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Relazione di riferimento: dubbi interpretativi ed effetti collaterali

Relazione di riferimento: dubbi interpretativi ed effetti collaterali

Autore: Mara Chilosi e Andrea Martelli

Categoria: AIA, VIA, VAS

16/02/2016

Facciamo il punto, a distanza di quasi due anni dalla sua introduzione, sulla “relazione di riferimento” (riguardante le installazioni soggette a AIA), soffermandoci su alcuni aspetti problematici. Di Mara Chilosi e Andrea Martelli.

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1. Premessa
 
Da quasi due anni esiste nel nostro ordinamento uno strumento la cui effettiva portata (in astratto, dirompente) non è stata forse ancora indagata e, comunque, compresa in tutti i suoi possibili risvolti.
 
Si allude alla «relazione di riferimento» (d’ora in poi, per semplicità, «RdR»), introdotta dal d. lgs. 4 marzo 2014, n. 46 in attuazione della direttiva 2010/75/UE relativa alle emissioni industriali ed alla prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento (cosiddetta “direttiva IED”) e che trova spazio nell’ambito della disciplina in materia di autorizzazione integrata ambientale (AIA) contenuta nella Parte Seconda del d. lgs. 152/2006 (noto anche come “Testo unico ambientale” o “Codice dell’ambiente”) [1].
 
Benché la sua introduzione fosse sembrata fin da subito, se paragonata all’approccio sino ad allora seguito dalla legislazione ambientale italiana, come una vera e propria “rivoluzione copernicana” (e vedremo perché), il bilancio dei primi due anni di applicazione ha rivelato una partenza “in sordina”, se non addirittura un “ridimensionamento”, di questo strumento.
Ridimensionamento a cui hanno contribuito – e questo era facile prevederlo – non soltanto i gestori, comprensibilmente interessati a non vedersi gravati da ulteriori oneri economici e burocratici o esposti a nuovi “rischi”, ma anche – e questo, obiettivamente, appare più sorprendente – le stesse autorità competenti in materia di AIA.
 
Il tema è molto vasto e presenta numerosissime implicazioni. Nel presente contributo ci soffermeremo soltanto su alcune questioni controverse e su alcuni aspetti sinora poco considerati, non avendo formato oggetto nemmeno dei vari interventi “interpretativi” del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare.
 
Affronteremo, in particolare, il “momento finale” (quello della cessazione definitiva dell’attività) e indicheremo alcuni dei possibili “effetti collaterali” della relazione di riferimento, derivanti talvolta da una disciplina legislativa non del tutto soddisfacente e, talaltra, da una mancanza di consapevolezza da parte degli operatori circa le possibili “insidie nascoste” di questo nuovo strumento.
 
Per comprendere le “cause primigenie” di talune problematiche può essere utile partire da un “antefatto normativo”.
 
2. Da dove tutto ebbe inizio: la proposta di direttiva-quadro per la protezione del suolo
 
Le “origini” della RdR vanno ricercate nella proposta di direttiva-quadro per la protezione del suolo avanzata nel 2006 e definitivamente ritirata nel 2014 [2]. Essa conteneva infatti una innovativa disciplina che, riferendosi per la prima volta espressamente al tema della bonifica dei siti contaminati (su cui, come è noto, la legislazione dell’Unione europea non è mai intervenuta, se non, indirettamente, con la direttiva 2004/35/CE in materia di danno ambientale), tentava di individuare specifici obblighi di “indagine preventiva” a carico dei proprietari di siti che siano stati interessati da attività potenzialmente inquinanti, ciò anche e soprattutto a tutela del potenziale acquirente.
 
Il considerando n. 25 della proposta di direttiva indicava in maniera chiara gli obiettivi: «per agevolare la rapida identificazione dei siti contaminati, il proprietario di un sito nel quale, in base a documenti ufficiali come i registri o i catasti nazionali, risulti che siano avvenute o siano in corso attività inquinanti per il suolo, o il potenziale acquirente deve fornire, prima di ultimare la compravendita del terreno, tutte le informazioni del caso sullostato del suolo all’autorità competente e all’altra parte interessata dalla compravendita. La messa a disposizione di tali informazioni nel momento in cui si prevede una compravendita di terreni consentirà di accelerare la preparazione definitiva dell’inventario dei siti contaminati. Permetterà inoltre al potenziale acquirente di conoscere lo stato del suolo e di procedere ad una scelta informata».
 
Lo strumento previsto a tal fine dalla proposta di direttiva era il «rapporto sullo stato del suolo»; l’art. 12 prevedeva gli Stati membri dovessero adottare una normativa che, «in caso di vendita di un sito sul quale è in corso un’attività potenzialmente inquinante che figura nell’allegato II o per il quale da documenti ufficiali, quali i registri nazionali, risulta che attività di questo tipo si siano svolte in passato», imponesse al proprietario del sito medesimo (o al potenziale acquirente) di presentare all’autorità competente e all'altra parte coinvolta nella compravendita – appunto  – un «rapporto sullo stato del suolo», vale a dire un documento contenente almeno i seguenti elementi: «a) la storia del sito desunta dai documenti ufficiali; b) un’analisi chimica in grado di determinare i livelli di concentrazione delle sostanze pericolose presenti nel suolo, limitatamente alle sostanze connesse all’attività potenzialmente inquinante svolta sul sito; c) i livelli di concentrazione ai quali vi sono sufficienti motivi per ritenere che le sostanze pericolose presenti comportino un rischio significativo per la salute umana o per l’ambiente».
Il successivo art. 13 riguardava la bonifica dei siti contaminati e contemplava anche l’istituzione di «meccanismi adeguati per finanziare gli interventi di bonifica dei siti contaminati per i quali, in applicazione del principio “chi inquina paga”, non sia possibile individuare il responsabile dell’inquinamento oppure questi non possa essere ritenuto tale a norma della legislazione nazionale o comunitaria o non possa essere tenuto a sostenere i costi degli interventi di bonifica».
 
Non è questa la sede per addentrarsi nelle ragioni che hanno portato al ritiro di questa proposta di direttiva-quadro per la protezione del suolo. Ciò che preme qui evidenziare è che non è difficile scorgere nella relazione di riferimento introdotta dalla direttiva IED a carico delle sole attività soggette ad AIA una sorta di versione “in tono minore” del suddetto «rapporto sullo stato del suolo», frutto evidentemente di una soluzione di compromesso fra le diverse istanze avanzate in sede europea. Tuttavia, trasferito in un contesto del tutto differente – vale a dire, quello della disciplina IED (in Italia, della normativa sull’AIA) –, questo strumento è stato nettamente (e improvvidamente) separato da quello, più consono, della normativa in materia di bonifica dei siti contaminati. Ciò ha determinato evidenti difetti di coordinamento con la disciplina in materia di bonifica dei siti contaminati che neppure il legislatore italiano, in sede di recepimento della direttiva IED, si è fatto carico di risolvere.
La scelta (che non appare eccessivo definire “pilatesca”) del d. lgs. 46/2014 è infatti stata quella di ricorrere alla mai sufficientemente deprecata “tecnica del fatto salvo”: il (nuovo) comma 9-quinquies dell’art. 29-sexies del d. lgs. 152/2006 inizia, infatti, specificando «fatto salvo quanto disposto alla Parte Terza ed al Titolo V della Parte Quarta del presente decreto, …» [3].
Qui, si può dire, i nodi vengono al pettine: l’obiettivo – del tutto condivisibile – della RdR sembra essere quello di fare il “punto zero”, vale a dire di individuare lo stato di qualità iniziale delle matrici ambientali (suolo e acque sotterranee) su cui si intende insediare un’attività potenzialmente inquinante, al fine di poter effettuare un confronto prima/dopo al momento della cessazione dell’attività [4].
Lo si desume anche dalle versioni in lingua inglese e francese della direttiva IED, dove la RdR è chiamata, rispettivamente, «baseline report» e «rapport de base», ma ancor più da quella in lingua spagnola, che la qualifica ben più significativamente come «informe de la situación de partida» (ossia, sulla situazione “di partenza”).
Se però, come ha inteso fare il legislatore italiano, la RdR si applica senza particolari distinguo anche alle attività esistenti o comunque anche a siti interessati da pregresse attività che possono avere contaminato le matrici ambientali, è evidente che questo nuovo adempimento si risolve molto spesso in una sorta di “autodenuncia”, particolarmente temuta dagli operatori in considerazione degli oneri (di carattere non soltanto economico, ma anche burocratico) e delle incertezze che circondano l’avvio e l’esecuzione di un procedimento di bonifica in applicazione della disciplina di cui al Titolo V della Parte Quarta del d. lgs. 152/2006.
 
Per questo abbiamo parlato, all’inizio, di “rivoluzione copernicana”. Intendevamo in tal modo riferirci proprio al fatto che con la RdR si stabilisce per la prima volta a livello normativo (sia pure limitatamente alle sole attività soggette ad AIA) un vero e proprio “obbligo di ricercare” l’inquinamento (la disciplina di cui al Titolo V della Parte Quarta del d. lgs. 152/2006, come è noto, stabilisce invece che una procedura di bonifica debba essere avviata soltanto nell’ipotesi in cui si verifichi un «evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito» o venga fortuitamente individuata una contaminazione «storica»).
 
Un siffatto obbligo, nella citata proposta di direttiva-quadro per la protezione del suolo, era giustificato dal fatto che si inseriva nel contesto di una disciplina finalizzata a favorire, con vari strumenti, la bonifica dei siti contaminati (anche dei siti cosiddetti “orfani”) e comunque l’informazione dei potenziali acquirenti in caso di compravendita di un sito, mentre – come si dirà – è rimasto pressoché “isolato” nell’impianto normativo introdotto dal d. lgs. 46/2014. Circostanza, questa, che circonda di particolari incertezze – e, dunque, di possibili rischi per gli operatori – la applicazione del nuovo strumento della RdR.
 
 
3. E… alla fine? Cosa fare «al momento della cessazione definitiva delle attività»
 
La disciplina introdotta dal d. lgs. 46/2014 si rivela particolarmente oscura e lacunosa proprio, ed è paradossale, in relazione al “cuore” del problema sopra brevemente indicato, vale a dire in merito agli obblighi che gravano sul gestore al momento della cessazione definitiva delle attività.
A questo riguardo, può non essere superfluo partire ricordando la definizione di «relazione di riferimento» contenuta nell’art. 5, comma 1, lett. v-bis), d. lgs. 152/2006: «informazioni sullo stato di qualità del suolo e delle acque sotterranee, con riferimento alla presenza di sostanze pericolose pertinenti, necessarie al fine di effettuare un raffronto in termini quantitativi con lo stato al momento della cessazione definitiva delle attività. Tali informazioni riguardano almeno: l’uso attuale e, se possibile, gli usi passati del sito, nonché, se disponibili, le misurazioni effettuate sul suolo e sulle acque sotterranee che ne illustrino lo stato al momento dell'elaborazione della relazione o, in alternativa, relative a nuove misurazioni effettuate sul suolo e sulle acque sotterranee tenendo conto della possibilità di una contaminazione del suolo e delle acque sotterranee da parte delle sostanze pericolose usate, prodotte o rilasciate dall’installazione interessata. Le informazioni definite in virtù di altra normativa che soddisfano i requisiti di cui alla presente lettera possono essere incluse o allegate alla relazione di riferimento. Nella redazione della relazione di riferimento si terrà conto delle linee guida eventualmente emanate dalla Commissione europea ai sensi dell'articolo 22, paragrafo 2, della direttiva 2010/75/UE».
 
È la stessa definizione, come si vede, a parlare già di un “raffronto” da effettuarsi al momento della “cessazione definitiva delle attività”. Ma cosa debba intendersi per “cessazione definitiva delle attività” la legge non lo precisa.
 
Il caso più facile da individuare è, ovviamente, quello della definitiva cessazione dell’attività industriale, con conseguente smantellamento dei relativi impianti.
Ma occorre sempre ricordare che non tutte le attività (astrattamente) in grado di contaminare un sito sono chiamate ad elaborare la RdR; questo obbligo riguarda, infatti, solo le installazione soggette ad AIA. Si tratta, perciò, di un obbligo strettamente correlato ad un particolare regime autorizzatorio (quello dell’AIA, appunto). Cosa accade, pertanto, se l’installazione “esce” dal campo di applicazione della disciplina in esame soltanto perché il gestore, pur decidendo di proseguire nella medesima l’attività, ne riduce la capacità di produzione/resa al di sotto del valore di soglia rilevante ai fini AIA? Ebbene, pur nel silenzio della legge, questo mutamento di regime autorizzatorio ben potrebbe essere equiparato, ai fini della RdR, alla «cessazione definitiva delle attività».
Ancora: se cambia il gestore dell’attività soggetta ad AIA – e quest’ultima viene pertanto “volturata” in capo ad un nuovo soggetto –, si può affermare che l’attività del primo gestore sia “cessata definitivamente”? Molti elementi inducono a fornire risposta negativa a quasta domanda: tuttavia, è appena il caso di evidenziare come, nel caso (tutt’altro infrequente) in cui  si avvicendino nella medesima installazione vari gestori senza apportare significative modifiche nell’esercizio della attività, soltanto l’ultimo di questi sarà chiamato a operare il raffronto prima/dopo, dovendosi basare sulla RdR elaborata dai suoi predecessori (in realtà, dal primo della “catena”) e ad attivarsi in prima battuta per rimediare agli inquinamenti prodotti nel corso dell’esercizio dell’attività, benché essi siano in parte ascrivibile, evidentemente, al periodo in cui questa era svolta da altri soggetti.
Quanto appena osservato deve perciò indurre i gestori alla massima cautela nel momento in cui “ereditano” una RdR elaborata da altri e a tutelarsi quanto meno sul piano contrattuale.
 
Ciò premesso, il momento della “cessazione definitiva delle attività” è disciplinato, in modo abbastanza laconico, dal comma 9-quinquies dell’art. 29-sexies, d. lgs. 152/2006, secondo il quale le condizioni dell’AIA fissate dall’autorità competente devono garantire che il gestore:
· «al momento della cessazione definitiva delle attività, valuti lo stato di contaminazione del suolo e delle acque sotterranee da parte di sostanze pericolose pertinenti usate, prodotte o rilasciate dall'installazione» (lett. b);
·  «qualora dalla valutazione di cui alla lettera b) risulti che l'installazione ha provocato un inquinamento significativo del suolo o delle acque sotterranee con sostanze pericolose pertinenti, rispetto allo stato constatato nella relazione di riferimento di cui alla lettera a), adotti le misure necessarie per rimediare a tale inquinamento in modo da riportare il sito a tale stato, tenendo conto della fattibilità tecnica di dette misure» (lett. c);
· «fatta salva la lettera c), se, tenendo conto dello stato del sito indicato nell'istanza, al momento della cessazione definitiva delle attività la contaminazione del suolo e delle acque sotterranee nel sito comporta un rischio significativo per la salute umana o per l’ambiente in conseguenza delle attività autorizzate svolte dal gestore anteriormente al primo aggiornamento dell'autorizzazione per l'installazione esistente, esegua gli interventi necessari ad eliminare, controllare, contenere o ridurre le sostanze pericolose pertinenti in modo che il sito, tenuto conto dell'uso attuale o dell'uso futuro approvato, cessi di comportare detto rischio» (lett. d).
 
La legge – si può dire, improvvidamente – non disciplina dunque direttamente questi aspetti, ma li demanda alla discrezionalità dell’autorità competente. È facile perciò prevedere – considerate le numerose autorità (statali, regionali e provinciali) che, sul territorio italiano, si ripartiscono le competenze in materia di AIA – che essi vengano applicati in modo assai diversificato, con il serio rischio di ingiustificate disparità di trattamento fra operatori economici assoggettati al medesimo regime autorizzatorio.
Viene poi da domandarsi cosa accada qualora l’AIA non contenga alcuna indicazione a questo riguardo: appare soluzione eccessivamente formalistica quella di ritenere, in tali casi, il gestore esonerato da qualsivoglia obbligo al momento della cessazione dell’attività; tuttavia, è facile prevedere come una siffatta circostanza possa dare luogo a contrasti fra il gestore e l’autorità competente forieri anche di eventuali contenziosi.
 
Al di là di questo primo aspetto, è opportuno rilevare che, benché la normativa non lo specifichi in modo chiaro, un raffronto fra lo stato di qualità del sito accertato al momento della elaborazione della RdR e quello riscontrabile al momento della cessazione dell’attività potrà essere effettuato soltanto se il gestore sarà chiamato ad elaborare un documento in tutto e per tutto simile alla RdR; le risultanze dei due documenti dovranno essere, infatti, facilmente e oggettivamente confrontabili.
 
La norma tace anche sui profili procedurali (benché, è bene ricordarlo, il procedimento amministrativo sia lo strumento chiamato a garantire la trasparenza delle valutazioni effettuate e delle decisioni adottate, nonché lo svolgimento di un contraddittorio tecnico fra gestore e autorità competente).
Sembra però plausibile ritenere che, così come la RdR deve essere “validata” dall’autorità competente (così si esprime la lett. m del comma 1 dell’art. 29-ter), anche questa “valutazione” finale debba essere in qualche modo “validata” dall’autorità competente nell’ambito di un apposito procedimento.
 
Il d. lgs. 152/2006 non precisa nemmeno cosa debba intendersi per «misure necessarie per rimediare» all’inquinamento riscontrato al momento della cessazione definitiva delle attività. L’espressione utilizzata fa però pensare ad una vera e propria restituito in integrum del sito, che dovrà perciò essere riportato almeno allo stato di qualità inizialmente – cioè, al momento della RdR – riscontrato. Si tratta di un obbligo molto severo, “temperato” solo dalla possibilità di considerare la «fattibilità tecnica» delle misure che sarebbero necessarie per ottenere lo scopo indicato dalla norma [5].
A questo riguardo è particolarmente evidente il mancato coordinamento con la normativa in materia di bonifica dei siti contaminati, che, come è noto, contempla, proprio al fine di calibrare gli obiettivi di bonifica tenendo conto delle peculiarità del sito e della sua effettiva destinazione d’uso, lo strumento dell’analisi di rischio “sito specifica” e la possibilità di ricorrere a misure alternative alla bonifica, quale in particolare la messa in sicurezza permanente.
 
Non solo, la norma non specifica nemmeno attraverso quale procedura amministrativa l’autorità competente debba valutare l’idoneità della “misura rimediale” proposta dal gestore, né se sia necessario sottoporre preventivamente il relativo progetto all’autorità competente; non è chiaro pertanto se tale progetto debba essere formalmente “approvato”.
In tal caso, il difetto di coordinamento con la disciplina in materia di bonifiche è macroscopico.
È ragionevole ritenere che, al pari di quanto accade con i progetti di bonifica, anche questa “misura rimediale” debba essere preventivamente sottoposta al vaglio dell’autorità competente, che però sarà quella che ha rilasciato l’AIA e non quella istituzionalmente deputata ad occuparsi di bonifiche (come è noto, molto spesso queste due autorità non coincidono): l’irragionevolezza di questa scelta del legislatore non richiede commenti.
 
Ancora: quali sono i criteri per giudicare un inquinamento del suolo o delle acque sotterranee come «significativo» o, ancora, per stabilire se la contaminazione del suolo e delle acque sotterranee comporti o meno un «rischio significativo per la salute umana o per l’ambiente»?
 
In conclusione, è appena il caso di ricordare che molti dei dubbi sopra sollevati (sui criteri cui riferirsi, sui procedimenti da seguire e sugli interventi da realizzare) ben avrebbero potuto trovare una agevole risposta se solo il legislatore avesse coordinato la disciplina della RdR con la normativa in materia di bonifica dei siti contaminati di cui al Titolo V della Parte Quarta del d. lgs. 152/2006.
E ad analoghe considerazioni potrebbe indurre anche un confronto fra le “misure rimediali” che il gestore di un’installazione soggetta ad AIA deve adottare al momento della cessazione definitiva delle attività e quelle, in parte simili, imposte dalla Parte Sesta del d. lgs. 152/2006 in materia di danno ambientale [6].
 
 
4. I possibili “effetti collaterali” della RdR
 
Abbiamo già segnalato il mancato coordinamento, a livello legislativo, fra la RdR e le discipline in materia di bonifica dei siti contaminati (Titolo V della Parte Quarta del d. lgs. 152/2006) e di risarcimento del danno ambientale (Parte Sesta del d. lgs. 152/2006) [7].
 
Il primo, e più evidente, possibile “effetto collaterale” della RdR è, pertanto, quello che nel corso dell’esecuzione delle indagini ad essa preordinate emergano situazioni di inquinamento “storico” che richiedono l’esecuzione di interventi di bonifica, ai quali il gestore – soprattutto nel caso in cui vi sia continuità nell’attività e nel soggetto giuridico che la esercita – ben difficilmente potrà sottrarsi.
D’altronde, le stesse linee guida sulla RdR emanate dalla Commissione europea con la Comunicazione (2014/C 136/01), pubblicata sulla GUUE il 6 maggio 2014, indicano espressamente che «è possibile che, a seguito di un’indagine svolta per raccogliere dati di riferimento sul suolo e sulle acque sotterranee, possano rendersi necessarie ulteriori indagini, ad esempio nel caso in cui l’indagine iniziale abbia rilevato un inquinamento storico (dovuto ad attività autorizzate o meno) che richieda una descrizione più precisa e attività di bonifica».
 
Lo stesso dicasi – e a maggior ragione – rispetto alla “valutazione” circa lo stato di contaminazione del suolo e delle acque sotterranee da parte di sostanze pericolose pertinenti usate, prodotte o rilasciate dall’installazione che, come si è visto, il gestore è chiamato ad effettuare al momento della cessazione definitiva delle attività allo scopo di stabilire se l’installazione ha provocato o meno un «inquinamento significativo del suolo o delle acque sotterranee».
 
Al riguardo, si consideri inoltre che, con la legge 68/2015, è stato introdotto nel codice penale il nuovo delitto di «inquinamento ambientale» (art. 452-bis, c.p.), configurabile proprio nel caso in cui vengano cagionati una «compromissione o un deterioramento significativi» (e misurabili) delle matrici ambientali, fra cui le acque e porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo (ma non si può escludere nemmeno che possa assumere rilievo in questi casi anche la nuova fattispecie di «disastro ambientale» di cui all’ art. 452-quater, c.p.).
 
Si tratta, oltretutto, di un delitto che può dare luogo anche alla responsabilità da reato dell’ente ai sensi e per gli effetti del d. lgs. 231/2001 e che non risulta “coperto” dalla speciale «condizione di non punibilità» prevista dal comma 4 dell’art. 257, d. lgs. 152/2006 in caso di osservanza dei progetti di bonifica approvati, dal momento che la stessa legge 68/2015 l’ha infatti circoscritta alle sole contravvenzioni, escludendo perciò le fattispecie delittuose.
 
Vanno infine considerati gli ulteriori rischi connessi alla possibilità che le informazioni contenute nella RdR – dunque, in un documento ufficiale proveniente dal gestore e validato dall’autorità competente – vengano utilizzate (anche) per scopi diversi.
 
Questo documento, anzitutto, potrebbe costituire oggetto di una domanda di accesso ai documenti amministrativi o, più probabilmente, di una domanda di accesso alle informazioni ambientali ai sensi del d. lgs. 195/2005, con la conseguenza che potrà essere visionato, ad esempio, da cittadini che risiedono nelle vicinanze dell’installazione, associazioni ambientaliste o imprese concorrenti; il gestore potrà però legittimamente pretendere che all’accesso vengano sottratte determinate informazioni riservate.
 
In secondo luogo, non si può escludere che la compagnia di assicurazione si basi sullo scenario di rischio (di contaminazione del sito) ricavabile dalla RdR ai fini della determinazione delle condizioni praticabili (premio, massimale, ecc.) e/o dell’inserimento di specifiche esclusioni o riserve circa l’ambito di operatività di una polizza “RC inquinamento” a favore del gestore dell’installazione. È dunque necessario che il gestore fornisca al broker assicurativo informazioni e dichiarazioni (in particolare, in ordine al rischio effettivo che l’attività possa comportare l’inquinamento del sito) coerenti con quanto emerso e descritto in sede di elaborazione della RdR.
 
Infine, la RdR assume evidentemente grande rilievo anche in sede di due diligence “ambientale”, dal momento che essa può essere esaminata dal potenziale acquirente allo scopo di individuare e quantificare le possibili passività ambientali connesse all’avvenuto esercizio, in un determinato sito, di attività soggette ad AIA.
 
Ecco spiegate alcune delle principali ragioni per cui si è assistito, in questi primi due anni di applicazione, ad una vera e propria “fuga” dalla relazione di riferimento, nel senso che l’impegno degli operatori è stato quasi sempre orientato verso la dimostrazione della non necessità di procedervi.
Il che il più delle volte può aver fatto dimenticare anche i possibili vantaggi, per il gestore, della RdR: fra questi, in particolare, la possibilità – che vale a maggior ragione nel caso di nuove installazioni – di fare emergere in modo ufficiale l’eventuale situazione di inquinamento che fosse ascrivibile con certezza ad altri soggetti (ad esempio, ai precedenti gestori della medesima installazione, o a soggetti che nel medesimo sito abbiano svolto in precedenza altre attività inquinanti o, ancora, ad insediamenti produttivi presenti nelle vicinanze); in tal modo, il gestore potrà scongiurare il rischio di essere chiamato a risponderne al momento della cessazione definitiva della propria specifica attività.
 
 
Mara Chilosi e Andrea Martelli
avvocati
 
 



[1] Sul tema, sia consentito rinviare a A. MARTELLI, Con la relazione di riferimento indagine ambientale del sito prima di ogni attività AIA, in Ambiente & Sicurezza, n. 12, 24 giugno 2014, 1 e A. MARTELLI, Sulla relazione di riferimento indicazioni e tempistiche con il D.M. n. 272/2014, in Ambiente & Sicurezza, n. 3, 18 febbraio 2015, 66.
[2] Cfr. Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio che istituisce un quadro per la protezione del suolo e modifica la direttiva 2004/35/CE COM(2006) 232 del 22 settembre 2006.
[3] In proposito, la direttiva IED si limita invece a ricordare, nel considerando (25) che, «la responsabilità per l’inquinamento non causato dal gestore è disciplinata dalla pertinente normativa nazionale e, se del caso, da altra pertinente normativa dell’Unione».
[4] Il considerando (24) della direttiva IED precisa che, «al fine di assicurare che l’esercizio di un’installazione non comporti un deterioramento della qualità del suolo e delle acque sotterranee è necessario stabilire lo stato della contaminazione del suolo e delle acque sotterranee attraverso una relazione di riferimento. La relazione di riferimento dovrebbe essere uno strumento pratico atto a consentire, per quanto possibile, un raffronto in termini quantitativi tra lo stato del sito descritto in tale relazione e lo stato del sito al momento della cessazione definitiva delle attività, al fine di accertare se si è verificato un aumento significativo dell’inquinamento del suolo o delle acque sotterranee».
[5] Si noti che per valutare la «fattibilità tecnica» di queste misure ci si potrebbe peraltro basare sulle BAT; lo stesso l’art. 5, comma 1, lett.l-ter.2), d. lgs. 152/2006, infatti, segnala espressamente che il documento contenente le «conclusioni sulle BAT» può indicare quali siano le migliori tecniche disponibili anche relativamente alle «pertinenti misure di bonifica del sito».
[6] L’art. 302, d. lgs.  152/2006 definisce come «ripristino», «nel caso delle acque, delle specie e degli habitat protetti, il ritorno delle risorse naturali o dei servizi danneggiati alle condizioni originarie; nel caso di danno al terreno, l'eliminazione di qualsiasi rischio di effetti nocivi per la salute umana e per la integrità ambientale. In ogni caso il ripristino deve consistere nella riqualificazione del sito e del suo ecosistema, mediante qualsiasi azione o combinazione di azioni, comprese le misure di attenuazione o provvisorie, dirette a riparare, risanare o, qualora sia ritenuto ammissibile dall'autorità competente, sostituire risorse naturali o servizi naturali danneggiati».
[7] Il fatto che gli interventi “rimediali” imposti dalla RdR non siano stati raccordata con gli obblighi di intervento di intervento imposti dalla disciplina in materia di danno ambientale appare anche più grave se si considera che i gestori di installazioni soggette ad AIA si trovano in una posizione differenziata rispetto ad altri soggetti proprio ai fini dell’applicazione della normativa sul danno ambientale, dal momento che la loro responsabilità ha natura oggettiva, mentre qualunque altro operatore può essere chiamato a risponderne soltanto a titolo di dolo o colpa (cfr. articoli 298-bis e  311, d. lgs. 152/2006).


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