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SICUREZZA DELLE MACCHINE

Rolando Dubini

Autore: Rolando Dubini

Categoria: Attrezzature e macchine

05/12/2005

La Cassazione ribadisce: “la Direttiva macchine ha funzione integrativa, ma non assorbente, in quanto ogni Stato membro ha il potere-dovere di tutelare il bene della salute anche con criteri più rigidi. A cura dell’Avv. Rolando Dubini.

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Di Rolando Dubini, avvocato del foro di Milano.

Sicurezza delle macchine tra D.P.R. n. 547, D.Lgs. n. 626 e D.P.R. n. 459

Cassazione sezione terza penale - Sentenza n. 37408 del 14 ottobre 2005 (u.p. 24 giugno 2005) - Pres. Savignano - Est. Postiglione - P.M. (Conf.) Meloni - Ric. Guerinoni

Sicurezza del lavoro - Macchine - Norme di prevenzione infortuni del D.P.R. n. 547/1955 e D.Lgs. n. 626/1994 - Abrogazione da parte del D.P.R. n. 459/1996 - Esclusione – Funzione integrativa del D.P.R. n. 459/1996

La Direttiva macchine 89/392/Cee, recepita in Italia con D.P.R. 24 luglio 1996 n. 459, non ha comportato il venir meno del D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547 ne del D.Lgs. 19 settembre 1994 n. 626, costituendo un minimum tecnologico obbligato comune per alcune tipologie di macchine nei luoghi di lavoro, ed ha dunque, una funzione integrativa, ma non assorbente, in quanto ogni Stato membro ha il potere-dovere di tutelare il bene della salute anche con criteri più rigidi, sicché, per quanto attiene il caso in esame, per le macchine già installate ed in uso prima della entrata in vigore del D.P.R. n. 459/1996, valgono comunque le regole generali di prevenzione esistenti nei singoli Paesi.

Nota

Tra i problemi inerenti alla normativa in tema di sicurezza delle macchine, fa spicco quello che conceme i rapporti tra le norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro dettate dalle leggi degli anni cinquanta, e, segnatamente, dal D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547, e il D.P.R. 24 luglio 1996 n. 459. (Per una prima illustrazione del D.P.R. n. 459/1 996 v, Guanniello, / soggetti obbligati nei decreto macchine, in Isl, 1997, 3, 155).

In passato, Cass. 10 luglio 2002, Bocchini (In Dir. prat. lav., 2002, 34, 2276) affrontò il caso di un infortunio occorso nell'uso di un utensile: il rappresentante legale della ditta produttrice di tale utensile lamentava di essere stato condannato per il delitto di lesione personale colposa sull'erroneo presupposto che detta macchina fosse una motozappa, e che in realtà il veicolo «non era una motozappa, ne un motocoltivatore, bensì un piccolo trattore a due assi, il tutto disciplinato dall'art. 3, D.P.R. n, 459/1996», e, dunque, un utensile «ideato e costruito nel pieno rispetto della normativa relativa alla sicurezza e alla prevenzione degli infortuni sul lavoro». Nel respingere questa doglianza, la Sez. III prese atto che «le ragioni della colpa addebitata all'imputato» erano state individuate nel «fatto che l'apparecchio non fosse dotato di adeguata protezione e di idoneo dispositivo di sicurezza al fine di evitare pericoli per la sicurezza dei lavoratore ex art. 68, D.P.R. n. 547/1955», e che «l'apparecchio ideato e costruito dall'imputato non era stato modificato mediante assemblaggio con altri elementi aggiunti dal compratore di sua iniziativa». Prese atto, altresì, che «il mezzo meccanico, all'epoca della sua costruzione (nel 1978), era denominato motozappa», e «prevedeva la guida dell'operatore seduto e non a piedi», sicché «era prevedibile - essendo il mezzo destinato a lavori agricoli su terreni sconnessi - che potessero verificarsi ipotesi di retromarcia, di improvvisa oscillazione o comunque di movimenti bruschi». Ne ricavò che «era necessario - come prescritto dall'ari, 68, D.P.R. n. 547/1955 - dotare l'apparecchio di idonei sistemi di protezione o di adeguati dispositivi di sicurezza, al fine di evitare che la fresa in movimento potesse provocare lesioni agli arti inferiori dell'operatore seduto sul sedile dell'apparecchio». A questo punto, sottolineò che «il richiamo della normativa di cui al D.P.R. n. 459/1996 (recante "Regolamento per l'attuazione delle direttive Cee concernenti il riavvicinamento della legislazione degli Stati mèmbri relativa alle macchine") non è pertinente alla materia oggetto del presente processo», in quanto «la citata disciplina è successiva alla normativa vigente all'epoca dei fatti».

In ogni caso, utilmente insegnò che tale disciplina «non ha abrogato gli artt, 55, 68, 69, 75 del D.P.R.n. 547/1955 richiamati nel capo di imputazione contestato all'imputato». Infine aggiunse che «il fatto che la successiva disciplina di cui al D.P.R. n. 459/1996 possa prevedere una classificazione e denominazione degli apparecchi usati nei lavori agricoli diversa da quella vigente all'epoca della costruzione e vendita del mezzo in uso all'infortunato, non impedisce, sotto il profilo logico-giuridico, di denominare tuttora motozappa il mezzo costruito dall'imputato, se tale era la denominazione usata allora», trattandosi «di mera denominazione nominale che non muta la sostanza del problema: ossia la corretta individuazione delle norme poste a tutela della sicurezza sul lavoro da applicare nel caso in esame». La conclusione fu che «le norme di cui agli artt. 56, 68, 69, 75, D.P.R. n. 547/1955 richiamate nell'imputazione contestata erano pertinenti alla materia in esame e sono tuttora in vigore».

 

Successivamente, Cass. 4 febbraio 2003, Sassi {ìbid., 2003, I 1, 743) tornò sul tema. Condannato per il reato di cui agli arti 68 e 389, lettera b),D.P.R. n, 547/1955, un datore di lavoro aveva dedotto in propria difesa che «il giudice di mento non aveva tenuto conto della norma di legge che consentiva di continuare ad utilizzare nel ciclo produttivo tutte le macchine manuali, automatiche e semiautomatiche prodotte prima del 1996, pur non rispondenti alle più recenti disposizioni comunitarie, ma, comunque, conformi al D.P.R. n. 547/1955», e che «la macchina in questione (una piegatrice) era conforme alla previgente normativa».

La Sez. III fu di contrario avviso. Rilevò che, «presso lo stabilimento era in funzione una macchina piegatrice del tipo automatico, che presentava organi lavoratori e relative zone di operazioni, sprovviste di idonei dispositivi di sicurezza», e che «gli organi lavoratori della citata macchina piegatrice, nonché le relative zone di operazione, costituivano un pencolo per i lavoratori addetti alle macchine»), tanto che «si era anche verificato un infortunio in danno di un dipendente addetto alla lavorazione della macchina».

Ne ricavò che «la condotta dell'imputato – quale rappresentante legale della società - integra il reato di cui agli arti. 68 e 389, lettera b), del D.P.R. N, 547/1955». Argomentò che «la disciplina normativa di cui al citato art. 68, D.P.R, n. 547/1955 prescrive che in ogni caso ed in qualsiasi fase dell'uso di una macchina, il pericolo derivante dagli organi lavoratori della stessa deve essere rimosso mediante idonei sistemi di protezione, oppure, quando ciò non sia tecnicamente possibile, mediante l'adozione di dispositivi di sicurezza», e, «comunque, non lascia alcun margine di discrezionalità in ordine alla necessità di evitare i funzionamento della macchina quando lo stesso costituisca pencolo per il lavoratore addetto». Criticò poi «l'assunto difensivo - secondo cui l'uso della citata macchina piegatrice era legittimo, in virtù della normativa di cui al D.P.R. 24 luglio 1996, n. 459 (Regolamento per l'attuazione delle direttive 89/392/Cee, 91/368/Cee, 93/44/Cee e 93/68/Cee, concernenti il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati mèmbri relative alle macchine)»: «La disciplina prevista dal citato D.P.R. n. 459/1996 non ha abrogato la norma di cui all'art. 68, D.P.R. n. 547/1955», e, «comunque, non ha autorizzato l'uso di macchine (nella specie la piegatrice) che costituiscono - a causa dei loro organi lavoratori e delle relative zone di operazioni - pericolo per i lavoratori addetti al funzionamento della macchina medesima».

 

Nell'ipotesi poi esaminata daCass. Pen. Sez. IV, 30 gennaio 2004, Vagaggini (in /s/, 2004, 6, 373)

La fattispecie riguarda «un operaio addetto alla pulizia e manutenzione degli ambienti di lavoro e degli impianti, era salito su una macchina-telaio, peraltro già a motore spento, per rimuovere un residuo di lavorazione che si era fermato nei pressi dell'aspiratore, ben sapendo che il batuffolo di cotone, se fosse entrato nel telaio, avrebbe potuto danneggiare il tessuto», e, «nel fare ciò la mano veniva risucchiata dalla ventola di aspirazione, collocata all'interno della macchina e non visibile dall'esterno, della quale ignorava l'esistenza e di cui non aveva potuto sentire il rumore in quanto coperto da quello dell'ambiente di lavoro»,

Mentre i datori di lavoro avevano patteggiato, l'amministratore della Srl costruttrice della macchina-telaio era stato condannato per il delitto di lesioni personali colpose gravi, «perché l'impianto di aspirazione del telaio non era a norma di legge, per essere le ventole dei motori accessibili dall'esterno, in violazione dell'ari 41, D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547, e tale accessibilità era stata resa possibile da un intervento di modifica della macchina-telaio operato dalla stessa ditta costruttrice che, per assicurare un miglior funzionamento del telaio, aveva rimosso la protezione alla saracinesca di accesso alla ventola».

Nel respingere il ricorso proposto dall'imputato, la Sez. IV precisò in primo luogo che «la zona dove si è verifìcato l'incidente costituiva sicuramente luogo di lavoro, dal momento che ivi si poteva rendere necessario - come di fatto avvenuto - uno specifico intervento del lavoratore addetto alla pulizia sia degli ambienti di lavoro che degli impianti, per rimuovere residui di cotone che, se aspirati, avrebbero pregiudicato la buona riuscita del tessuto».

Rievocò poi l'orientamento costante del giudice di legittimità, ovvero che «secondo la giurisprudenza di questa Corte, luogo di lavoro è un qualsiasi luogo in cui il lavoratore possa accedere, anche a prescindere dalle specifiche incombenze affidategli, e tanto più dunque quello che si identifica con l'ambito stesso in cui l'operaio svolgeva le sue ordinarie mansioni».
Sottolineò la confusione concettuale presente nella difesa dell'imputato, tale da confondere erroneamente «la nozione di luogo di lavoro con quella di macchinano che opera senza necessità dell'intervento costante di una persona addetta, destinato ad aspirare la polvere di lavorazione, e che funziona in piena autonomia», e sottolineò che «anche in questo caso è possibile che si renda necessario l'intervento umano, ad esempio per riparare un guasto o per rimuovere un ostacolo, ed è evidente che la pericolosità del macchinario deve essere valutata in relazione non già alla sua normale ed automatica attività ma bensì in relazione a quegli interventi che devono essere compiuti dai lavoratori».

In conclusione, poi, la Sez. IV chiarì un ultimo punto, ovvero che non «giova all'imputato invocare l'art. 56 del D.P.R. n. 547/1955, dal momento che tale disposizione, che prevede un obbligo assoluto di protezione di alberi, cinghie e funi di trasmissione fino a due metri di altezza, non esclude che anche al di sopra di tale altezza si debbano porre in essere strumenti di protezione e sicurezza allorché le macchine (art. 41) o gli organi di trasmissioni e gli ingranaggi (art, 55) "costituiscono un pericolo", disposizioni che certamente non sono state abrogate dalle norme europee attuate con la "direttiva macchine", parimenti invocate dall'imputato».

 

La Sez. III affronta il tema dei rapporti tra i due decreti delegati D. Lgs. n. 626/94 e D.p.r. n. 547/55, norme primarie sanzionate penalmente, e il D.p.r. 459/96, mero regolamento di attuazione non sanzionato penalmente, riaffermando la supremazia giuridica dei primi due decreti, a fronte dei quali il D,p.r. n. 459/96 esprime una funzione meramente integrativa.

 

 La Suprema Corte si occupa di un caso specifico, relativo ad una macchina immessa sul mercato/entrata in servizio prima dell'entrata in vigore del D.p.r. n. 459/96, e ciò nonostante non si astiene dal formulare, in premessa, conclusioni di carattere generale, che ribadiscono l'insegnamento, incontrastato nella giurisprudenza di legittimità, sulla vigenza e supremazia dei Decreti delegati n. 547/55 e 626/94 (penalmente sanzionati, e dunque obbligatori e cogenti), la cui applicabilità e validità normativa non è stata affatto intaccata dal regolamento governativo n. 459/96 (penalmente irrilevante, in se e per sé considerato), che deve considerarsi, in una prospettiva meramente penalistica, una norma meramente integrativa e totalmente subordinata ai dettami delle citate disposizioni penalmente sanzionate.

 

Questo consolidato orientamento interpretativo del giudice di legittimità contrasta in modo stridente con le prassi illegittime degli organi di vigilanza che tendono erroneamente a non applicare il tuttora vigente articolo 7 e tutti gli altri articoli questo connessi del D.p.r. n. 547/1955 al costruttore-rivenditore-concedente in uso [cfr.Cassazione penale sez. IV - Sentenza 5 dicembre 2002, n. 40942 - Pres. Pioletti - Est. Brusco - P.M. (Conf.) Abate - Ric. Marradi -Nel respingere il ricorso dell'imputato la Cassazione, sez. IV premette, anzitutto, che "il costruttore risponde per gli eventi dannosi causalmente ricollegabili alla costruzione e fornitura di una macchina priva dei necessari dispositivi o requisiti di sicurezza (obbligo su di lui incombente per il disposto dell'art. 7 D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547)".] alimentate da ancor più illegittime e fuorvianti circolari ministeriali e linee guida regionali, che ignorano e prescindono incredibilmente dalla gerarchia delle fonti tipica dell'ordinamento giuridico italiano (secondo la quale le norme di legge sono fonti primarie, includendo in questi decreti delegati D.p.r. n. 547/1955 e il D. Lgs. n. 626/94 che la sentenza qui esaminata pone sullo stesso piano), dalla riserva di legge in materia penale, dal principio di specialità ex art. 15 codice penale, dalla clausola di salvaguardia delle norme nazionali di (maggior) tutela della salute prevista dall'articolo 30 del Trattato Ce del 1957, dell'articolo 32 della Costituzione e dall'articolo 2087 del codice civile.

 

Premette la S.C. che «la normativa italiana nel settore, molto dettagliata e specifica, risale al D.P.R. n. 547/1955, ed è quella correttamente applicata nel caso in esame». A tal riguardo precisa che, nella specie, «è stato accertato non solo un inadempimento oggettivo strutturale (la inadeguatezza delle misure preventive tecnologiche attinenti alle macchine utilizzate), ma anche soggettivo (mancata osservanza, nel termine stabilito, delle misure imposte dall'ispettore a seguito dei due sopralluoghi, misure aventi carattere "cogenti" ex art. 20 e segg. D.Lgs. n. 758/1994)»,

Riafferma, in modo deciso e con una affermazione di carattere generale la cui portata oltrepassa in modo chiaro ed evidente il caso specifico, che «la normativa comunitaria citata dal ricorrente (Direttiva macchine 89/392/Cee), recepita in Italia con D.P.R. n, 459/1996, non ha comportato il venir meno del D.P.R. n. 547/1955 e del D.Lgs, n. 626/1994, costituendo un "minimum tecnologico obbligato comune" per alcune tipologie di macchine nei luoghi di lavoro, senza esclusione del potere degli stati mèmbri di conservare o istituire un regime più severo».

Questo principio generale viene enunciato in modo del tutto conforme alla fondamentale clausola di salvaguardia delle disposizioni nazionali restrittive prevista dall'articolo 30, in relazione agli articoli 28 e 29, del Trattato istitutivo della Comunità Europea [stranamente, ma a ben pensarci neppure tanto, "dimenticato" da molti "abrogazionisti", peraltro selettivi in quanto distinguono inopinatamente i decreti delegati degli anni '50 da quelli degli anni '90 (in realtà identici dal punto di vista della collocazione nella scala gerarchica delle fonti del diritto, norme primarie, mentre il regolamento macchine è una mera norma secondaria, di grado inferiore e del tutto incapace di paralizzare la vigenza delle citate disposizioni, e ogni altra considerazione non ha ingresso, come difatti avviene nella sentenza commentata)]:

 

Trattato che istituisce la Comunità europea (firmato a Roma il 25 marzo 1957) - Parte terza — Politiche della Comunità - Titolo I — Libera circolazione delle merci - CAPO 2 -DIVIETO DELLE RESTRIZIONI QUANTITATIVE TRA GLI STATI MEMBRI

Articolo 28 (ex articolo 30) - Sono vietate fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all'importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente.

Articolo 29 (ex articolo 34) - Sono vietate fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all' esportazione e qualsiasi misura di effetto equivalente.

Articolo 30 (ex articolo 36) - Le disposizioni degli articoli 28 e 29 lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni all'importazione, all'esportazione e al transito giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, o di tutela della proprietà industriale e commerciale. Tuttavia, tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri.

 

Ovvero deve rimarcarsi comel'attuale diritto comunitario, in deroga a una delle regole fondamentali della Comunità costituita dalla libera circolazione delle merci, prevede che gli ostacoli alla circolazione intracomunitaria dovuti alla disparità delle legislazioni nazionali relative alla commercializzazione dei prodotti devono essere ammessi qualora dette prescrizioni possano essere riconosciute necessarie per far fronte ad esigenze inderogabili, quali quella della tutela della salute e della vita delle persone, individuata fin dagli anni '50 dal D.p.r. n. 547/1955, e da molte altre norme analoghe e tutt'ora vigenti per ogni tipo di attività di fabbricazione, vendita, concessione in uso e utilizzazione di macchine potenzialmente e/o concretamente lesive della sicurezza e salute dei lavoratori.

 

Neppure va dimenticato l'altro fondamentale articolo del Trattato, anch'esso bellamente ignorato dai più:

TITOLO VIII - Politica sociale, istruzione, formazione professionale e gioventù - CAPO 1 - DISPOSIZIONI SOCIALI

Articolo 118 A \l

1. Gli Stati membri si adoperano per promuovere il miglioramento in particolare dell'ambiente di lavoro per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori e si fissano come obiettivo l'armonizzazione, in una prospettiva di progresso, delle condizioni esistenti in questo settore.

2. Per contribuire alla realizzazione dell'obiettivo previsto al paragrafo 1, il Consiglio, deliberando in conformità della procedura di cui all'articolo 189 C e previa consultazione del Comitato economico e sociale, adotta mediante direttive le prescrizioni minime, applicabili progressivamente, tenendo conto delle condizioni e delle normative tecniche esistenti in ciascuno Stato membro

Tali direttive eviteranno di imporre vincoli amministrativi, finanziari e giuridici di natura tale da ostacolare la creazione e lo sviluppo di piccole e medie imprese.

3. Le disposizioni adottate a norma del presente articolo non ostano a che ciascuno Stato membro mantenga e stabilisca misure, compatibili con il presente trattato, per una maggiore protezione delle condizioni di lavoro.

 

Applicando poi questi principi generali al caso specifico, che riguarda una macchina usata prima di una certa soglia temporale, ne trae la conclusione che «non ha senso ancorare la punibilità, nel caso in esame, alla Direttiva in questione, perché per le macchine già installate ed in uso prima della sua entrata in vigore, valgono comunque le regole generali di prevenzione esistenti nei singoli Paesi», e che «la Direttiva ha una funzione integrativa, ma non assorbente, perché ogni Paese ha il potere-dovere di tutelare il bene della salute anche con criteri più rigidi».

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