indagine entrò nel vivo con intercettazioni, pedinamenti, studi di settore e la collaborazione della Squadra Mobile di Foggia, composta da esperti nell’ambito delle rapine ai portavalori e in grado di guidare i colleghi anconetani sulla direttrice che da Loreto portava dritto alla Puglia delle organizzazioni criminali. Tanto che la prima svolta arrivò quando gli investigatori trovarono conferma dei contatti tra il basista fermano e Paolo Sorbo, latitante da anni che, in quei mesi, si spostava lungo il Nord Italia.



Fuori una casa cantoniera, dentro il covo blindati del latitante

Considerato il capo della banda che colpì a Loreto, è ora in carcere, dove deve scontare una pena definitiva di 17 anni e 4 mesi. La latitanza del 41enne Paolo Sorbo, di Cerignola, è terminata alle 5 dell’8 giugno 2016 quando è stato catturato dagli agenti della squadra mobile di Ancona e Foggia e dallo SCO. Sorbo si nascondeva all’interno di una casa cantoniera sulla Statale 16, Foggia-Cerignola, in agro di Stornara. Nessun nascondiglio a garantirgli “sicurezza”: solo una serie di telecamere poste lungo il perimetro del casolare, dove veniva ospitato da una famiglia con tre figli minori. Fuori una banale cascina, dentro un bunker. Perfetto per il quartier generale di una banda criminale che doveva progettare rapine a mano armata.

 

Ed è proprio entrando lì, nella stanza al primo piano dove c’era un televisore maxi schermo collegato alle telecamere di video sorveglianza, che gli investigatori hanno cominciato ad incastonare tutti i tasselli del mosaico raffigurante la banda armata.

 

Il cerchio si è poi chiuso con l'arresto del 40enne Antonio Braschi, il 28enne Cosimo Attila Cirulli, il 47enne Damiano Carlucci e altri 4 indagati. Fatto sta che in casa di Sorbo c’era di tutto: cellulari con relative schede telefoniche, radio ricetrasmittenti, “mappe” con appunti su località e tempi di percorrenza, denaro per complessivi 2mila euro e vari abbattitori di frequenze (jammer, appunto). E ancora: targhe di plastica e targhe straniere, tre mototroncatrici circolari, lampeggianti blu, saldatori a gas, una rete metallica a bande chiodate e materiale utile allo scasso. A mancare, nelle indagini ormai chiuse, è il ritrovamento delle armi da guerra, di quei mitragliatori che, a Loreto, i banditi avevano avuto la freddezza di imbracciare in diagonale, come fossero giocattoli, per poi, nel mezzo dell’inferno di auto incendiate, urlare ai vigilanti di aprire i furgoni, sventagliando scariche di mitra all’impazzata contro i blindati, rischiando anche di uccidere, visto che alcuni proiettili finirono anche contro le auto e i tir, di chi aveva avuto la sventura di trovarsi in mezzo a quell’inferno.

 

Per questo la Polizia anconetana è convinta che la banda degli assalti ai blindati portavalori era anche pronta ad uccidere. La morte, come banale effetto collaterale per chi era arrivato al momento della verità, dopo aver studiato per mesi la geografia del territorio e tutti i percorsi della ditta di sicurezza da colpire. Per questo, tra le accuse elencate nella informativa, oltre all’associazione per delinquere finalizzata alla rapina, ricettazione di auto, detenzione di armi da guerra e tentata rapina, c’è anche il tentato omicidio di 5 guardie giurate.

 

Adalberto Biasiotti

 



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