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Fare sicurezza in tempi di crisi

Fare sicurezza in tempi di crisi

Sicurezza, management, organizzazione, disciplina, educazione; ovvero fare sicurezza in tempi di crisi. La sicurezza deve essere parte integrante del modo di vivere l’azienda e il lavoro. Di Alessandro Mazzeranghi.

Viareggio, 26 Set - Quello che scrivo non è una novità assoluta, però vale davvero la pena meditare sulle interrelazioni fra i termini che compongono il titolo: sicurezza, management, organizzazione, disciplina, educazione.
 
Credo che ancora si faccia una certa confusione, spesso sottintesa nella mente dei manager: la sicurezza e la salute sul lavoro vengono viste come un qualcosa “al lato” della concreta vita della azienda, qualcosa che è altrove, rispetto al vero cuore aziendale. Qualcosa di estraneo, quindi, al vero impegno del management.
 
Non è una questione di sottovalutazione della importanza della sicurezza, qui non parliamo di criminali o di indifferenti. È una valutazione, come dicevo spesso sottintesa, della collocazione della sicurezza in azienda, come dicevo al di fuori del cuore pulsante che distribuisce la linfa essenziale per la vita e la prosperità della azienda stessa.

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Questa è una questione da ribattere subito: la sicurezza, e non solo, è parte integrante del modo di “vivere” l’azienda e il lavoro, e come tale è inscindibile da tutti gli altri fattori che compongono la vita lavorativa. L’impegno alla produzione, l’impegno alla qualità, l’impegno alla riduzione degli sprechi non possono sussistere separati dall’impegno alla sicurezza.
 
Questa è una lezione che noi formatori abbiamo saputo trasmettere poco: abbiamo sempre individuato la sicurezza come un diritto, come un bene, ma non proprio come un elemento integrante del lavoro. Infatti quando parliamo ci limitiamo spesso a considerare aspetti di sicurezza, appunto, tenendoli (anche noi) slegati dal resto della realtà aziendale.
 
Non ci dobbiamo stupire che poi chi ci ascolta, a partire dai lavoratori sino al datore di lavoro, segua la via che noi implicitamente gli abbiamo mostrato.
 
La vita in azienda
Vivere in azienda, vivere l’azienda, quali possono essere le motivazioni effettive. Premesso che il diritto al lavoro è sancito dalla costituzione, è anche evidente che non si lavora per piacere ma, principalmente, per necessità di un sostentamento che ci permetta di vivere. E l’azienda in cambio ha diritto di chiedere il nostro impegno per il raggiungimento di quelli che sono i suoi obiettivi economici.
 
Però, nonostante premesse ben chiare, il modo di lavorare degli individui cambia da persona a persona, mescolando a diverso grado due componenti:
- impegnarsi a fare con attenzione e diligenza le azioni che l’azienda ci richiede;
- fare quanto nelle nostre capacità per perseguire gli obiettivi che l’azienda si è data.
 
Abbiamo appena detto che non esiste il bianco o il nero, ma che il comportamento di ognuno è una miscela dei due comportamenti estremi descritti sopra. Ovviamente se non esiste qualche forma di contenzioso fra azienda e collaboratore.
 
Come si può notare in questo paragrafo non compare ancora la espressione sicurezza & salute sul lavoro. Perché, come detto, non è cosa a sé stante ma parte integrante della vita lavorativa, sia in termini di comportamenti predefiniti da rispettare, sia in termini di impegno verso gli obiettivi aziendali di riduzione degli infortuni e delle malattie professionali.
 
Quindi la vita in azienda è un tutto unico, che dovrebbe anche essere armonico nel portare avanti senza contrasti le varie istanze, che spesso provengono da soggetti diversi, almeno nella loro declinazione pratica.
 
Le regole fondamentali: le aspettative della azienda
Le regole fondamentali per la vita di una azienda sono quelle che dovremmo portare con noi quando veniamo a farne parte. Quelle che esistono da prima, dall’essere parte di una società basata (si dovrebbe sperare) su determinati principi morali condivisi.
 
Cosa ci hanno insegnato da bambini: l’educazione. Quindi si presume che in azienda entrino persone educate e rispettose del prossimo, chiunque esso sia nelle gerarchie aziendali. Dovrebbe essere così, ma spesso non è così. È un bell’handicap.
 
Altra cosa che ci hanno insegnato: il rispetto degli ordini di chi è superiore di grado, di posizione …, la disciplina insomma. È evidente che anche questo sarebbe immediatamente replicabile in azienda, mentre invece viene spesso considerato non un dovere ma quasi un favore.
 
Forse chi scrive è parte di una generazione vecchia, in cui questi concetti venivano inculcati ai bambini. Ma se andiamo in azienda oggi ci rendiamo conto che sono concetti presenti solo in minima parte.
 
Allora ripartiamo dai fondamentali, quelli che una normale azienda dovrebbe dare per acquisiti quando assume una persona:
- rispetto verso tutte le persone con cui si entra in contatto;
- mantenimento dell’ordine all’interno dei luoghi di lavoro;
- cura dei beni materiali della azienda;
- rispetto delle gerarchie, disciplina e obbedienza agli ordini dei propri superiori e alle disposizioni aziendali in genere;
- attenzione a quanto l’azienda mette in campo a livello informativo e formativo;
- attenzione agli interessi della azienda;
- …
 
Sono queste le basi di buon comportamento su cui si dovrebbe poter costruire il resto, ovvero ciò che è specifico della vita aziendale e che già abbiamo citato sopra: produzione, tutela degli assett aziendali, sicurezza …
 
I fattori comportamentali: la sicurezza tra educazione e disciplina
I tre termini del titolo visti in ottica sicurezza & salute sul lavoro. Altrimenti: come educazione e disciplina possono contribuire in forte misura alla sicurezza.
 
In sostanza si tratta di due aspetti simili ma indipendenti; simili perché si tratta di rispettare regole, più o meno definite. Indipendenti perché impattano su aspetti diversi.
 
L’ordine, è la base di un modo di lavorare privo di imprevisti. Non è solo non lasciare materiali vari “in mezzo”, ma anche riporre le cose al loro posto, e che tale posto sia considerato il posto giusto da tutti. Vuol quindi dire pensare, prestare attenzione, ma anche dialogare con i colleghi e i superiori per ottimizzare il modo di lavorare, per ridurre sprechi e fatica per tutti. E se consideriamo che ogni nostra azione, specie se non routinaria (cercare “disperatamente” qualcosa di indispensabile che non si trova), rappresenta per definizione una opportunità di incidente, allora è evidente che già di per sé l’ordine è sicurezza.
 
La disciplina è, invece, quel comportamento che consente, a chi pensa come debba essere fatta in sicurezza una determinata azione, di avere confidenza che le sue indicazioni saranno rispettate, sia che le abbia comunicate a voce, sia che le abbia messe per scritto. La disciplina è anche ciò che consente di essere confidenti che una determinata azione sarà effettuata allo stesso modo da due persone diverse. Se consideriamo che agire differentemente a fronte della medesima situazione, specie se ripetitiva, è come minimo uno spreco, e che lo stress e la fatica derivanti dal lavorare “male” sono una nota causa di infortuni, anche qui abbiamo chiuso il cerchio. Naturalmente non è solo questo il beneficio …
 
La disciplina porta con sé anche il rispetto delle gerarchie (se manca questo elemento cade la disciplina); qui vorremmo spendere una parola su situazioni, a nostro attivo estremamente distruttive, che purtroppo si incontrano spesso in azienda: quei pettegolezzi sul fatto che il capo non sia un buon tecnico, sul fatto che il capo sbaglia, sul fatto che “il capo non capisce nulla … se fossi io a decidere!” … tutte mancanze di rispetto gratuite che non portano mai a una presa di posiziona costruttiva. Non che nel verso opposto non ci siano gli stessi problemi: capi che mascherano i propri errori attribuendoli ai collaboratori, capi che dicono cose diverse in funzione degli interlocutori … Sembra quasi che l’interesse personale sia l’unico da perseguire, e che non ci sia la minima attenzione per l’interesse aziendale.
 
Non è sempre così, ma vi invitiamo a pensare a questi fenomeni e a guardarvi intorno in azienda; nella vostra azienda.
 
Ma sapete quanto sono devastanti questi modi di fare per la salute e la sicurezza sul lavoro? La perdita di credibilità delle persone, qualunque sia il loro ruolo, comporta che si perde fiducia nelle informazioni che trasmettono o nei comandi che impartiscono; tutto diventa oggetto di continue discussioni con perdite di efficienza che sono devastanti … sempre che l’efficacia ne esca salva. Questo poi, sul tema di sicurezza e salute, su cui tutti ritengono di avere diritto di parlare a ruota libera, è ancora più dannoso, perché così si creano gli alibi per non rispettare le regole impartite dalla azienda.
 
Quelli che abbiamo descritto sono elementi di una normale educazione personale che, ripetiamo, dovrebbero essere dati per scontati, ma scontati non sono. Ma chi deve provvedere a ripristinarli? La risposta giusta sarebbe: la società. La risposta concreta, l’unica praticabile, è: l’azienda. Se questa vi pare come una dolorosissima sconfitta del nostro sistema educativo, ebbene non possiamo che concordare. Se questa vi pare una ingiustizia verso le aziende, concordiamo ancora. Ma siamo soggetti pratici, se c’è qualcosa che non funziona nel nostro sistema azienda, e nessuno fa niente, allora ci tocca agire in prima persona.
 
I fattori della conoscenza: la sicurezza fra attenzione, comprensione e decisione
Sino ad ora abbiamo parlato di educazione e disciplina, cioè di comportamenti codificati in cui l’aspetto decisionale in senso ampio è poco presente; è presente, e molto, la volontà individuale, è quasi assente l’aspetto di ragionamento razionale e analitico.
 
Pertanto quello che abbiamo considerato è solo una componente, peraltro fondamentale, delle caratteristiche della persona. L’altra, ovviamente, è la capacità di analisi e di giudizio.
 
Giova qui considerare se educazione, ordine, rispetto, disciplina ecc. … diano elementi sufficienti a garantire che la vita di un individuo in azienda risponda alle esigenze della azienda e dell’individuo stesso.
 
Qui concentriamoci sul concreto: immaginiamo una realtà aziendale, assolutamente ipotetica, ove tutto è governato dalla ripetizione, ovvero qualunque situazione si ripete più volte ed esiste quindi il modo di definire a priori il comportamento migliore da tenere nella medesima. Quindi basta analizzare la situazione, definire le regole esplicite, richiamare le regole implicite e contare sulla disciplina. Solo alcuni saranno coinvolti nella scelta di quale sia il modo più corretto di una determinata azione. Questa, pure estremizzata, rappresenta la condizione di una azienda che, per esempio, esegue montaggi in serie di piccoli prodotti con lotti estremamente elevati.
 
Pensiamo ora al caso opposto: una azienda la cui mission è quella di risolvere problemi di qualche genere portati dai propri clienti. I problemi sono sempre diversi fra loro, quindi le azioni da intraprendere non saranno mai del tutto note a priori; si potranno forse stabilire regole per famiglie di azioni (per esempio lavori elettrici) ma non potremo prevedere come una determinata azione, che in realtà è una reazione a un bisogno non noto a priori, debba essere svolta. Qui evidentemente molti si troveranno a dover decidere, e le decisioni dovranno seguire una logica ben solida, onde evitare errori catastrofici.
 
La prima domanda è: quante sono in una azienda le persone interessate a questo ragionamento? Nella tipologia di azienda di cui stiamo parlando rappresentano una percentuale considerevole della popolazione. Per focalizzare pensate ad una azienda che esegue service su impianti industriali, prevalentemente presso il cliente, e che nella maggior parte dei casi manda squadre di due addetti. Al di là che uno dei due diventi preposto di fatto per sicurezza e salute, c’è anche la questione altrettanto importante, che impatta sul cliente, di come eseguire l’intervento, anzi, all’inizio, di capire quale sia l’intervento giusto; e queste cose le capisce chi è sul campo, non chi è in ufficio a 3000 chilometri di distanza! Quindi è il soggetto che sul campo decide, quello che senza saperlo si fa carico dell’elenco che abbiamo posto all’inizio di questo articolo.
 
Dunque, di fronte a una situazione nuova, piena di potenziali pericoli per la sicurezza, per la continuità di produzione (del cliente), per l’ambiente, per la salvaguardia dei beni del cliente (macchine, impianti), per l’immagina della mia azienda, cosa posso fare? Non mi resta che decidere quale sia la serie di azioni da mettere in campo, tenendo conto di quanto, di tutto quanto appena detto; contemporaneamente. Non si tratta, invero, di fattori indipendenti; anzi sono fattori strettamente correlati fra loro, intrecciati in modo inestricabile.
 
Allora, quale è lo strumento che possiamo usare? La risposta ovvia: il cervello, il nostro cervello, quello con cui ci troviamo ad affrontare la situazione. Ma dobbiamo ricordare che il cervello opera sia in forma implicita (l’istinto) che esplicita. E l’istinto ci aiuta poco su problemi complessi e poco noti. Siamo costretti a ragionare esplicitamente, e per ragionare dobbiamo avere a disposizione i corretti strumenti. Quali sono?
 
Alla fine qualunque scelta effettuata sul lavoro, e non solo, è figlia di una sorta di valutazione costi/benefici, che nel nostro settore si chiama valutazione dei rischi. Non valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute, la valutazione dei rischi di cui parliamo riguarda tutti gli elementi precedentemente citati.
 
Quindi possiamo fare una equivalenza, almeno per le situazioni anomale e impreviste che si presentano nel mondo del lavoro: ragionare per decidere una azione (contromisura a fronte di un problema) = sviluppare un ragionamento di valutazione dei rischi.
 
Il problema generale è noto (l’impianto è fermo e non produce per un guasto), l’obiettivo è ovvio (rimettere in marcia l’impianto al più presto), la strada migliore risulterà quella che emergerà come tale dalla valutazione dei rischi.
 
Qui, al di là dei fattori di diligenza, ordine e disciplina che abbiamo citato prima applicati a situazioni determinate, esiste un altro aspetto che potremmo chiamare diligente applicazione dei metodi stabiliti e insegnati dalla azienda a coloro che possono trovarsi a fronteggiare certe situazioni. Qui la diligenza è davvero essenziale perché ragionare con superficialità, o non ragionare affatto, in certi casi può condurre a danni del tutto inimmaginati al momento della scelta.
 
Ora non vogliamo parlare di metodi per non appesantire, ribadiamo per l’ennesima volta che in ogni approccio alla valutazione del rischio i due fattori base sono la gravità dell’evento e la probabilità che l’evento si verifichi; poi a nostro avviso ogni metodo va bene.
 
Conclusione: il legame con la crisi
In un tempo di ricchezza, di risorse strabordanti rispetto alle necessità immediate, di scarsa o nulla capacità di comprendere quanto la situazione fosse gonfiata rispetto alla realtà vera ma nascosta, ci siamo lasciati andare ad un modo di affrontare i problemi quasi come se le risorse fossero infinite, se non nell’immediato almeno nel medio termine.
 
Evidentemente di fronte al cambiamento di scenario è necessario un forte cambiamento di rotta da parte di ogni azienda, se vuole sopravvivere. Le risorse si riducono, anche le persone spesso diminuiscono di numero. E con queste condizioni dobbiamo comunque non abbassare il livello di tutela dei fattori vitali per la sopravvivenza della azienda; salute e sicurezza sono solo uno di questi.
 
Contemporaneamente ci rendiamo conto che in questa società così mutata, dove già molto si è investito nell’ammodernamento degli assett industriali, questo prima della crisi, ovviamente, il fattore maggiormente da sviluppare è quello umano. Da errori involontari, da distrazioni talvolta giustificabili, da mancanza di competenza e dedizione, da pura e semplice mancanza di educazione emergono inefficienze, tensioni interpersonali ma anche gravi errori che possono portare danni corrispondenti.
 
Non credo che la situazione di necessità delle aziende, necessità di un forte contributo da parte dei collaboratori, sia così chiara. Ma possiamo affermare che se quello non ci sarà, vedremo ancora molti ma molti fallimenti. Ma non basta la buona volontà, servono quegli elementi che abbiamo cercato di evidenziare, sebbene l’elenco debba necessariamente considerarsi parziale.
 
Possiamo affermare che la crisi ha messo in evidenza uno scarso impegno (nei passati due decenni) da parte della società e delle aziende nello sviluppo delle risorse umane con riferimento al contesto lavorativo. Questo è un grosso handicap a cui le aziende devono rimediare rapidamente, quanto meno per le generazioni che oggi già lavorano.
Allo stato toccherebbe invece operare a favore dei giovani e dei giovanissimi destinati ad entrare nel mercato del lavoro industriale italiano nei prossimi decenni; se ci sarà quel mercato del lavoro!
 
 
 
Alessandro Mazzeranghi
 
 

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Rispondi Autore: Lino Paolini - likes: 0
30/09/2013 (18:21:08)
Alessandro hai scritto un articolo interessante ma, a mio modo di vedere, un pò pesante.

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