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Caratterizzazione chimica dei rifiuti: campionamento e analisi

Caratterizzazione chimica dei rifiuti: campionamento e analisi

Autore: Francesco Passoni

Categoria: Gestione Rifiuti

15/01/2016

La classificazione dei rifiuti è un processo che spesso richiede una fase di caratterizzazione chimica e chimico-fisica. La corretta applicazione di metodiche di campionamento e analisi adeguate e standardizzate. A cura di F. Passoni.

Nel corso del 2015 sono entrate in vigore diverse nuove normative a modifica della regolamentazione nel campo dei rifiuti; già trattate in  altri articoli qui pubblicati.
A seguito delle sostanziali modifiche apportate dalle sopracitate normative, rimangono comunque validi alcuni principi di base della classificazione.
Il produttore di un rifiuto è sempre il responsabile della sua corretta classificazione e dell’attribuzione del codice CER, discendendo tale attività in primis dalla corretta conoscenza del processo produttivo.
Come è noto, nell’attività di classificazione i rifiuti che si possono incontrare possono essere suddivisi sostanzialmente in 3 tipologie: i non pericolosi “assoluti”, i pericolosi “assoluti” ed i rifiuti con codici speculari, pericolosi o non pericolosi.
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I primi sono quei rifiuti per i quali, dato il processo che li ha generati, si può ritenere a priori che non siano da considerarsi pericolosi. Solo a titolo di esempio, pensiamo ad alcuni rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata dei rifiuti urbani, come la carta e cartone, il vetro o la plastica: senza bisogno di sottoporli ad alcuna sofisticata analisi chimica è intuitivo stabilire che gli stessi siano comunque sempre non pericolosi e per questo la Decisione della Commissione 2014/955/UE li contempla nell’elenco dei rifiuti soltanto come rifiuti non pericolosi. Valutata merceologicamente la correttezza dell’attribuzione di un determinato CER, nessuna caratterizzazione chimica si rende necessaria. Sono stati citati i rifiuti derivati dalla raccolta differenziata dei rifiuti urbani perché più intuitivamente si comprende il motivo della loro impossibilità di costituire rifiuto pericoloso, ma all’interno dell’elenco ve ne sono molti altri anche derivanti da processi industriali.
 
I rifiuti cosiddetti pericolosi assoluti sono invece caratterizzati dall’opposta peculiarità: noto il processo che li ha originati o la loro natura essi si configurano solamente come rifiuti pericolosi. Se prendiamo per esempio il codice 16.06.01* - Batterie al piombo, esso compare nell’elenco soltanto come rifiuto pericoloso, poiché la composizione tipica delle batterie, per quanto essa possa variare leggermente da prodotto a prodotto, è tale da ipotizzare in tutti i casi la pericolosità del rifiuto (le concentrazioni di piombo e di acido in essa contenuti sono infatti tali da avere sempre una rilevanza ai fini della classificazione).
Anche per i rifiuti pericolosi “assoluti” esistono numerose casistiche presenti nell’elenco. Rispetto ai rifiuti non pericolosi però, per questi raramente si può fare a meno di effettuare anche una analisi di caratterizzazione. Se è vero infatti che la caratteristica di rifiuto pericoloso è già stabilita dalla natura dello stesso o dal processo che l’ha generato, ad esso è necessario anche attribuire le caratteristiche di pericolo mediante le cosiddette frasi HP. Nel caso preso ad esempio della batteria al piombo l’analisi può ritenersi superflua in quanto le concentrazioni di piombo e di acido solforico mediamente presenti sono sostanzialmente sempre sufficienti ad attribuire caratteristiche di corrosività (HP8), di pericolo per l’ambiente(HP14), di tossicità acuta(HP6), di tossicità per la riproduzione (HP10) e di tossicità specifica per organi bersaglio (HP5). Ma nel caso di rifiuti pericolosi meno specifici l’attribuzione di tali caratteristiche non è scontata e richiede certamente una analisi chimica. Se pensiamo ad un rifiuto come lo 07.01.04* - Altri solventi organici, soluzioni di lavaggio e acque madri, è intuitivo che una miscela di solventi non possa che essere pericolosa: ma per stabilire se la pericolosità è correlata all’infiammabilità, piuttosto che alla tossicità, alla cancerogenicità o ad altre proprietà pericolose sarà necessaria l’analisi chimica e chimico-fisica.
 
E’ invece fondamentale l’analisi chimica e chimico-fisica per quei rifiuti cosiddetti “a specchio”. Per questi rifiuti la pericolosità o meno non è definibile a priori, poiché i processi produttivi che li generano possono in realtà avere come esito delle miscele più o meno cariche di inquinanti.
Si definiscono “a specchio” poiché per gli stessi è sempre presente una coppia di codici, una pericolosa e l’altra non pericolosa. Per esempio il codice “17.05.03* - Terre e rocce, contenenti sostanze pericolose”, qualora non contenga inquinanti in concentrazioni rilevanti può essere sostituito dal codice “17.05.04 – Terra e rocce, diverse da quelle di cui alla voce 17.05.03”, quindi non pericoloso.
Per tali rifiuti quindi la pericolosità viene attribuita o meno basandosi sul confronto delle concentrazioni degli inquinanti in essi contenuti con i valori soglia stabiliti dal Regolamento (UE) 1357/2014.
 
In questa sede non si vuole entrare nel dettaglio di tali valori soglia, ma basti sapere che in funzione del tipo di pericolo correlato ad una determinata sostanza ci sono concentrazioni di riferimento oltre le quali il rifiuto deve essere classificato come pericoloso e associato a quel tipo di pericolo. Per esempio, una sostanza caratterizzata da rischio cancerogeno di categoria 1A o 1B è sufficiente sia presente per lo 0,1% in peso nel rifiuto, affinché lo stesso sia classificato pericoloso con caratteristica “HP7 - cancerogeno”. Se lo stesso contenesse invece una sostanza classificata cancerogena di categoria 2, meno pericolosa, la soglia per l’attribuzione di pericolosità, con caratteristica HP7, scatta solo se si supera l’1% in peso.
Fatte queste premesse è evidente che in molti casi è necessario procedere alle analisi di caratterizzazione.
Tale attività, affinché possa fornire risultati attendibili, deve essere condotta seguendo metodi di analisi, e ancora prima di campionamento, ufficiali e standardizzati. L’utilizzo di metodi di prova diversi può infatti portare ad avere risultati analitici talvolta anche molto differenti. Anche maggiore può essere la variabilità correlata ad un campionamento effettuato in modo non corretto. I rifiuti possono presentarsi in forme molto diverse. Se infatti un rifiuto derivante da un processo industriale che genera un prodotto piuttosto omogeneo potrebbe risentire in modo minore della variabilità del campionamento, si consideri che nella maggior parte dei casi i rifiuti si presentano in modo piuttosto eterogeneo. In questo caso la corretta modalità di campionamento atta a definire una porzione di materia il più possibile rappresentativa della natura media del rifiuto diventa fondamentale.
 
Viste le implicazioni, di carattere anche penale, che una non corretta classificazione dei rifiuti può comportare per chi ne è responsabile, è opportuno prestare particolare attenzione a tutti gli aspetti correlati con la corretta caratterizzazione.
Il campionamento non può essere fatto semplicemente riempiendo un contenitore con una palettata di solido o pescando con una brocca da una vasca di raccolta, ma deve essere eseguito a seguito di un ragionamento accurato e documentato, che garantisca la massima rappresentatività, per quelle porzione che andrà a costituire il campione di laboratorio, della massa complessiva.
Il riferimento comunemente utilizzato per il campionamento, peraltro ufficialmente richiamato nel Decreto 24 giugno 2015 per il conferimento dei rifiuti in discarica, è la norma UNI 10802:2013.
Tale norma ha come titolo “Campionamento manuale, preparazione del campione ed analisi degli eluati”.
Si tratta di una norma corposa, ma di fondamentale importanza, poiché ciò che viene in essa descritto è applicabile a tutte le tipologie di rifiuti: liquidi, liquefattibili per riscaldamento, fanghi liquidi, fanghi pastosi, polveri o rifiuti granulari, rifiuti grossolani, monolitici o massivi.
In essa vengono descritte dettagliatamente attività fondamentali, quali la definizione di un piano di campionamento, le tecniche di campionamento manuale e le modalità di conservazione dei campioni (compreso l’imballaggio, lo stoccaggio e il trasporto), le procedure di riduzione dimensionali per il trasporto presso il laboratorio, la documentazione per la rintracciabilità delle operazioni di campionamento, le procedure di riduzione delle dimensioni dei campioni per le analisi di laboratorio. Sono infine descritti i procedimenti di preparazione ed analisi degli eluati, che non hanno rilevanza nella mera attività di classificazione del rifiuto, basata sulle caratteristiche di concentrazione che esso mostra sul tal quale, ma in caso di conferimento in discarica o di recupero costituisce test per la valutazione di conformità.
Come già detto la norma è particolarmente corposa e dettagliata, è difficile condensare tutti gli aspetti sia teorici che operativi in essa contenuti, poiché in funzione del tipo di problematica in cui ci si può imbattere possono risultare più o meno pertinenti alcune sezioni piuttosto che altre.
 
Certamente utile è la preparazione del piano di campionamento. Si fa riferimento, nella norma, alla UNI EN 14899:2005 “Caratterizzazione dei rifiuti – Campionamento dei rifiuti – Schema quadro di riferimento per la preparazione e l’applicazione di un piano di campionamento”. Nel processo di definizione del piano di campionamento l’obiettivo è tradotto in istruzioni tecniche specifiche e concrete per il campionatore. Utilizzando queste istruzioni, il campionatore preleva il tipo e il numero di campioni adeguato a soddisfare l’obiettivo del programma di prova, fornendo al responsabile decisionale le informazioni richieste sulla caratterizzazione dei rifiuti oggetto dell’indagine.
In generale la prima fase del processo prevede da parte di una figura responsabile l’identificazione delle parti interessate ai risultati del campionamento per poter avere ben chiaro l’obiettivo del programma di prova.
Tali indicazioni devono essere registrate sul piano di campionamento. L’obiettivo determina, direttamente o indirettamente, il livello di informazioni desiderate e l’affidabilità desiderata dei risultati del campionamento. Gli obiettivi tecnici comprendono la popolazione, la scala, il livello di confidenza, la definizione dei rifiuti da campionare, i costituenti da determinare, i tempi e il luogo del campionamento. Buona parte di queste informazioni costituiscono i dati di ingresso al piano di campionamento. Altri, come la scala, il livello di confidenza, si traducono in termini operativi come per esempio il tipo di campionamento, il numero di incrementi necessari per ottenere il campione medio composito, le quantità, i punti di campionamento. Maggiore è il numero di incrementi, ovvero di porzioni individuali di materia utilizzati per la formazione del campione composito, maggiore lo stesso potrà ritenersi rappresentativo. Tipicamente per campioni solidi ciò avviene mediante operazioni così dette di quartatura mentre per campioni liquidi la raccolta degli incrementi può avvenire in vari modi, prelevando da più profondità di una vasca per esempio, o da diversi fusti di stoccaggio o in caso di un flusso continuo prodotto prelevando ad intervalli temporali diversi.
L’uso di documentazione fotografica è molto utile e consigliabile, anzi in alcuni casi fondamentale per chiarire delle scelte operative o a volte l’impossibilità di procedere ad un campionamento.
Gli elementi chiave per la definizione del piano di campionamento sono riassunti nel seguente schema (tratto dalla figura 1 della norma):
 

 
Addentrandosi nella norma troviamo poi molte indicazioni operative per le vere e proprie attività di campionamento. Si ritrovano prospetti sui tipi di campionatori di rifiuti comunemente utilizzati con indicazioni circa la loro efficacia per i diversi tipi di rifiuti. Degli stessi sono riportati disegni tecnici a titolo esemplificativo utili a meglio comprenderne il funzionamento. Sono poi riportate indicazioni per gli apparecchi utilizzati per le successive fasi di riduzione granulometrica dei campioni e di ripartizione in diverse aliquote dei materiali ottenuti. Sono riportate anche indicazioni sui quantitativi minimi di aliquota da ottenere per avere la rappresentatività richiesta in funzione del tipo di parametri da determinare e di obiettivi prestazionali richiesti. Anche le modalità di trasporto e conservazione dei campioni è importante siano definite, in quanto diversi parametri possono essere alterati se non si utilizzano accorgimenti adeguati affinché non si verifichino perdite o degradazione deli stessi. Sono infine anche riportati esempi di schede di campionamento specifiche per ogni tipologia di rifiuto.
L’applicazione puntuale delle indicazioni così velocemente descritte, ma ampiamente sviluppate all’interno della norma, e la capacità di documentarne accuratamente la loro esecuzione mediante verbali di campionamento chiari e completi costituiscono il maggior strumento di difesa per dimostrare in caso di contestazione, sia dall’ente di controllo che da eventuali altre parti interessate, una corretta valutazione della problematica. Viceversa informazioni assenti o incomplete, il mancato riferimento alla norma tecnica o ad un protocollo ragionato di campionamento, potrebbero anche essere ritenuti invalidanti delle operazioni eseguite, rendendo pressoché inutile la successiva fase di analisi.
Se invece tramite i passaggi sopra descritti siamo ragionevolmente certi di avere conferito nel modo corretto al laboratorio un campione rappresentativo del rifiuto si può procedere con l’analisi chimica e chimico-fisica dello stesso.
 
Anche in questo caso alcuni aspetti sono di importanza fondamentale. La scelta dei metodi di prova può infatti avere un’influenza importante sul risultato finale, così come la scelta di un laboratorio che possa dimostrare di eseguire correttamente le analisi necessarie. Vista l’importanza che la fase di campionamento riveste nella corretta riuscita dell’analisi di caratterizzazione meglio è se il laboratorio incaricato per la stessa esegue anche il campionamento del rifiuto. Un laboratorio che ricevesse un campione senza aver preso parte alla costituzione dell’aliquota a lui conferita, si riterrà responsabile solo ed esclusivamente ai risultati delle analisi strumentali, fornendo garanzia soltanto del fatto che le stesse siano eseguite secondo metodiche ufficiali ed adeguate agli obiettivi richiesti. Al contrario se esso viene coinvolto anche nella fase di prelievo e lo stesso viene fatto secondo la norma UNI 10802:2013, si lega la corretta esecuzione dell’analisi anche all’opportuna modalità e strategia di campionamento. Ciò non svincola il produttore del rifiuto dalla necessità di fornire le corrette informazioni circa il ciclo da cui esso deriva, ma può certamente aiutarlo a non avere dubbi sul fatto che qualche operazione non sia stata effettuata correttamente.
Solitamente un laboratorio con adeguata competenza tecnica utilizza procedure normate sia per la parte di analisi che per la parte di prelievo delle diverse matrici ed è in grado di dimostrare la necessaria preparazione e formazione continua del proprio personale. Tali requisiti sono obbligatori per i laboratori accreditati presso ACCREDIA, l’ente italiano di accreditamento, che verifica per i laboratori di prova la rispondenza alla specifica norma di settore, la ISO/IEC 17025.
Nelle visite ispettive cui i laboratori di prova sono periodicamente sottoposti oltre a verificare la competenza tecnica viene valutata la tracciabilità e conservazione dei dati. L’utilizzo di un laboratorio accreditato non è obbligatorio, ma certamente fornisce una certa garanzia per il produttore del rifiuto sulla corretta gestione delle attività. Nulla vieta di avvalersi di strutture non accreditate, che pur non avendo fatto la scelta di accreditarsi possono certamente essere in grado di svolgere altrettanto bene analisi e prelievi, certamente in tal caso sarebbe opportuno fare una verifica più accurata delle procedure tecniche e gestionali applicate, al fine di potersi ritenere ugualmente garantiti.
Per quanto riguarda i metodi di prova è consigliabile richiedere sempre metodi ufficiali, solitamente afferibili agli enti di standardizzazione UNI, ISO o anche IRSA CNR.
In alcuni casi è la normativa stessa che ci fornisce delle indicazioni ben dettagliate riguardo al metodo da utilizzare o riguardo ad alcuni particolari analitici che potrebbero essere soggetti ad interpretazioni.
 
Nel caso dei rifiuti da conferire in discarica il Decreto 24 giugno 2015, così come in realtà già il DM 27/09/2010 in precedenza, per diversi parametri indica chiaramente che metodiche devono essere utilizzate.
L’allegato III del Decreto, “Campionamento e analisi dei rifiuti”, specifica che il metodo di campionamento da utilizzare per la caratterizzazione dei rifiuti deve essere la norma UNI 10802, con riferimento anche alla norma UNI 14899 alla norma UNI EN 15002. Per i soli rifiuti urbani e biodegradabili il riferimento è dato dai metodi IRSA, CNR, NORMA CII-UNI 9246.
Per quanto riguarda l’aspetto prettamente analitico vi sono numerose indicazioni.
La determinazione del contenuto di oli minerali, frazione C10-C40, deve essere eseguita secondo la norma UNI EN 14039, basata sull’estrazione con solvente e successiva analisi gascromatografica.
La determinazione del parametro TOC (Carbonio Organico Totale) deve essere effettuata utilizzando la norma UNI EN 13137.
Sono anche presenti indicazioni precise circa i metodi da utilizzare per la preparazione e l’analisi dei test di cessione. Queste sono analisi che in realtà non hanno attinenza con la caratterizzazione di base del rifiuto ma servono a fornire specifiche indicazioni del comportamento dello stesso in discarica in termini di possibile rilascio di inquinanti verso il sottosuolo.
Sono anche indicati i metodi da utilizzare per la digestione dei rifiuti, ovvero il processo di attacco con acidi utile a solubilizzare i metalli contenuti e per poterli quindi determinare con analisi successive (mediante assorbimento atomico o spettrofotometro di emissione al plasma), che devono essere quelli delle norme UNI EN 13656 o UNI EN 13657.
E’ poi presente un’indicazione importante circa la modalità di quantificazione di inquinanti come i PCB, policlorobifenili. Questa categoria di composti organici clorurati è costituita da un elevato numero di cosiddetti congeneri, cioè diversi tipi di molecole appartenenti alla stessa famiglia. Alcuni metodi di analisi non sono in grado di separare tutte le singole specie, e la determinazione viene solitamente effettuata sulla base di standard multipli denominati Aroclor. Il Decreto esplicita invece le singole molecole, congeneri, significativi, per i quali occorre effettuare la quantificazione per definire l’ammissibilità o meno in discarica. Tali congeneri sono elencati e suddivisi in due categorie: quelli significativi dal punto di vista igienico-sanitario (17 congeneri) e quelli individuati dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS) come “dioxin-like”, ovvero che dal punto di vista tossicologico sono simili alle diossine (12 congeneri). In pratica si è ritenuto di dover quantificare soltanto le specie più pericolose, tra le numerose esistenti.
 
Infine nel decreto si specifica che i parametri non specificatamente indicati dalle norme devono essere analizzati secondo metodi ufficiali riconosciuti a livello nazionale e/ internazionale.
E’ importante considerare che anche se a chi non è esperto di analisi chimiche potrebbe sembrare strano, effettuare una analisi con metodi differenti può portare a risultati anche molto diversi. L’analisi degli idrocarburi per esempio può essere fatta in molti modi diversi, oltre alla via gascromatografica: per via ponderale, dopo estrazione con solvente e purificazione dell’estratto, o per spettroscopia infrarossa, dopo estrazione con solvente non idrocarburico. Stessi campioni analizzati con queste diverse tecniche possono portare a risultati anche di un ordine di grandezza differenti.
Addirittura l’utilizzo della stessa tecnica, come la gascromatografia, se gli standard di quantificazione sono differenti potrebbe differire significativamente.
E’ quindi opportuno considerare sempre se i metodi che si stanno utilizzando sono corretti in base alla normativa con cui ci dovremo confrontare, soddisfacenti per il tipo di rifiuto che stiamo valutando e anche che siano confrontabili con le possibili controparti chiamate a valutare la classificazione. Quest’ultimo aspetto non sempre è verificabile a priori, anche perché a volte gli enti di controllo mostrano differenze di metodiche anche a livello locale. Se è quindi possibile valutare preventivamente la comparabilità di metodi è chiaramente preferibile, in caso contrario vale quanto già ribadito circa l’opportunità di poter comunque dimostrare che le valutazioni che hanno portato alla caratterizzazione del rifiuto derivino da un processo logico ragionato e dimostrabile.
 
 
Dr. Francesco Passoni
Consulente Ambientale e Responsabile Laboratorio
 
 
 
 

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