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Organizzazione, nuovi rischi da lavoro e malattie professionali
Urbino, 3 Sett – Un breve saggio, pubblicato nell’aprile scorso da Olympus (Osservatorio per il monitoraggio permanente della legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza del lavoro), affronta la tematica delle malattie professionali a partire dall’esperienza giurisprudenziale con riferimento non solo ai principali problemi interpretativi, ma anche alle interrelazioni che si instaurano con la fase dell’accertamento amministrativo.
A parlarne è il Working Paper “Il giudice e l’Inail nell’applicazione delle norme sulle malattie professionali” a cura di Mario Cerbone, ricercatore di Diritto del lavoro nell’ Università degli Studi del Sannio.
Il documento articola il discorso in due parti.
Nella prima parte si tenta di ricostruire sistematicamente la nozione di “ malattia professionale”, tenendo conto sia “dell’apporto giurisprudenziale, sia di quello amministrativo, proveniente, in particolare, da alcune importanti Circolari dell’Inail”.
Nella seconda parte dello scritto ci si concentra, invece, sui “nuovi rischi” da lavoro, “in un’accezione ambivalente, e cioè riferita: sia ai fattori che incidono sulla persona del lavoratore, prevalentemente nella sua dimensione psicologica e nella sua sfera morale, sia ai nuovi profili di rischio individuati in relazione ai sistemi di organizzazione del lavoro ed al loro processo evolutivo”.
E scopo dell’indagine è quello di verificare “se, ed in quale misura, l’ordinamento è in grado di assicurare, dinamicamente, forme appropriate di tutela (non solo dell’integrità fisica, ma anche) della ‘personalità morale’ dei prestatori di lavoro (ex art. 2087 c.c.)”.
Rimandando ad una lettura integrale dell’interessante documento, noi ci soffermiamo brevemente sul rapporto tra nuovi rischi da lavoro e malattie professionali da c.d. “costrittività organizzativa” (insieme delle condizioni di rischio che si creano per incongruenze del processo organizzativo).
Infatti il tema delle malattie professionali “subisce un’inevitabile complicazione interpretativa se ci si interroga sulla possibilità di ricondurre all’interno della prevista tutela assicurativa i disturbi di natura psichica, se ed in quanto causati da specifiche e particolari condizioni dell’attività e dell’organizzazione del lavoro. Si tratta di un quesito sempre più pressante nella realtà lavorativa, anche per le evidenti interrelazioni con il fenomeno del mobbing”, fenomeno “normativamente ancora bisognoso di supporto, ma dal punto di vista giurisprudenziale molto vivo”.
L’autore ricorda che la l. n. 183/2010, nel modificare il testo dell’art. 7, comma 1, d.lgs. n. 165/2001, ha stabilito che le pubbliche amministrazioni ‘… garantiscono un ambiente di lavoro improntato al benessere organizzativo e si impegnano a rilevare, contrastare ed eliminare ogni forma di violenza morale o psichica al proprio interno” (art. 21 − Misure atte a garantire pari opportunità, benessere di chi lavora e assenza di discriminazioni nelle amministrazioni pubbliche). E indica che con l’emanazione della circolare INAIL del 17 dicembre 2003, n. 71, avente ad oggetto “Disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro. Rischio tutelato e diagnosi di malattia professionale. Modalità di trattazione delle pratiche”, l’Inail “aveva introdotto un allargamento semantico del concetto di rischio tecnopatico assicurativamente rilevante, tale da ricomprendervi, a suo parere, non solo quello collegato alla nocività delle lavorazioni, tabellate e non, ma anche quello riconducibile a particolari condizioni dell’attività e dell’organizzazione aziendale”.
Tuttavia, siffatto allargamento – continua l’autore – “non ha superato il vaglio della giurisprudenza amministrativa. Il superamento del c.d. sistema tabellare, a favore di un ‘sistema misto’ - secondo i giudici amministrativi - non ha infatti scalfito il principio del ‘rischio professionale’ identificato in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa”.
Con riferimento alla sentenza del T.A.R. Lazio, 4 luglio 2005, n. 5454 e alla sentenza del Consiglio di Stato (17 marzo 2009, n. 1576), “la tutela assicurativa continua a riferirsi (sempre e soltanto) a quelle malattie contratte nell’esercizio delle lavorazioni, specificate nelle tabelle o diverse da quelle comprese nelle tabelle, ma sempre che si tratti di malattie delle quali sia comunque provata la causa di lavoro. Conseguentemente, è possibile riconoscere la tutela in casi di disturbi psichici provocati dallo stress, laddove quest’ultimo si ricolleghi causalmente alle concrete modalità di svolgimento della lavorazione; non altrettanto si potrebbe fare per quelle manifestazioni non legate alle caratteristiche della lavorazione, ma piuttosto conseguenti al comportamento del datore di lavoro che assume comportamenti vessatori nei confronti del lavoratore”.
Tuttavia l’iter logico-giuridico seguito dai giudici amministrativi “non mette a fuoco una distinzione funzionale, che si rintraccia nel quadro normativo vigente e che invece potrebbe assumere grande importanza ai fini dell’indagine sul rischio professionale: la distinzione tra piano dell’accertamento amministrativo, demandato all’ente in caso di denuncia della malattia professionale, e piano dell’eventuale accertamento giudiziario, in caso di controversia tra l’assicurato e l’Istituto”.
Rimandando al saggio per l’approfondimento delle conseguenze di tale distinzione, andiamo direttamente alle conclusioni dell’autore.
Si indica che “la capacità del sistema normativo di contenere, al suo interno, le numerose spinte di tutela che l’organizzazione del lavoro produce resta, a tutti gli effetti, una questione aperta. È evidente che l’ampiezza del fenomeno sicurezza del lavoro/malattia professionale” - ancorato tuttora saldamente sull’art. 2087 c.c. – “richieda di per sé costantemente un allargamento delle sedi di protezione dei prestatori di lavoro ed un’armonizzazione dei vari sistemi di protezione” (un esempio di combinazione virtuosa delle tutele è stato “fornito dall’interrelazione tra controllo amministrativo dell’Inail e controllo giudiziario, a proposito dei casi di ipoacusie non tabellate”).
Al di là di questi esempi “virtuosi”, per evitare il rischio di lasciare fuori dalla portata giudiziaria numerose questioni riguardanti la sicurezza del lavoro – specie quando essa è declinata nei termini di ‘benessere organizzativo’ – “la centralità del controllo giudiziale deve soddisfare due condizioni, ambedue necessarie: da un lato, deve continuare ad alimentarsi di una relazione fortemente ‘collaborativa’ con l’Inail; dall’altro lato, non può essere disgiunta da altri fattori di protezione/prevenzione dei rischi lavorativi, che, al momento, però paiono ancora troppo deboli e scarsamente effettivi”.
Questa seconda condizione può essere soddisfatta per il tramite di alcuni “percorsi reticolari”. In primo luogo “occorre affiancare al controllo giudiziale l’insieme delle tecniche e tecnicalità di prevenzione, a cui pure il d.lgs. n. 81/2008 dedica attenzione”; in secondo luogo “non può che essere rafforzata la scelta di garantire un approccio integrato alla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, con specifico riferimento al ruolo della contrattazione collettiva. La fonte contrattuale collettiva potrebbe infatti “occupare lo spazio regolativo (in parte ancora inesplorato) che si profila proprio per la prevenzione dei ‘nuovi rischi’, a condizione però che, dal lato sindacale, si superino, una volta per tutte, quelle commistioni e ambiguità del ruolo delle rappresentanze sindacali, che troppo spesso hanno connotato in negativo la medesima azione preventiva”.
Olympus - Osservatorio per il monitoraggio permanente della legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza del lavoro, “ Il giudice e l’Inail nell’applicazione delle norme sulle malattie professionali”, a cura di Mario Cerbone, ricercatore di Diritto del lavoro nell’Università degli Studi del Sannio, Working Paper di Olympus 32/2014 (formato PDF, 283 kB).
Tiziano Menduto
Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.
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