Art. 2087 e COVID-19: valutazione dei rischi e obblighi datoriali
Ci soffermiamo oggi in particolare su un saggio - pubblicato su “Diritto della sicurezza sul lavoro”, rivista dell'Osservatorio Olympus e pubblicazione semestrale dell' Università degli Studi di Urbino – che, parlando di responsabilità e obblighi datoriali, affronta anche i temi relativi alla necessità o meno di aggiornare la valutazione dei rischi e agli obblighi derivanti dall’art. 2087 del Codice civile.
Nell’articolo ci soffermiamo sui seguenti argomenti:
- La natura del rischio da contagio e la valutazione dei rischi
- Il rischio da COVID-19 come rischio generico aggravato
- I confini dell’obbligo di protezione per il datore di lavoro
La natura del rischio da contagio e la valutazione dei rischi
Nel saggio “Art. 2087 c.c.: principio della massima sicurezza esigibile e rischio da contagio”, a cura di Luisa Rocchi (dottoranda di ricerca, Sapienza Università di Roma), ci si sofferma dunque sulla natura del rischio da contagio e sulle sue ricadute applicative: la valutazione di rischi.
Si indica che secondo alcuni il rischio da contagio “deve essere qualificato come un rischio biologico generico, non professionale, ovvero un rischio al quale è esposta la collettività e, dunque, il lavoratore non in quanto tale ma come membro di essa”. E questa opzione sembra poi condivisa dallo stesso “ Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” del 24 aprile 2020.
All’opposto si pone “chi invece ne ravvisa un rischio che trova comunque la sua fonte nell’attività d’impresa, non potendosi escludere la natura professionale. Infatti, l’accezione di rischio professionale dovrebbe essere intesa non come quel rischio che è insito nel tipo di professione, ma nel senso di rischio al quale è esposto il lavoratore, che è presente nel contesto organizzativo e investe il prestatore di lavoro che attenda alle sue mansioni”.
In particolare tale teoria “fa leva sull’interpretazione strettamente letterale dell’art. 2, lett. q e dell’art. 28, comma 1, del d.lgs. n. 81/2008, i quali fanno riferimento ad una valutazione ‘globale’ di ‘tutti’ i rischi che vengono generati, non solo dal tipo di lavoro, ma anche da quelli derivanti dalle concrete modalità di svolgimento dello stesso, non essendo esclusi dall’ambito di tutela del T.U. del 2008 neanche i cd. rischi esogeni”.
Chiaramente le conseguenze di queste due impostazioni si ripercuotono, in sostanza, sulla “necessità o meno di effettuare la valutazione dei rischi stante il dettato normativo di cui all’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 81/2008, il quale prevede che in caso di ‘modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità’”. Ad esempio “se si ritiene che il datore di lavoro debba tenere presente “tutti” i rischi che in qualche modo sono presenti in azienda, graverebbe su di lui l’obbligo di aggiornamento del DVR essendo inevitabile che il rischio da Covid-19 abbia comportato una modifica degli assetti organizzativi”.
Il rischio da COVID-19 come rischio generico aggravato
Tuttavia c’è anche un’interpretazione mediana che qualifica il rischio da SARS-CoV-2, come un rischio aggravato.
Infatti “fermo restando la natura di rischio biologico specifico per alcuni settori, non può negarsi infatti che il contesto aziendale in cui viene a svolgersi la prestazione, comporti un innalzamento del livello di esposizione al rischio da contagio, rispetto a quello socialmente accettato nella comunità cui appartiene il lavoratore. In tal caso, infatti, il lavoratore è esposto maggiormente, sia dal punto di vista dell’intensità che della frequenza, al rischio pandemico, coinvolgendo in misura maggiore, coloro che sono stati tenuti a prestare la loro attività durante il periodo emergenziale”.
E sebbene la nozione di rischio aggravato “non sia espressamente contenuta nella legge, è unanimemente riconosciuta dalla giurisprudenza” con riferimento ad un rischio ‘che, pur essendo comune a tutti i cittadini che svolgono l’attività lavorativa dell’assicurato, si pone tuttavia in ragione di necessario collegamento eziologico con l’attività lavorativa del medesimo’ (Cass. civ., sez. lavoro, 27 gennaio 2006, n. 1718).
Tuttavia qualificare il rischio da COVID-19 come generico aggravato “non significa richiedere al datore di lavoro chissà quale elaborazione scientifica e tecnica per la valutazione dei rischi e nell’individuazione delle cautele da approntare”.
E anche accedendo a tale interpretazione del rischio “restano valide le misure previste dal Protocolli condiviso integrato in data 24 aprile 2020 – e così le successive indicazioni che sono state emanate – con riguardo alle caratteristiche della singola azienda cui del resto lo stesso Protocollo rimanda. Il datore di lavoro dovrà procedere all’adattamento di quelle misure che sono già state individuate, (ad esempio con riguardo all’eventuale compresenza e afflusso di persone ed alla precarietà dei locali) che riflettono indicazioni di tutela comunque già descritte in via generale dalla normativa emergenziale e dai protocolli di sicurezza, da adattare soltanto alla specifica attività”.
In altre parole – continua l’autore – “le considerazioni appena svolte non possono condurre alla conclusione secondo cui l’imprenditore debba procedere ad una nuova valutazione dei rischi ed adottare misure ultronee finanche innominate” rispetto a quelle individuate dal Protocollo, “ma significa soltanto prendere atto della possibilità che il contesto lavorativo potrebbe aggravare il contagio e dunque aumentare il rischio di contrarre il c.d. coronavirus”.
I confini dell’obbligo di protezione per il datore di lavoro
Si indica che “le misure precauzionali emergenziali adottate dal Governo e dalle Parti sociali rappresentano le misure cd. nominate e costituiscono, allo stato, la maggior scienza tecnologicamente possibile ai sensi dell’ art. 2087 c.c.”. Tuttavia potrebbe essere “sollevato il dubbio che le misure emergenziali non escludano o comunque non segnino il confine della responsabilità datoriale, restando salve le misure cd. innominate nella sua complessa articolazione, e che pertanto il Protocollo e le misure definite ora, e ovviamente tempo per tempo dalla normativa emergenziale, non esauriscano il rispetto dell’obbligo di sicurezza imposto dall’art. 2087 c.c., stante l’assenza di una norma che fissa i limiti della responsabilità datoriale”.
Si ricorda, infatti, che l’art. 2087 c.c. si caratterizza “per essere una norma di chiusura del sistema, che si adatta alle modifiche del tempo, ai sensi della quale, l’imprenditore è tenuto a prevedere tutte le misure che ‘secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro’, principio ribadito anche nel d.lgs. n. 81 del 2008, all’art. 2, lett. n”. Se ne ricava che il datore di lavoro “non deve adottare soltanto misure strettamente tecniche, ma ogni comportamento che sia idoneo ad evitare il verificarsi del rischio presente in azienda, ed anche accorgimenti organizzativi”. E ciò “prende le mosse dalla valenza dinamica della norma, dal suo contenuto elastico che impone all’imprenditore l’adozione di tutte quelle misure che siano comunque necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, ossia quelle che pur non espressamente imposte dalla legge siano comunque richieste dall’esistenza di condizioni di lavoro obiettivamente – ancorché solo potenzialmente – pericolose. Tuttavia, l’assenza di una disposizione in tal senso non può indurre ad affermare che il datore di lavoro debba fare di più rispetto a quanto previsto nel Protocollo condiviso e dalle successive misure adottate”. Ne è mai stato chiesto al datore di lavoro di “sperimentare esso stesso misure ulteriori e innovative tanto da ricercare lui stesso misure più avanzate”.
Pertanto l’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 c.c. che incombe in capo al datore di lavoro “è pienamente garantito dalle misure individuate a monte dall’autorità governativa, ad oggi l’unica in grado ad avere quelle competenze necessarie per operare una simile valutazione. A fugare il campo da possibili incertezze, soccorre non solo il dato letterale dell’art. 2087 c.c., ma anche l’interpretazione giurisprudenziale in tema di misure innominate, poiché anche tali cautele sono sottoposte all’individuazione di una legge scientifica di copertura. Infatti, le misure innominate ‘ancorché non espressamente imposte dalla legge o da altra fonte equiparata, sono suggerite da conoscenze sperimentali o tecniche ovvero dagli standard di sicurezza normalmente osservati’”.
In sostanza - indica il contributo – “anche le misure innominate devono attenere a standard di sicurezza, che si basano sui parametri della scienza e della tecnica. Ma nel caso del contagio Covid-19 ancora oggi la scienza non è stata in grado di delineare un quadro scientifico, tant’è che la stessa giurisprudenza ha ben colto questo stato di incertezza rilevando come ‘non vi sono ancora acclarate e solide conoscenze scientifiche in ordine alle modalità di trasmissione del coronavirus’ (Tar Campania, sez. V, ordinanza 22 aprile 2020, n. 826).
E dunque il perimetro della responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. “dovrà ragionevolmente dirsi contenuto, ed esaurito, oggi, nell’obbligo di ‘puntuale e diligente adempimento delle specifiche misure di sicurezza tempo per tempo previste dal Protocollo e dalla normativa emergenziale in evoluzione” non potendosi esigere oggettivamente di più”.
In definitiva la normativa emergenziale e le varie soluzioni proposte “consentono di evidenziare come alla base della ratio delle misure adottate vi sia il principio di precauzione”, un principio che si basa infatti su ‘uno stato di incertezza o di un ragionevole dubbio riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, e in base a tale presupposto che possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l’effettiva esistenza e la gravità di tali rischi, comportando che, l’azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche’ (Cons. Stato, sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6655).
Infatti il principio di precauzione “viene in gioco in situazioni dove ancora il sapere scientifico è in divenire avendo ad oggetto rischi che sono tendenzialmente ignoti”. E ciò – conclude l’autore – “avalla la tesi secondo cui le misure previste dalla legislazione emergenziale si ispirano a questa logica che va ben oltre il contenuto del 2087 c.c., ispirato, al contrario, al principio di prevenzione accolto dal sistema in tema di salute e sicurezza sul lavoro orientato, d’altronde, all’eliminazione del rischio”.
Scarica il documento da cui è tratto l'articolo:
Università di Urbino Carlo Bo, Osservatorio Olympus, Diritto della sicurezza sul lavoro, “ Art. 2087 c.c.: principio della massima sicurezza esigibile e rischio da contagio”, a cura di Luisa Rocchi - Dottoranda di ricerca, Sapienza Università di Roma (formato PDF, 347 kB).
Scarica la normativa di riferimento:
DECRETO-LEGGE n. 104 del 14 agosto 2020 - Misure urgenti per il sostegno e il rilancio dell'economia.
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Rispondi Autore: Lenny - likes: 0 | 18/09/2020 (08:30:39) |
Ci troviamo di fronte a un rischio biologico generico per tutti i codici Ateco (esclusa la Sanità e assistenza sociale). Se così non fosse, il DdL avrebbe l'obbligo di tutelare il lavoratore esposto dal virus EBV o da tutti gli inquinanti presenti nella pianura Padana o dall'inquinamento veicolare per il semplice fatto di avere aperto un negozio in centro città e non in un bosco in alta montagna. |
Rispondi Autore: abele - likes: 0 | 18/09/2020 (12:03:27) |
a mio parere invece un problema legislativo c’è e l'autorità governativa ha garantito poco. il principio di precauzione e di prevenzione vengono meno proprio per le indicazioni che l’OMS fornisce in merito ad asintomatici e a “futuri infetti”. la scienza e l'esperienza in materia di coronavirus ci dice che in caso di evidenza di un positivo si dovranno verificare (tamponare) tutte le persone che nelle 48 ore precedenti hanno avuto contatti stretti con chi evidenzia i sintomi, evidentemente perché la scienza e la conoscenza attuale ci informano che il virus potrebbe essere stato trasmesso anche in assenza di sintomi evidenti. in questo caso quindi ci potrebbe essere chi si potrà considerare non protetto qualora lavorasse in contatto stretto con persone (per es. in RSA) che pur non manifestando sintomi potrebbero essere positivi già da due giorni e a detta dell’ISS dovrebbe lavorare esclusivamente con mascherine chirurgiche o addirittura senza (e quindi non protetto qualora il “portatore” non fosse in grado di indossare la mascherina). Forse è un po’ contorto il ragionamento ma porta al fatto che chi ha necessità di contatti stretti con persone che non sono in grado di indossare una mascherina dovrebbero (a differenza di quanto indicato dall’ISS) indossare sempre un DPI(FFP2) anche se il “contatto” non presenta sintomi evidenti. |
Rispondi Autore: avv. Rolando Dubini - likes: 0 | 20/09/2020 (00:53:08) |
Un ragionamento giuridicamente ineccepibile della Dott.ssa Luisa Rocchi. Il rigore delle norme vigenti è sfuggente per chi è abituato al metodo spannometrico. |
Rispondi Autore: Anto - likes: 0 | 04/10/2020 (22:42:16) |
Secondo lei un infermiere con mutazione mthfr omozigote , Mutazione di Leiden V eterozigote ha diritto a una forma di protezione in ambito lavorativo visto che incaso di Infezione grave da Covid il rischio di aggravamento e' molto alto? Quale ruolo ha il medico competente inn merito? |