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COVID-19: le criticità della vaccinazione e i problemi nelle aziende

COVID-19: le criticità della vaccinazione e i problemi nelle aziende
Tiziano Menduto

Autore: Tiziano Menduto

Categoria: Coronavirus-Covid19

02/03/2021

Quali sono le attuali e future problematiche nelle aziende? È opportuno un obbligo per i lavoratori? Cosa dice la normativa? È prevista una revisione dei protocolli condivisi? Ne parliamo con Cinzia Frascheri, responsabile salute e sicurezza Cisl.

 

Roma, 2 Mar – Lo stiamo raccontando e mostrando, con i vari contributi pubblicati sul tema, ormai da diverse settimane: il tema della vaccinazione relativa al virus SARS-CoV-2 sta portando non solo ad accese discussioni, ad esempio in relazione alle conseguenze del rifiuto di un lavoratore a vaccinarsi, ma anche ad un lungo e articolato dibattito su temi molto rilevanti.

Un dibattito che riguarda, ad esempio, il diritto alla salute, l’armonizzazione tra diritto individuale e diritto collettivo, l’inidoneità alla mansione (con riferimento all’art. 42 del D.Lgs. 81/2008 sui provvedimenti in caso di inidoneità alla mansione specifica), gli obblighi e i diritti di lavoratori e datori di lavoro di fronte all’epidemia, la necessità di strumenti di conoscenza sul vaccino. Temi rilevanti che tuttavia spesso dimenticano i problemi che si stanno creando e si creeranno nelle realtà lavorative riguardo alla vaccinazione anti-covid.

 

Proprio per affrontare questi temi delicati cercando anche di far luce sulle conseguenze dei problemi nei luoghi di lavoro, abbiamo intervistato Cinzia Frascheri, giuslavorista e Responsabile nazionale Cisl Salute e Sicurezza sul Lavoro, che aveva già rilasciato al nostro giornale utili indicazioni sull’impatto della pandemia e sull’applicazione dei protocolli condivisi. E con Cinzia Frascheri cerchiamo anche di comprendere quello che sarà il futuro di questi protocolli che, come ricorda l’intervistata, sono stati uno “strumento di regolazione cardine delle misure di prevenzione e tutele per il contrasto alla diffusione del Covid-19 in ambiente di lavoro”.

 

 

È opportuna una normativa specifica che preveda l’obbligatorietà dei vaccini?

Quali sono le problematiche più rilevanti nelle realtà lavorative connesse alle vaccinazioni? E quale è il ruolo che le parti sociali sindacali possono svolgere?

Cosa indicano le disposizioni normative vigenti riguardo all’eventuale impossibilità o contrarietà del lavoratore alla vaccinazione?

È prevista una revisione del protocollo condiviso e secondo quali criteri?

 

Questi gli argomenti affrontati nell’intervista:


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Il diritto alla salute e la normativa specifica sull’obbligatorietà dei vaccini

In relazione alle vaccinazioni per il virus SARS-CoV-2 si è discusso molto in questi mesi sull’eventuale possibilità di renderle obbligatorie. Con riferimento specifico agli ambienti di lavoro lei ritiene che sia opportuna una normativa specifica che ne preveda l’obbligatorietà?

 

Cinzia Frascheri: Se l’urgenza di ottenere, al più presto, gli effetti positivi determinati da un’“immunità di gregge” non avesse spinto, a giusto titolo, a far prevalere le regole della campagna vaccinale, su quello che avrebbe dovuto essere un più corretto iter, anticipando con un provvedimento normativo specifico di natura vincolante, l’avvio della vaccinazione, compresa quella riguardante gli occupati delle categorie più a rischio, oggi non saremmo qui a porci domande sull’opportunità, o meno, di una disposizione specifica.

Lasciando da parte le “tifoserie di pensiero” (che hanno occupato le pagine dei giornali in questo periodo), essendo un atteggiamento non costruttivo per affrontare un tema complesso e articolato come l’obbligatorietà, o meno, dei vaccini in ambito lavorativo, quello che è certo – e che riporta tutti ad un unico indiscusso punto di partenza – è il non poter prescindere da quanto dettato dall’art.32 della Carta Costituzionale.

Quanto previsto, difatti, al comma 2, nel quale si legge che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», pone già sulle prime elementi certi e sufficienti per dirimere la questione, determinando una condizione di attesa (se e quando verrà ritenuto opportuno) di uno specifico provvedimento normativo mirato a rendere obbligatoria la vaccinazione anti-Covid 19, per tutti gli individui e, tra questi, per tutte le lavoratrici e lavoratori.

 

In questo senso, anche il comma 1 dell’art.32, nel sottolineare la necessaria armonizzazione tra diritto individuale e diritto collettivo, sancendo che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività…», evidenza il binomio cardine che solo uno specifico intervento normativo, in risposta alla riserva di legge di rango costituzionale, può preservare.  

Infatti il diritto alla salute, quale diritto fondamentale ed inviolabile dell’individuo, se mediante una precisa disposizione normativa trova la via per tradursi in concreta garanzia di tutela, in parallelo, la sua contrazione non può che essere legittimata, mediante intervento impositivo, solo da un interesse altrettanto importante, quale il preservare lo stato di salute della collettività. E una pandemia, come quella che stiamo vivendo da più di un anno, legittima indubbiamente un trattamento sanitario invasivo, quale un vaccino.

Precedenti, in questo senso, ve ne sono (anche in assenza di condizioni drammatiche come quelle che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo) dove è prevista la vaccinazione obbligatoria, compreso nell’ambito specifico lavorativo. E’ in questo senso che non si può richiamare in supporto la norma di chiusura, l’archetipo della salute e sicurezza sul lavoro, rappresentata dal dettato dell’art.2087 del cod. civ. Innegabile, difatti, l’evidente  considerazione che la necessaria disposizione di legge invocata dalla Carta Costituzionale, non potendo che essere specifica – dovendo riferirsi ad un «determinato trattamento sanitario» –, non può essere quanto previsto dall’art.2087, proprio per il suo grande portato di apertura, non riconducibile ad una norma che introduce un obbligo di vaccinazione, anche guardando al relativo precetto generale, sintetizzabile nella “massima sicurezza tecnicamente possibile”, quale obbligo di tutela a carico del datore di lavoro.

 

La vaccinazione, i problemi nelle realtà lavorative e il ruolo delle parti sociali

Ritiene che i problemi nelle realtà lavorative si risolverebbero se ci fosse una fornitura di vaccini più rilevante e una maggior velocità nelle vaccinazioni?

 

C.F.: A fronte dell’ampio dibattito al quale giornalmente assistiamo in merito all’efficacia, o meno, della campagna vaccinale e, nell’ambito di questa, sul problema dei ritardi e ridimensionamenti nella fornitura dei vaccini, un silenzio assordante lo si registra in merito ai problemi che già attualmente si stanno creando (e che nei prossimi mesi si intensificheranno) nelle realtà lavorative, nei riguardi della gestione delle diverse casistiche, all’interno della popolazione lavorativa. Oltre a dover considerare l’evidente non secondario tema della possibilità da parte dei lavoratori (in assenza di specifica disposizione normativa) di rifiutare di sottoporsi al vaccino, almeno per tutti coloro che non svolgendo mansioni che li espongono a “rischio biologico professionale”, non rientrano nei termini di quanto disposto dall’art.279 del dlgs 81/08 s.m.  sono molte altre le situazioni da dover affrontare.

 

Non possono essere, difatti, sottovalutati i problemi di organizzazione del lavoro, sia nei riguardi di coloro che presentano problemi di salute tali da non permettergli di potersi vaccinare, tra i quali coloro che non svilupperanno le difese immunitarie previste (che non è detto che in ogni realtà lavorativa siano numeri minimi), sia dovendo considerare che la vaccinazione non avverrà azienda per azienda, ma frazionando la popolazione lavorativa secondo criteri diversi (anche solo per fasce di età o semplice programmazione, oltre al tempo che separa la prima somministrazione, dalla seconda), determinando, in breve tempo, una situazione di evidente promiscuità tra coloro che sono vaccinati e coloro che sono in attesa (o privi, perché impossibilitati) di vaccinazione.

 

Escludendo un ricorso massivo al lavoro agile (specie nei casi di mansioni non eseguibili secondo una tale modalità di lavoro), così come anche il considerare tali lavoratori inidonei alla mansione (dovendo ricordare che un tale giudizio, espresso solo dal medico competente, può essere previsto ad oggi esclusivamente per coloro che svolgono mansioni per le quali è disposta la sorveglianza sanitaria), non potendo ritenere praticabile l’utilizzo delle ferie per fronteggiare tali diverse possibili situazioni, si dovrà proseguire ancora a lungo con il mantenere salda l’azione di prevenzione e tutela praticata fino ad ora, confermando gli interventi posti sui tre assi principali: distanziamento, protezioni individuali, igienizzazione. Ancor più, in attesa di certezze scientifiche, ad ora non ancora pervenute, relative all’efficacia dei vaccini, non solo nell’impedire la manifestazione della malattia nel soggetto vaccinato, ma anche la trasmissione dell’infezione agli altri.

 

In questo concreto scenario, se è evidente che una maggior fornitura di vaccini e una più rapida vaccinazione, potrebbero ridurre il tempo di raggiungimento dell’obiettivo dell’”immunità di gregge”, non si può negare che una percentuale non secondaria di soggetti, per ragioni diverse, non potrà comunque essere ricondotta in tale aggregato; dovendo non per questo, vedersi in nessun caso ridotto il proprio diritto al lavoro, anch’esso di rango costituzionale, richiedendo così ampi sforzi di riorganizzazione del lavoro. E’, quanto mai interessante (dovendone comunque verificare la fattibilità) la proposta sopraggiunta nelle scorse ore da parte di alcune associazioni datoriali nel voler mettere a disposizione spazi e risorse umane per favorire la vaccinazione dei lavoratori (come anche della cittadinanza), potendo così garantire una sostanziale uniformità di vaccinazione, almeno in merito alla tempistica di somministrazione.

 

In questa fase dell’emergenza quale è il ruolo che le parti sociali sindacali sono chiamate a svolgere nelle realtà lavorative?

 

C.F.: Considerato che l’attuale assenza di una normativa specifica – che comunque si auspica possa essere emanata – è certo che non sia stata determinata dalle difficoltà che il legislatore avrebbe potuto incontrare nell’elaborazione del provvedimento normativo vincolante, dovendo garantire il rispetto di alcuni criteri minimi (delineati da normative e giurisprudenza consolidata che, in sintesi, si riconducono a : - trattamento volto al migliorare lo stato di salute del singolo e della collettività; - intervento che non comporta conseguenze negative per chi vi si sottopone;  - equo indennizzo per i possibili danneggiati), ma forse più banalmente, a causa della recente crisi di governo; quello che è certo, è che soprattutto da parte di un attore sociale come il sindacato, in questo tempo di transizione, non possono non essere messi in atto, impegnando tutte le forze, interventi diversi a sostegno dei lavoratori. Due, tra gli altri, quelli fondamentali.

 

Una prima azione capillare, tale da intercettare più soggetti possibili, finalizzata al fornire strumenti di conoscenza utili, mirati a formare coscienze libere, perché informate (guardando anche al c.d. nudging approach, quale “spinta gentile” verso lo sviluppo di una volontà da parte di tutti al vaccinarsi per garantire una condizione di salute collettiva, anche a favore del singolo). Un garantire, quindi, quel diritto all’informazione indicato anche tra le misure di prevenzione specifiche, nella protezione particolare dalle ferite da taglio e da punta nel settore ospedaliero (Titolo X bis del D.Lgs. 81/08 s.m.) volto al far conoscere agli addetti, quale obbligo definito a carico del datore di lavoro, «i vantaggi e gli inconvenienti della vaccinazione o della mancata vaccinazione, sia essa preventiva o in caso di esposizione ad agenti biologici per i quali esistono vaccini efficaci» (così, l’art.286 sexies). A tale riguardo, è opportuno comunque ricordare quanto stabilito nell’art. 8 dello Statuto dei lavoratori (L.300/70) in base al quale, non solo al datore di lavoro è fatto preciso divieto di «effettuare indagini» sulle diverse opinioni (politiche, religiose…) del singolo, o su fatti non riconducibili alle strette ragioni di natura professionale, ma anche in caso di indagine effettuata mediante terzi. Non potranno, così, essere avanzate, da parte del datore di lavoro, come anche per mezzo del sindacato, o di altri, indagini esplorative preventive, all’interno della realtà lavorativa, per verificare la percentuale di consenso al vaccino che potrà risultare tra gli occupati. Una precisazione questa che si allinea con quanto di recentissimo sottolineato da parte del Garante della Privacy (GPDP) in merito al trattamento dei dati relativi alle vaccinazioni, nel contesto lavorativo.

 

Una non secondaria azione dovrà essere svolta, sempre da parte sindacale, al fine di garantire sostegno nella difesa dei personali diritti di tutti coloro che per ragioni diverse, non risulteranno vaccinati (non solo per personale convinzione o  per impedimenti determinati da evidenti e gravi motivi di salute, ma anche per programmazione dilatata nel tempo che vedrà gli occupati, dello stesso ambiente di lavoro, non essere vaccinati simultaneamente), agendo al loro fianco, attraverso l’azione della rappresentanza in azienda, per contrastare qualsiasi forma di discriminazione (così tanto, ancora oggi, praticata, spesso in modo subdolo, sfruttando il silenzio delle vittime, favorito dal bisogno di un occupazione) e in difesa del diritto al lavoro.

 

Rischio biologico, rifiuto della vaccinazione e inidoneità alla mansione

Le disposizioni normative vigenti in tema di prevenzione sono sufficienti per regolare il tema del vaccino anti-Covid 19 in ambiente di lavoro? Come affrontare le conseguenze dell’eventuale impossibilità o contrarietà del lavoratore alla vaccinazione?

 

C.F.: Se di specifiche disposizioni normative si parla, in merito alle vaccinazioni in ambito lavorativo, un puntuale attuale riferimento è rappresentato da quanto stabilito nell’art.279 del D.Lgs. 81 del 2008 s.m., nell’ambito del Capo III, in tema di «Sorveglianza sanitaria», del Titolo X, riferito alle «Esposizioni ad agenti biologici».

 

La precisa cornice nella quale è inserito tale articolo, cioè i rischi per gli occupati, derivanti da esposizione ad agenti biologici nello svolgimento delle proprie mansioni, richiede di dover ricordare quanto precisato sul tema dal Protocollo condiviso, siglato dalle Parti sociali il 14 marzo 2020 (aggiornato al 24 aprile 2020), in merito alla classificazione del rischio rappresentato dal Covid-19.

Operando una differenziazione netta tra gli ambienti di lavoro nei quali sono svolte mansioni che espongono gli addetti a rischio biologico di natura professionale e gli ambienti dove non vi sono mansioni che espongono gli occupati a tali rischi, il Protocollo condiviso ha ritenuto il rischio di contrarre infezione da Covid-19, quale «rischio biologico generico», in quanto di natura esogena.

 

A tale riguardo, difatti, anche il recente recepimento della Direttiva europea 2020/739, a seguito della quale è stato inserito il virus SARS-CoV2 nel gruppo 3 degli agenti biologici, non ha determinato alcun cambiamento nella valutazione del rischio, confermando che essendo un agente biologico dovrà essere considerato un rischio professionale solo per gli addetti che nello svolgimento della propria mansione potranno esservi “professionalmente” esposti, a differenza di coloro che non addetti a mansioni esposte a tale rischio, si potrebbero trovare a contrarre Covid-19, in ambito lavorativo, al pari di qualsiasi altro contesto o quale conseguenze determinata da qualsiasi altro virus.

 

Di conseguenza, quanto oggi disposto all’art.279 del D.Lgs. 81/08 s.m., è esclusivamente riferibile, anche nell’attuale stato emergenziale determinato dalla pandemia, alle tutele da garantire agli addetti che svolgono mansioni che li espongono ad agenti biologici, tra i quali, anche il virus SARS-CoV2.

Chiamato il datore di lavoro ad adottare misure di protezione per i lavoratori esposti al rischio biologico, nello svolgimento della propria mansione, al comma 2 dell’art.279, nel precisare che tali misure sono «particolari», in quanto mirate, a coloro che sono adibiti a tali lavorazioni a rischio, viene indicato che tra le misure speciali di protezione, vi sono «vaccini efficaci», da somministrarsi da parte del medico competente.

Il preciso riferimento ai vaccini, seppur indicati quali misure di protezione, «fra le» altre, è quanto di più rispondente oggi è previsto nel nostro ordinamento, in risposta alla riserva di legge costituzionale, riferita al contesto lavorativo.  La precisazione, poi, a corredo, della somministrazione di questi da parte del medico competente, figura prevista esplicitamente nel testo dell’articolato, quale attore della prevenzione con il quale il datore di lavoro è chiamato a confrontarsi sulla scelta delle misure di protezione speciali, tra le quali il vaccino, ne rileva ulteriormente, il preciso contesto delimitato delle tutele per addetti esposti a particolare rischio di natura professionale (sottoposti per questo a sorveglianza sanitaria). Precisazione, anche su questo punto, contenuta nella FAQ del Garante della Privacy (GPDP) in merito al trattamento dei dati relativi alle vaccinazioni, da parte del datore di lavoro nei riguardi del medico competente.

 

E’, però, nell’esplicitazione dell’altra misura speciale di protezione, nei termini dell’«allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42», prevista nello stesso comma 2, dell’art.279, alla lett. b, che si delinea, sempre per mano del legislatore di norma primaria, un’alternativa volta, potremmo dire, anche a riservare uno spazio per esercitare, anche all’interno di una precisa disposizione normativa che prevede i vaccini, una personale contrarietà/impossibilità al sottoporsi ad un tale trattamento. Il rimando esplicito alla condizione di inidoneità alla mansione specifica dell’occupato, nel caso di “altra” misura speciale di protezione, che non sia il vaccino, – e ai previsti trattamenti per tale casistica –, conferma il vincolo a carico del datore di lavoro di doversi adoperare, comunque, per garantire la prosecuzione dell’attività lavorativa, dovendo tenere conto delle capacità e delle condizioni di tali occupati, in rapporto alla loro salute e alla sicurezza (come anche previsto tra gli obblighi elencati nell’art.18, anche a carico del dirigente, in particolare, al co.1, lett. c).  

In questi termini, il datore di lavoro sarà chiamato, non solo al rispetto delle procedure disposte dall’art.42, ma a quanto integrato, ai sensi dell’evoluzione normativa che sul punto è intervenuta, con il D.Lgs 81/2015 s.m. e con il D.Lgs. 216/2003 s.m. (sul tema specifico degli accomodamenti ragionevoli). Procedendo, così, con l’adibire il lavoratore inidoneo ad altra mansione (anche di inquadramento inferiore, oltre allo stesso livello, purché rientrante nella stessa categoria legale), garantendogli il medesimo trattamento economico percepito con la mansione precedente, come anche l’obbligo di dover adottare ragionevoli misure di adattamento (nei termini previsti per l’applicazione di tale istituto giuridico) che siano richieste dalla situazione concreta per conciliare la particolare condizione di deficit di integrazione con la piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale, su basi di eguaglianza con gli altri occupati. E’ in questo quadro, caratterizzato da un evidente temporaneità di condizione di inidoneità, determinata da contrarietà/impossibilità al sottoporsi alla misura di protezione speciale del vaccino, per gli addetti a mansioni per le quali è prevista un’esposizione professionale ad agenti biologici (unico contesto, a tutt’oggi, regolato con norma specifica), che il ricorso da parte del datore di lavoro al licenziamento disciplinare, non trova ragioni concrete sufficienti per l’adozione di tale soluzione definitiva. Sia per giusta causa (non riscontrandosi ragioni così gravi che non consentano la prosecuzione del rapporto di lavoro, andando a ledere definitivamente il vincolo fiduciario), sia per giustificato motivo oggettivo (non potendo addurre motivi di natura organizzativa, dovendo intervenire proprio su essa, realizzando interventi finalizzati ad accogliere utilmente le prestazioni, conciliando le esigenze di tutele individuali e collettive, con la prosecuzione dell’attività lavorativa – interventi confermati ormai, da una consolidata giurisprudenza di merito e di legittimità, sulla base del nuovo concetto, di origine comunitaria, di disabilità).  

Al fine utilmente, invece, dell’analisi di soluzioni alternative, volte al conciliare la condizione di temporanea inidoneità alla mansione, con la prosecuzione dell’impiego al lavoro, sarà quanto mai determinante il confronto costruttivo che, a tale scopo, potrà avvenire all’interno del comitato aziendale (come anche a quello territoriale), istituito sulla base di quanto previsto dal Protocollo condiviso (al punto 13), tra le figure della prevenzione, a partire dal datore di lavoro in collaborazione con le rappresentanze sindacali (di natura contrattuale e tecnica, RSA/RSU-RLS; che nel territorio corrispondono alla parte sociale sindacale e all’RLST). Potranno, così, essere vagliati tutti i possibili interventi che si riterranno adeguati, praticabili e rispettosi delle scelte/condizioni dell’occupato (non sottoposto a vaccinazione), prendendo in considerazione anche, quando possibile, l’utilizzo della modalità del lavoro agile, un rafforzamento dei dispositivi di protezione individuale e collettiva, modifiche dell’organizzazione del lavoro, giungendo solo in fine, da parte del datore di lavoro, chiamato a dimostrare l’impossibilità di qualsiasi altra forma alternativa, alla sospensione senza retribuzione, quale provvedimento di carattere, ovviamente, temporaneo e non conclusivo del rapporto di lavoro. Soluzioni queste che dovranno essere valutate, sempre nell’ambito del Comitato, per tutti quei lavoratori che, non addetti a mansioni riconducibili al dettato dell’art.279 e, comunque, non addetti a mansioni per le quali è prevista la sorveglianza sanitaria, non verranno ritenuti inidonei (in quanto non destinatari di alcun giudizio da parte del medico competente), pur condividendo la medesima posizione di soggetti che necessitano, a fronte dell’attuale assenza di una normativa specifica, di una soluzione che contemperi la loro condizione di non vaccinati con il diritto al lavoro. Non potendo trascurare che l’informazione sul proprio stato di vaccinati, o meno, di tali lavoratori non potrà essere richiesta da parte del datore di lavoro, come affermato dal Garante della Privacy.

 

Il futuro del protocollo condiviso per il contenimento del virus nei luoghi di lavoro

Il protocollo condiviso ormai fa riferimento ad una fase precedente della pandemia. Non è prevista una futura revisione e secondo quali criteri?

 

C.F.: Il Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, siglato dalle Parti sociali nazionali il 14 marzo 2020 (aggiornato il 24 aprile 2020), come si sa, ha rappresentato, e ancora rappresenta, lo strumento di regolazione cardine delle misure di prevenzione e tutele per il contrasto alla diffusione del Covid-19, in ambiente di lavoro. Riconosciutagli validità erga omnes, superando l’iniziale natura contrattuale, ha visto confermata nel tempo la sua obbligatorietà, nei termini espressi dall’art.29 bis della L.40/2020, in base al quale l’applicazione delle prescrizioni contenute, da parte del datore di lavoro, è ritenuta adempimento dell’art.2087 cod. civ.

La scelta, poi, condivisa dai sottoscrittori, di riconoscere nel modello partecipativo la modalità necessaria per poter efficacemente contrastare il rischio di contagio da Covid-19, attraverso la costituzione di uno specifico comitato (aziendale o territoriale) a partecipazione ampia, con la duplice presenza della rappresentanza (contrattuale e tecnica), ha di certo determinato quegli interventi di rilievo che, fautori di processi e misure adeguate di tutela, durante lo stato emergenziale, non potranno non rappresentare prova sufficiente per far proseguire, quale eredità positiva anche in futuro, il duplice coinvolgimento della rappresentanza sui temi della prevenzione. Soprattutto avendo riconosciuto, in modo evidente e concreto, per volontà di entrambe le parti sociali, il necessario superamento di quella sterile separazione tra organizzazione del lavoro e salute e sicurezza, per poter garantire adeguati livelli di prevenzione e tutela, mirati alle diverse esigenze della popolazione lavorativa, essendovi ricorsi – ipotizzando effetti positivi – in un momento di così elevata difficoltà, come la gestione di una pandemia e la prosecuzione delle attività lavorative.  

 

Trascorsi, però, ormai dodici mesi dalla prima stesura e, circa dieci mesi dal suo aggiornamento, data la repentina evoluzione delle fasi della pandemia e la conseguente relativa produzione di provvedimenti normativi necessari, a contenerne gli effetti, ma anche a conciliare la sempre maggiore ripresa della quotidianità e delle attività lavorative, compatibilmente con l’andamento del contagio, la mancata revisione di quanto disposto nel Protocollo, sta determinando problemi concreti per la sua attuale applicazione; non potendo, inoltre, non considerare  le eventuali responsabilità che da questa ne possono derivare.

A tale riguardo, pur non già pianificata una prossima revisione, nell’incontro con il nuovo ministro del lavoro è già stato posto il tema tra le priorità, in particolare per quanto riguarda lo svolgimento della formazione obbligatoria (non erogabile in modalità remota), la gestione delle trasferte, il rientro in azienda dei lavoratori ex-contagiati (tra i quali coloro che hanno una condizione certificata di positività asintomatica prolungata). L’occasione della revisione potrebbe condurre anche ad una riflessione, di concerto con i ministeri competenti, sull’utilizzo di tale strumento regolativo come alveo per introdurre quella «disposizione di legge», prevista dalla Carta Costituzionale come necessaria per obbligare ad un «determinato trattamento sanitario», quale il vaccino per il Covid-19, senza per questo sostituirsi al ruolo primario del legislatore.

 

 

 

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

  

 

Scarica la normativa e i documenti di riferimento:

Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro.

 

 


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Rispondi Autore: marino azzati - likes: 0
02/03/2021 (09:14:21)
a livello europeo è stata data indicazione sulla non obbligatorietà.

https://pace.coe.int/en/files/29004/html

risoluzione 2361 della assemblea parlamentare del 27/01/2021
Rispondi Autore: Giovanni RAFFAELE ex ispettore tecnico - likes: 0
02/03/2021 (10:06:51)
A parte la stima per Lei ed anche se in diverse occasioni ho dovuto constatare la diversa posizione su norme della sicurezza, tra cui su quest'argomento, dove Lei inizialmente era della stessa linea di qualche cassazionista ed ex giudice, ma vedo con piacere che oggi si trova con un giudizio sulla tematica come vista dai più ed in particolare di chi la materia tecnica la mastica dalla mattina alla sera. Complimenti e condivido il suo odierno pensiero.
Rispondi Autore: marino azzati - likes: 0
02/03/2021 (11:02:40)
a livello europeo è stata data indicazione sulla non obbligatorietà.

https://pace.coe.int/en/files/29004/html

risoluzione 2361 della assemblea parlamentare del 27/01/2021
Rispondi Autore: giorgio tomelleri - likes: 0
30/03/2021 (10:00:43)
si parte dal presupposto che il COVID 19 sia una malattia curabile solo con il vaccino.
Ma ascoltando molti virologhi , essi sono del parere che il COVID 19 può essere curato.
Perché non si inizia a studiare bene tutte le possiblità di cura dopo aver contratto la malattia, come si e' sempre fatto?
Perché curare prima di ammalarsi ?
Quale l'obbiettivo?
Forse diventare una società di vecchi sani?

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