COVID-19 e luoghi di lavoro: come deve cambiare il modello di salute?
Brescia, 14 Mar – “Con l’evoluzione tumultuosa di sistemi sociali e produttivi, …..diviene sempre più complicato comprendere cosa sia pericoloso e cosa non lo sia, o lo sia di meno, così come comprendere in quale modo si possano fronteggiare i rischi e identificare i danni che ne conseguono; ……sono proprio la complessità e la permanente mutevolezza degli scenari a comportare la necessità di approcci che non si limitino a agli aspetti tecnici e burocratici, ma che siano basati sul confronto e, per quanto possibile, la collaborazione tra soggetti con competenze, ruoli ed esperienze diverse”. E tutti i soggetti della prevenzione, “a iniziare dai lavoratori e dai loro rappresentanti, non possono limitarsi alla constatazione dell’esistenza formale di certificazioni e altri documenti obbligatori e dell’altrettanto formale rispetto di protocolli, procedure e istruzioni operative, ma devono poter comprendere natura e dimensione dei problemi e poter contribuire alle scelte, avendo in luce il principio di precauzione come criterio fondamentale per tener testa agli elementi di incertezza che inevitabilmente persistono a valle delle migliori evidenze scientifiche”.
A fare questa interessante premessa e utili riflessioni sulla situazione attuale e sul possibile futuro della prevenzione, con particolare riferimento al periodo pandemico che stiamo vivendo, è un intervento al webinar “Epidemiologia, partecipazione e prevenzione per la sicurezza e la salute dei lavoratori” che, organizzato da ASUR 3 Marche, Associazione italiana di epidemiologia e SNOP, si è tenuto il 26 ottobre 2021.
Ci soffermiamo, dunque, sull’intervento “Partecipazione ed equità nella valutazione e nell’affrontamento dei rischi biologici occupazionali, con particolare riguardo a quelli da SARS-CoV-2”, a cura del Dott. Claudio Calabresi, che racconta come è cambiata la tutela della salute nei luoghi di lavoro fino all’esperienza del COVID-19 e alla necessità di futuri nuovi modelli.
L’articolo si sofferma in particolare sui seguenti argomenti:
- Le condizioni di lavoro, i cambiamenti e le diseguaglianze di salute
- L’esperienza della pandemia e il concetto di sindemia
- Il futuro auspicabile e il nuovo modello di salute
Le condizioni di lavoro, i cambiamenti e le diseguaglianze di salute
Il relatore ricorda molti dei cambiamenti avvenuti, dal 1978 (il tempo della Legge 23 dicembre 1978, n. 833) ad oggi, nel mondo del lavoro:
- “la progressiva frammentazione produttiva, il prevalere di micro e piccole imprese,
- la compresenza di vecchi e nuovi rischi,
- le novità nelle forme e nei rapporti di lavoro, i frequenti cambi di mansioni e lavori,
- la precarietà e la flessibilità, lo smart working,
- il non-lavoro, la disoccupazione alternata a lavori instabili,
- l’innovazione tecnologica (l’industria 4.0, la crescente robotizzazione),
- la perdita di forza del sindacato,
- la progressiva caduta di valori come la solidarietà sociale, il venir meno del welfare state”.
Si sottolinea poi che le condizioni di lavoro “appaiono oggi uno dei principali determinanti delle disuguaglianze di salute. I rischi maggiori sono legati a condizioni di disoccupazione (per milioni di persone il lavoro non c’è, non c’è mai o non c’è sempre, indipendentemente dalle loro età….), precarietà e irregolarità dei rapporti di lavoro, lavoro di tipo manuale o scarsamente qualificato. Le esposizioni occupazionali maggiormente associate a disuguaglianze di salute, con ricadute negative in termini di mortalità e morbilità, si osservano in settori (edilizia, trasporti, agricoltura, industria estrattiva) ad elevata prevalenza di microimprese”.
Inoltre, riguardo alla salute dei lavoratori:
- “Ci sfuggono molti fenomeni di salute / malattia tra i lavoratori: per disomogeneità territoriali, scarsa ricerca attiva, ‘pigrizia’ o non proattività del mondo sanitario, progressivo incremento del peso della multifattorialità dei danni (sommatoria e interazione delle esposizioni nel tempo di lavoro e nei restanti tempi di vita) …
- Le esperienze di vera ricerca attiva degli effetti sanitari del lavoro sono poche e minoritarie
- Il collegamento e la collaborazione tra mondo sanitario di base e ospedaliero e chi si occupa di rischi e danni da lavoro sono rari e assolutamente poco diffusi dal punto di vista territoriale
- Troppo spesso mancano ponti tra le discipline …
- In particolare riguardo ai tumori su base professionale, occorrerebbe ragionare non solo sugli ‘osservati’ ma assai di più sugli ‘attesi che non si osservano’, meglio se a partire da mappe dei rischi per far emergere conoscenze dei danni un po’ meno disomogenee e frammentarie”.
E per il futuro al di là del fenomeno degli infortuni più o meno stabile, “c’è da aspettarsi nei prossimi anni un’ulteriore diminuzione dei quadri patologici professionali storici, ‘classici’, ed anche (prima o poi) una diminuzione - dopo gli ultimi anni di incremento - delle malattie professionali denunciate e soprattutto di quelle riconosciute, con un aumento di patologie psico-fisiche ‘multifattoriali’ di non semplice interpretazione causale, sempre più di confine tra lavoro e vita (e ciò riguarda ovviamente anche i tumori)”.
Perché effettivamente uno dei problemi da tempo emergente riguarda i “confini sempre più labili tra lavoro, ambiente, territorio, vita”: “sempre di più i rischi per la salute sono una mescolanza di come viviamo, di dove viviamo, di quel che mangiamo, di come ci curiamo, di come e dove lavoriamo”.
L’esperienza della pandemia e il concetto di sindemia
In questo senso l’emergenza COVID-19, il virus SARS-CoV-2 e il “massiccio ricorso a forme (non ben regolamentate e spesso improvvisate) di smart working hanno reso negli ultimi tempi la definizione dei confini della sfera lavorativa e di quella privata ancora più confuse, con presumibili ricadute sulla salute fisica (in termini di sensazioni di forte stress, mancanza di tempo, disturbi del sonno, difficoltà relazionali) e fors’anche sulla stessa capacità di lavoro. I lavoratori hanno sempre minori opportunità di ‘stare insieme’”.
Riguardo a questa pandemia si indica che “non si è imparato dalla SARS (2002-2003), vinta più per … estinzione che per reali capacità del sistema. Non si è saputo prevedere quel che non pochi prevedevano da tempo, non si è capito che malattie endemiche ed epidemiche, malattie tropicali e altre malattie infettive (umane e animali), inquinamento ambientale, mutamenti climatici devastanti, scarsità di investimento culturale e tecnico-operativo nei sistemi sanitari, enormi diseguaglianze, ecc. avrebbero inevitabilmente aperto nel pianeta enormi porte all’arrivo di ospiti non precisamente graditi, come quello che ci ha ‘sorpreso’ tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020”.
Si indica poi che in Italia, “quel che resta del Servizio sanitario pubblico è stato l’unico soggetto in grado di dare risposta al dilagare della pandemia, pur non potendo oscurare le conseguenze di un disastro e la resa della prevenzione e della medicina territoriale. L’ospedale, sottoposto a pressione per rispondere alla richiesta di cure per il Covid, è arrivato sull’orlo del collasso e ha spesso trascurato le altre patologie (tumori, malattie acute e croniche), per cui oggi - oltre a contare i morti per il virus - si dovrebbero calcolare pure gli aggravamenti o i decessi per mancata assistenza generale, oltre che per minore prevenzione (primaria e secondaria)”.
Si riportano poi alcuni aspetti del Covid-19 nei luoghi di lavoro:
- “da quasi 2 anni una nuova dimensione della vita collettiva, anche nei luoghi di lavoro, molti a lungo ‘chiusi’.
- come i cittadini, anche i lavoratori ‘devono’ abituarsi a nuove (?) forme di protezione individuale e collettiva (le protezioni respiratorie, il distanziamento, l’igiene personale…. per molti - non per tutti - una novità).
- una nuova dimensione (un nuovo abito mentale) in cui trova (o dovrebbe trovare) posto la consapevolezza che la protezione di sé stessi va insieme con la protezione degli altri’….
E si segnala, in questo senso, che in qualsiasi ambiente di lavoro, “un aggiornamento della valutazione dei rischi ai nuovi scenari determinati da SARSCoV-2 non deve essere soprattutto un adempimento formale, burocratico: occorre ‘semplicemente’ comprendere quali cose è necessario fare e farle bene, ‘insieme’”.
Si ricorda poi il concetto di sindemia.
Infatti l’interazione tra Sars-Cov-2 e patologie croniche (obesità, diabete, malattie cardiovascolari, etc.) ha reso evidente che:
- il COVID-19 “peggiora le patologie croniche e che le patologie croniche peggiorano gli effetti di COVID-19”;
- il COVID-19 “ha effetti peggiori sulle popolazioni più emarginate, vulnerabili e che vivono in povertà o in quelle che vivono in zone più inquinate”.
Insomma alla lunga “concentrare iniziative e sforzi esclusivamente sul virus potrebbe difficilmente chiudere la questione, soprattutto nel medio-lungo periodo, se non si tende a attenuare le diseguaglianze, gli svantaggi sociali, di popolazione, ecc., se non si migliora la salute di tutta la popolazione (del pianeta…)”. L’obiettivo dovrebbe essere quello di “vedere i problemi ‘insieme’ e non affrontarne solo uno (a maggior ragione se non è il ‘primario’, come il Covid 19), indipendentemente dalla realtà singola, delle persone, del territorio, del paese, del continente, ecc”.
Se oggi la salute ha una nuova attenzione occorre che questa sia “salute pubblica”, cioè “salute come questione prioritaria di fronte alla quale i cittadini sono tutti eguali, con pari diritti e pari opportunità”.
Il futuro auspicabile e il nuovo modello di salute
Occorre dunque un “nuovo modello (diffuso) di salute”:
- “la salute è un bene primario (e non una merce né fonte di profitti);
- la prevenzione deve improntare ogni aspetto dell’attività umana, a partire dall’attenzione alle condizioni ambientali e agli stili di vita e di alimentazione, da un lavoro a misura d’uomo e di donna, puntando ad attenuare l’influenza delle condizioni socioeconomiche;
- la salute delle persone non può essere slegata dal rispetto per la natura e per le altre forme di vita (one health);
- non si può trattare la singola malattia senza considerare l’insieme della persona, compresi gli aspetti psicologici e relazionali, nonché i rapporti sociali (occorre pertanto l’integrazione sociosanitaria);
- deve essere potenziata l’assistenza sanitaria primaria (primary health care);
- deve essere profondamente innovata e adeguata alle esigenze la nostra medicina generale;
- deve essere rafforzato il Servizio sanitario pubblico con nuova attenzione al capitale umano in sanità, prevedendo e attuando una formazione ben più articolata e ‘moderna’ di quella attuale”.
L’intervento, che si sofferma anche sul Piano nazionale di ripresa e resilienza, indica che occorre ripartire da un “concreto investimento culturale, strategico ed economico nella prevenzione primaria (tenendo presente che prevenzione vuol anche dire ‘previsione’, non solo rimozione delle cause) a partire dai necessari strumenti di conoscenza epidemiologica (sistema informativo) e di comunicazione …trasparente”.
Senza dimenticare che la partecipazione (informata, consapevole) “è un elemento decisivo per un modello di salute (e di sanità) più equo e anche più ‘intelligente’: il cittadino/lavoratore non è un oggetto (o paziente), destinatario di interventi sanitari, ma un soggetto, che - come singolo - partecipa e contribuisce alla tutela e al recupero della propria salute, e che - come comunità - partecipa al processo di conoscenza dei bisogni e all’elaborazione delle misure idonee a soddisfarli”.
In definitiva “c’è un futuro prevedibile e uno auspicabile”.
Quello auspicabile “dipende da molti cambiamenti e non solo dalla ‘vittoria’ sul virus ma dall’eventualità che si comincino ad affrontare di più tanti altri fattori del complesso sindemico (povertà, emarginazione, fragilità, debolezza di popolazioni, debolezze geografiche…) e che, appunto con una concreta partecipazione, tutti contribuiscano alla tutela della propria e altrui salute”.
Rimandiamo alla lettura integrale dell’intervento che riporta molte altre interessanti riflessioni anche con riferimento alle novità normative correlate all’arrivo del virus SARS-CoV-2.
Tiziano Menduto
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Rispondi Autore: Carmelo Catanoso - likes: 0 | 14/03/2022 (06:47:54) |
Contenuti ampiamente condivisibili meno questa affermazione: "E si segnala, in questo senso, che in qualsiasi ambiente di lavoro, “un aggiornamento della valutazione dei rischi ai nuovi scenari determinati da SARSCoV-2 non deve essere soprattutto un adempimento formale, burocratico: occorre ‘semplicemente’ comprendere quali cose è necessario fare e farle bene, ‘insieme’”. Evidentemente, dopo due anni, non si è ancora capito che, per le aziende che non fanno uso deliberato di agenti biologici e che non svolgono le attività di cui all'allegato XLIV, le misure di prevenzione protezione da adottare sono state stabilite dal legislatore con norme di Igiene Pubblica che, come noto, sono sovraordinate alle norme di Igiene Occupazionale in quanto tutelano tutta la popolozione e non solo chi lavora. Cosa fare e come farle insieme ce lo hanno detto nei Protocolli che, ad oggi, costituiscono le migliori conoscenze per ridurre il rischio da contagio da Covid19. Quindi, facciamo bene questo, applichiamo bene ed insieme i Protocolli. Oppure ogni singolo datore di lavoro si deve inventare delle proprie misure di prevenzione e protezione senza tenere conto delle migliori conoscenze scientifiche oggi disponibili ed indicate nei Protocolli? Protocolli che, ovviamente, vanno contestualizzati alle specificità della propria organizzazione. Poi se pensassimo, come racconta qualcuno che non si rassegna all'oblio e che non distingue tra telelavoro e Smart working, di dover andare a verificare come ogni singolo lavoratore svolge la propria attività presso il proprio domicilio, allora..... |
Rispondi Autore: dzulian - likes: 0 | 14/03/2022 (09:17:30) |
il rischio biologico c'era ancora prima del covid quindi di cosa ci si preoccupa? A meno che prima non venisse mai valutato. Sui protocolli emessi, ci sono diverse problematiche che non possono essere risolte se non con costi insostenibili (le mascherine ffp2, con certificazioni anti virus tutt'altro che chiare, vanno usate in ambienti dove ci deve essere una concentrazione di ossigeno specifica minima che cambia a seconda del modello in uso, senza contare il numero massimo di ore che si può utilizzare, che sembra essere un segreto militare, visto che la maggior parte dei costruttori ai quali si sono chieste tali informazioni, non hanno risposto). E parliamo sempre di un virus della famiglia dei raffreddori, non della peste bubbonica o della ebola... |