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Sicurezza sul lavoro: il Consiglio d’Europa boccia l’Italia

Sicurezza sul lavoro: il Consiglio d’Europa boccia l’Italia
Redazione

Autore: Redazione

Categoria: Valutazione dei rischi

19/03/2014

Secondo il Comitato per i diritti sociali del Consiglio d’Europa l’Italia viola alcune norme europee in materia di sicurezza sul lavoro. Le procedure standardizzate, il sistema di qualificazione delle imprese e le nuove direttive in materia di appalti.

 
Roma, 19 Mar – L’Italia è stata ancora bocciata in Europa per le sue carenze in materia di sicurezza sul lavoro. Riprendiamo un articolo pubblicato sul tema da  Anmil. L’articolo, dal titolo Valutazione dei rischi e sistema di prevenzione: perché il Consiglio d’Europa ha bocciato l’Italia?” e a cura di Maria Giovannone e Francesco Catalfamo, non solo riprende nel dettaglio le conclusioni del rapporto di valutazione emesso dal Comitato per i diritti sociali del Consiglio d’Europa riferite all’anno 2013, ma presenta anche tre nuove direttive europee in materia di appalti.

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In Italia, il diritto alla tutela della salute e della sicurezza sul posto di lavoro non è garantito in modo sufficiente. È ciò che emerge dalle conclusioni del rapporto di valutazione emesso dal Comitato per i diritti sociali del Consiglio d’Europa riferite all’anno 2013. A giudizio degli estensori, l’ordinamento italiano viola alcune delle norme sancite dalla Carta Sociale Europea (CSE) in materia di sicurezza sul lavoro.
 
In primo luogo, confermando i giudizi espressi nei report del 2007 e del 2009, il Comitato rileva l’ assenza di una politica nazionale di indirizzo e coordinamento conforme alla Strategia comunitaria 2007-2012 per la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro. In effetti, i compiti di definizione delle linee comuni delle politiche nazionali e di individuazione degli obiettivi e programmi dell’azione pubblica di miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro sono attribuiti, ai sensi dell’art. 5, comma 3, lett. a e b d.lgs. n. 81/2008 (Testo Unico della salute e sicurezza sul lavoro), al Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza, istituito presso il ministero della Salute e formato da rappresentanti ministeriali e regionali, previa consultazione delle parti sociali. Tale organo collegiale, pur avendo emanato alcuni significativi documenti condivisi come l’Atto di indirizzo per le politiche attive in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro (20 dicembre 2012) e le Indicazioni ai comitati regionali di coordinamento per la definizione della programmazione per l’anno 2013 delle attività di vigilanza ai fini del loro coordinamento (24 gennaio 2013), non ha ad oggi prodotto le organiche linee guida nazionali in tema di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali prescritte dall’art. 3 della CSE.
Nella consapevolezza di tale mancanza ed anche al fine di dare risposta alle autorità europee, il 12 giugno 2013, la Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro, di cui all’art. 6 del TU Sicurezza, ha approvato le Proposte della Commissione consultiva permanente per una strategia nazionale di prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, dando avvio al processo di elaborazione di una vera e propria strategia nazionale per la salute e sicurezza sul lavoro. Questa dovrebbe in prospettiva operare in un arco temporale triennale di riferimento ed essere pianificata secondo una procedura che veda come soggetto proponente il predetto Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Quest’ultimo, di concerto con i Ministri competenti, si occuperà altresì di valutare, modificare ed integrare le proposte adottate dalla Commissione.
Secondo le valutazione del Comitato per i diritti sociali del Consiglio d’Europa, ad essere deficitario è anche il sistema di gestione dei rischi sul posto di lavoro. Carenti sono considerate le misure per l’implementazione di un risk assessment che tenga conto dei pericoli connessi alla prestazione lavorativa o che sopravvengono nel corso della stessa – con un’espressione che sembra suggerire una valutazione di tutti i rischi, sia quelli strettamente legati alla prestazione lavorativa (c.d. rischi safety), sia quelli derivanti da fattori esogeni come ad esempio l’attività criminosa di terzi (c.d. rischi security) - nonché l’organizzazione di cautele preventive calibrate sulla base dei rischi riscontrati e delle attività di informazione e formazione dei lavoratori.
 
Le censure di principio del Comitato sembrano essere rivolte non solo al dato normativo formale, ma anche all’applicazione sostanziale dello stesso. Infatti, sebbene l’art. 28 del TU precisi espressamente che la valutazione debba riguardare “tutti i rischi” compresi quelli afferenti “a gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari”, citando a titolo meramente esemplificativo i rischi collegati allostress lavoro-correlato, quelli riguardanti le donne in stato di gravidanza e quelli riconducibili a differenze di età, di genere, di provenienza geografica, o di tipologia contrattuale di assunzione, non si può revocare in dubbio che il potenziale onnicomprensivo della norma continui in molti contesti aziendali a non essere compreso, valorizzato e attuato in modo adeguato.
Guardando più da vicino alle contestazioni poi, le principali questioni concernono la tardiva determinazione (e attuazione) delle procedure standardizzate per la redazione del documento di valutazione dei rischi nelle aziende che occupano fino a 10 dipendenti, già parziale oggetto della procedura di infrazione 2010/4227 per il mancato recepimento della direttiva europea quadro 89/391/CEE, avviata dalla Commissione Europea e ancora in corso, nonché la non avvenuta adozione del sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi previsto dall’art. 27 del TU, salvo quanto stabilito dalla disciplina speciale degli spazi confinati di cui al d.p.r. n. 177/2011.
 
Per quel che inerisce al primo punto, l’ordinamento italiano ha già provveduto a porre rimedio. Seppur in ritardo rispetto alla data del 31 dicembre 2010 fissata inizialmente dall’art. 6, comma 8, lett. f del TU, infatti, le procedure standardizzate sono state elaborate dalla Commissione consultiva permanente e recepite con il Decreto Interministeriale 30 novembre 2012. Essendo entrate a pieno regime a partire dal 1º luglio 2013, dopo che la legge di stabilità 2013 aveva prorogato al 30 giugno 2013 la facoltà di ricorrere all’autocertificazione, è possibile ipotizzare che le verifiche del Comitato per i diritti sociali siano state effettuate in un periodo antecedente tale data.
 
Quanto al secondo aspetto, l’art. 27 del TU, così come recentemente modificato dal d.l. n. 68/2013 (c.d. Decreto del fare), demanda ad un d.P.R. l’individuazione dei settori e dei criteri finalizzati alla definizione di un sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi, fondato sulla base del livello di esperienza, competenza e conoscenza acquisita, nonché sull’applicazione di determinati standard contrattuali e organizzativi nell’impiego della manodopera. L’appunto mosso dal Comitato per i diritti sociali, pur cogliendo lo spirito dell’art. 27 d.lgs. n. 81/2008, appare almeno in parte viziato da un equivoco giuridico di fondo. Si legge infatti nel rapporto che il rispetto dei criteri definiti nel sistema di qualificazione sarebbe un requisito imprescindibile per l’ottenimento dell’autorizzazione ad operare in un determinato settore, laddove l’art. 27, comma 2 del TU afferma che “il possesso dei requisiti per ottenere la qualificazione costituisce elemento preferenziale per la partecipazione alle gare relative agli appalti e subappalti pubblici e per l’accesso ad agevolazioni, finanziamenti e contributi a carico della finanza pubblica”, prevedendo solo per l’edilizia che il meccanismo di qualificazione delle imprese, nella forma della cosiddetta “patente a punti”, funzioni da sbarramento vero e proprio al mercato di riferimento.
A norma dell’art. 6, comma 8, lett. g d.lgs. n. 81/2008, il d.P.R. di adozione del sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi avrebbe dovuto essere emanato entro dodici mesi dall’entrata in vigore del TU, sulla base dei criteri indicati dalla Commissione consultiva permanente, sentito il parere della Conferenza Stato, regioni e province autonome. I lavori dell’apposito comitato, costituitosi nel 2010 in seno alla Commissione per occuparsi della questione non hanno tuttavia condotto sinora a risultati concreti essendosi arrestati da più di un anno.
Inoltre, nonostante l’intervento del Decreto del fare, volto a semplificarne la procedura di approvazione, il d.P.R. di adozione del sistema di qualificazione continua allo stato a far parte della schiera degli oltre venti decreti attuativi del Testo Unico ancora inattuati.
 
Si auspica dunque che la bocciatura dell’Italia in materia possa servire da stimolo per la messa a regime di uno strumento normativo fermo da troppo tempo, tenuto anche conto delle ulteriori spinte che in tal senso potrebbero provenire dalla implementazione delle nuove direttive UE in materia di appalti. Lo scorso 15 gennaio, infatti, il Parlamento europeo ha approvato in seduta plenaria i testi delle tre nuove Direttive in materia di appalti del settore ordinario (servizi, lavori e forniture), di appalti del settore speciale (acqua, energia, trasporti e postali) e di concessioni. La nuova normativa, già concordata con il Consiglio nel giugno 2013, modifica le norme attuali sugli appalti pubblici comunitari. Per la prima volta, sono stabilite norme comuni UE in materia di contratti di concessione, per promuovere una concorrenza leale e garantire il miglior rapporto qualità-prezzo, introducendo nuovi criteri di aggiudicazione.
 
Le nuove Direttive entreranno in vigore entro il prossimo mese di marzo (dopo la ratifica del Consiglio europeo e la pubblicazione sulla G.U.U.E.) e dovranno essere recepite da tutti i Paesi membri entro marzo 2016. Si prevedono regole più severe in materia di subappalto. Invero, al fine di combattere il dumping sociale e garantire che i diritti dei lavoratori siano rispettati, le nuove leggi comprenderanno norme per il subappalto e disposizioni più severe sulle “offerte anormalmente basse”. I contraenti che non rispettano la normativa UE sul lavoro potranno essere esclusi dalla presentazione di offerte, secondo un meccanismo che prospetticamente potrebbe rafforzare e rendere più rigido quel meccanismo di selezione delle imprese, nell’accesso agli appalti, già contemplato dal sistema di qualificazione delle imprese.
 
 
Maria Giovannone, A.D. e Responsabile Scientifico di ANMIL Sicurezza
 
Francesco Catalfamo, Dottorando di ricerca in Formazione della Persona e Mercato del Lavoro
 
 
Fonte: Anmil
 

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Rispondi Autore: Claudio Stellato - likes: 0
19/03/2014 (07:23:48)
Bene!
Ennesimo rimprovero da parte dell'UE all'Italia. Ma siamo sicuri che i compiti non li facciamo?
Mettendo da parte i tecnicismi che ritardano il recepimento di una direttiva, vorrei sottolineare la scarsa comunicazione con i lavoratori da parte dei tecnici della sicurezza. Art.15 comma 1 lettera r: la partecipazione e consultazione dei lavoratori.

Basta applicare quanto dettato dal testo unico per arrivare all'obbiettivo.
Vorrei sottolineare che in Europa si fa fatica ad elogiare l'Italia. Nel resto dell'Unione l'applicazione ed adozione delle leggi in materia di salute e sicurezza sul lavoro hanno una percentuale più bassa che da noi. Forse le percentuali di incidenza infortunistica sono diverse, ma.....Diffondiamo un po' di ottimismo, creiamo una vera inversione di tendenza. Sottolineare i richiami dell'UE non aiuta il già molto complicato quadro generale. Per concludere.......Ognuno interpreti a modo suo. Buona giornata a tutti.
Rispondi Autore: Claudio Stellato - likes: 0
19/03/2014 (08:07:44)
Bene!
Ennesimo rimprovero da parte dell'UE all'Italia. Ma siamo sicuri che i compiti non li facciamo?
Mettendo da parte i tecnicismi che ritardano il recepimento di una direttiva, vorrei sottolineare la scarsa comunicazione con i lavoratori da parte dei tecnici della sicurezza. Art.15 comma 1 lettera r: la partecipazione e consultazione dei lavoratori.

Basta applicare quanto dettato dal testo unico per arrivare all'obbiettivo.
Vorrei sottolineare che in Europa si fa fatica ad elogiare l'Italia. Nel resto dell'Unione l'applicazione ed adozione delle leggi in materia di salute e sicurezza sul lavoro hanno una percentuale più bassa che da noi. Forse le percentuali di incidenza infortunistica sono diverse, ma.....Diffondiamo un po' di ottimismo, creiamo una vera inversione di tendenza. Sottolineare i richiami dell'UE non aiuta il già molto complicato quadro generale. Per concludere.......Ognuno interpreti a modo suo. Buona giornata a tutti.
Rispondi Autore: harleysta - likes: 0
19/03/2014 (08:25:39)
...il caro e vecchio ENPI, poche e sentite parole in materia di sicurezza, altro che tutti 'sti pipponi mentali...
Rispondi Autore: Rocco Schiavone - likes: 0
23/07/2018 (14:15:43)
La storia di Antonio Morrone, ex carabiniere distaccato alla Consulta e deceduto di tumore al fegato e ai polmoni senza neanche aver ottenuto la causa della morte in servizio, nonostante le battaglie quasi epiche della propria famiglia (che costarono a suo figlio anni di discriminazione sul posto del lavoro, che era sempre la Corte costituzionale) adesso è diventata un libro. Scritto dalla nuora, Rosa Morrone. Con questo titolo: “Sotto la linea di tiro”. Ovvero: “Quando una istituzione prende di mira il cittadino”.
Un libro che farà discutere. Anche perché la gente mai penserebbe che si può morire di cancro a 61 anni per aver lavorato dal 1976 al 1989 nella stamperia della Corte costituzionale tra inchiostri, solventi, vernici e materiali che oggi non si usano più. E il libro, oltre a narrare l’odissea ospedaliera e giudiziaria del de cuius e dei suoi familiari, ripropone la vexata quaestio dell’autodichia. Alias l’autonomia interna di alcuni organi costituzionali quali la Camera dei deputati, il Senato e la stessa Corte costituzionale, che negli anni si è trasformata in una sorta di privilegio dietro cui può ripararsi qualunque arbitrio amministrativo o peggio ancora. Dai palazzi di costruttori amici della sinistra affittati alla Camera a peso d’oro, tanto che sarebbe stato meglio comprarli direttamente, fino proprio alla storia di questo ex carabiniere deceduto perché nella stamperia della Consulta per anni si sono stampate le sentenze con inchiostri e solventi a base di benzolo, metilcloroformio, ciclopropano e fenolo. Il famigerato “Centro di fotoriproduzione” di cui tutti conoscevano la potenziale nocività ma nessuno osava parlarne fuori dalle sacre mura della Consulta. I cui segreti non dovevano varcarle. Pena ammonimenti e discriminazioni sul posto del lavoro.
Come, dopo la morte di suo padre, ne avrebbe subite a bizzeffe il figlio Walter Morrone. Un impianto di areazione si degnarono di metterlo solo nel 1995, quando Antonio Morrone era morto da ormai sei anni. Ai dipendenti, tra cui due testi dell’accusa, e colleghi del Morrone dentro quei locali, contro l’ex segretario generale della Consulta, Cesare Bronzini (colleghi che in seguito morirono anche loro per cancro e leucemia), veniva data ogni sera una bottiglia di latte per disintossicarsi dai vapori respirati durante l’orario di lavoro. Ci fu ovviamente anche un’inchiesta penale che i Pm romani condussero con molta prudenza, benché il gip Otello Lupacchini per ben due volte respinse l’istanza di archiviazione. Bronzini, che da segretario generale aveva anche la responsabilità logistica della sicurezza di tutti i locali della Consulta, compresa la stamperia, se la cavò così, con un proscioglimento disposto dal gup Roberto Mancinetti nel febbraio 2002. Motivazione assolutoria che assicurava che “nelle organizzazioni complesse non è sempre agevole individuare i destinatari degli obblighi antinfortunistici, laddove il reato addebitato avrebbe natura di reato proprio”.
Gli imputati secondo il gup, l’altro era il direttore generale pro tempore del provveditorato, Alberto Giraldi, “non ebbero la percezione del rischio cui erano esposti gli operatori del Centro stampa”.
Mancava la consapevolezza, quindi, anche se il fatto che agli impiegati di quel settore e solo a loro venisse data la famosa bottiglia di latte serale sembrava smentire questa motivazione. Morale? La storia finisce in cavalleria, gli eredi di Antonio Morrone non ottengono il riconoscimento della morte come causa di servizio e la pensione relativa, e il figlio Walter per di più subisce per anni le ritorsioni interne alla Consulta per aver osato alzare la testa. Il tutto all’ombra della famigerata autodichia. Adesso però esce questo libro edito da “Titani editori” che sicuramente non mancherà di rinnovare le polemiche che all’epoca vennero tenute molto sotto traccia. Va detto infatti che per quasi tre decenni i presidenti della Corte costituzionale che si sono succeduti nell’incarico hanno cercato di evitare che questa storia avesse troppo risalto sui giornali. E infatti a occuparsene negli anni Novanta furono solo “La Padania” e “L’Opinione” e, molto più recentemente, “Il Fatto quotidiano”. Ora, forse, dopo l’uscita del libro della signora Rosa Morrone qualche altro giornalista prenderà il coraggio a due mani.
Rocco Schiavone

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