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Infortuni mortali: l’etica della responsabilità in una lettera al ministero

Infortuni mortali: l’etica della responsabilità in una lettera al ministero

Autore: Donato Eramo

Categoria: Cultura della sicurezza

29/06/2021

Riflessioni sugli infortuni mortali, sulle cause, sui dati e sulle carenze in materia di prevenzione. La necessità di un’etica della responsabilità individuale in una lettera aperta al Ministero del Lavoro. A cura di Donato Eramo.

 

Infortuni mortali: una continua sconfitta della “cultura della prevenzione” a livello nazionale. Una continua sconfitta della Politica. Una continua sconfitta del Ministero del Lavoro e degli altri Ministeri competenti in materia. Una continua sconfitta dei Datori di Lavoro, dei Dirigenti e dei Preposti. Una continua sconfitta degli specialisti di funzione come i Responsabili e gli Addetti al Servizio di Prevenzione e Protezione ed i Medici Competenti. Una continua sconfitta dei Sindacati e dei Rappresentanti dei Lavoratori della Sicurezza.  Una continua sconfitta di noi tutti.

 

Venerdì 23 aprile 2021, 7 Corriere della Sera, il giornalista Nicola Saldutti con il titolo “Luana, Andrea, Francesco...due caduti sul lavoro al giorno” scrive “Luana aveva 22 anni e un figlio, Andrea di anni ne aveva 37, Francesco 56, Davide 22, il fratello Francesco 25. Si continua a chiamarle morti bianche, parole inadatte a descrivere quello che accade a chi perde la vita mentre sta lavorando. Si continua a chiamarle bianche perché, come accade per le morti improvvise dei neonati, si fatica a individuare una responsabilità precisa che riesca a spiegarle….”. Domenica, 9 maggio 2021, la Repubblica, il giornalista Sergio Rizzo con il titolo “Mancano ispettori sulla sicurezza – Lavoro fuori sicurezza” scrive “Cinque morti sul lavoro in 24 ore, 185 in tre mesi: almeno due al giorno. La rabbia è tanta. E monta ancora più dando un’occhiata alle carte d’identità di alcuni di loro, Luana, stritolata a Prato da un macchinario tessile, aveva solo 22 anni….”.

 

Un periodico e frequente grido di allarme di un ennesimo “infortunio mortale” occorso ad un Lavoratore, che passa attraverso l’esaltazione del dolore da parte di Mass Media, della Politica, dei Ministeri competenti e dei Sindacati. Sempre lo stesso comunicato, le stesse dichiarazioni sui giornali e in televisione, in un ordinario rito di stupore di quanto accaduto, di presa di posizione, di indignazione, di proposte e di assicurazioni degli interventi. Indignazione come quella della “Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, con particolare riguardo al sistema della tutela della salute e delle sicurezza nei luoghi di lavoro” che, tramite il complesso delle audizioni e degli atti istruttori compiuti, aveva dimostrato come “la superficialità dei controlli, l’incuria e la trascuratezza della pubblica amministrazione insieme a lungaggini burocratiche e confusioni su competenze amministrative”, protrattesi per decenni, avevano aggravato gli effetti delle condizioni generali “in spregio a qualsiasi tutela dell’ambiente e della salute dei lavoratori ed il persistente gravissimo pericolo per la salute della popolazione che non può consentire dilazione alcuna da parte delle autorità competenti”.

Indignazione momentanea fino al nuovo “infortunio mortale” con gli stessi messaggi brevi, circostanziati, veloci, descritti nei minimi particolari, ma essenziali, possibilmente cruenti, per fare “notizia”, per arrivare primi sulla notizia stessa. Il giorno dopo raramente segue una breve notizia sull’”infortunio mortale” occorso. Si riprende invece sempre la stessa notizia dopo alcuni giorni se non il giorno dopo o solo quando accade un altro “infortunio mortale” magari più cruento e che va descritto possibilmente con altri dettagli più macabri ma con particolari modalità di accadimento, altrimenti si rischia che non interessi i lettori o gli ascoltatori. Il Tutto in un continuo seguire di “infortuni mortali” ed in un continuo addivenire in una sorta di cerchio dantesco della morte, come quella dei traditori, rappresentati egregiamente dalla Politica, dalle Istituzioni dello Stato e di tutti i cosiddetti “addetti ai lavori”. Vengono chiamati anche “Crimini sul lavoro”, gestiti con freddezza dalla consapevolezza di quanto accade ogni giorno (3 “infortuni mortali” ogni giorno per una media di 1.000 “infortuni mortali” anno) che hanno consentito alla dirigenza della Pubblica Amministrazione una assuefazione ed una forma continua di indifferenza, quasi ostentando in modo subdolo in disprezzo di tutti quei valori morali, religiosi, etici e sociali, per nascosti comportamenti chiaramente omicidi verso la “persona”, donna o uomo che possa essere.


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Sviluppare e mantenere nei lavorarori una efficace consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni.

 

Molti articoli su PUNTO SICURO hanno descritto con estrema efficacia questo doloroso e drammatico fenomeno degli “infortuni mortali”. Un articolo, in particolare, della redazione: “ Imparare dagli errori: le cause degli infortuni mortali in Italia”. Un articolo addirittura del 2014, dove precisi “dati”, messi a confronto con altrettanti dati di anni precedenti, indicano chiaramente quali fossero le situazioni, i fattori di rischio in gioco, i luoghi lavorativi, le modalità d’infortunio più consueti, le modalità riguardanti la classe d’età degli infortunati. Venivano infatti elencati dati, in particolare quelli riguardanti la classe compresa tra i 45 e i 54 anni (31%) con una presenza di “infortuni mortali” alta tra gli autonomi, i soci e i coadiuvanti familiari (32%). Dati che si soffermavano su tre aspetti essenziali del fenomeno infortunistico nel suo complesso:

  • dove avviene l’infortunio: “nel 38% dei casi si tratta di un sito industriale, nel 25% di un cantiere di costruzione e nel 22% di un luogo agricolo o forestale. All’interno di siti industriali, ben il 34% ha riguardato ambienti dedicati principalmente al magazzinaggio,  carico e scarico delle merci. Spostando l’attenzione sulle aziende di appartenenza, risulta che i settori produttivi più coinvolti, per effetto anche dell’alto numero di addetti, sono le costruzioni con il 33%, l’agricoltura con il 23%, l’industria dei metalli (9%) e i trasporti (8%)”;
  • come avviene l’infortunio: le  cadute dall’alto di lavoratori e quelle di massi sui lavoratori “descrivono oltre la metà degli eventi mortali”. Un dato che “si presenta costantemente anche nelle analisi degli anni precedenti”. Inoltre “analizzando le singole modalità di accadimento secondo il comparto dove sono avvenute, emerge che il 55% delle cadute dall’alto dell’infortunato è avvenuto in edilizia, il 9% in agricoltura - silvicoltura e il 5% nei trasporti. Le cadute dall’alto di gravi su lavoratori sono invece distribuite in maniera più eterogenea nei diversi settori di attività: al primo posto si registra l’industria dei metalli (21%) seguita dall’edilizia (17%) e dalle industrie della plastica e dei minerali e agricoltura, entrambe con una quota pari al 10% del complessivo. La terza modalità più frequente di incidente mortale presente in archivio, ovvero la perdita di controllo di veicoli/mezzi di trasporto (con deviazione dal percorso idoneo o ribaltamento), accade essenzialmente nel settore dell’agricoltura e della silvicoltura (74%)”. Se analizziamo l’”agente materiale dell’incidente” rilevato nella dinamica infortunistica, si può dire che per le cadute dall’alto degli infortunati “la categoria più numerosa è rappresentata dai tetti (31%), seguiti dalle attrezzature per il lavoro in quota (20%) e da altre parti in quota di edifici (12%). Nei casi di cadute dall’alto di gravi sui lavoratori, queste sono avvenute principalmente da muri e pareti di scavo per crolli o franamenti (21%) e da  tetti o coperture (21%). Non trascurabile la quota del 17% di cadute di oggetti da aree predisposte per lo stoccaggio di materiali. Negli infortuni riconducibili a perdite di controllo di veicoli/mezzi di trasporto (fuoriuscita percorso o ribaltamento), le  macchine agricole (trattori) sono i mezzi coinvolti in prevalenza (79%) (in questo caso, l’agente materiale è definito come ciò di cui si perde il controllo)”;
  • perché avviene l’infortunio: i 305 casi del 2012 evidenziano “448 fattori di rischio considerati determinanti dell’incidente, mediamente 1,5 per infortunio mortale, e 102 fattori indicati come modulatori” (che non influiscono sull’accadimento dell’incidente ma sulla gravità dei traumi subiti dai lavoratori). Tra i sei fattori di rischio che identificano i determinanti, “nel 46% dei casi si tratta di attività dell’infortunato” (modalità operative non idonee), seguite da problemi riguardanti l’Ambiente di lavoro (22%) e gli Utensili, macchine, impianti (18%). Quando è stato riscontrato come fattore di rischio l’Attività dell’infortunato, nell’83% dei casi è stato rilevato come problema di sicurezza un errore di procedura, nel 14% un uso improprio o errato di attrezzatura. Le cause di questi problemi di sicurezza son state individuate principalmente (51%) in ‘azioni estemporanee’, in pratiche abituali nell’azienda (22%) o in carenza di formazione, informazione o addestramento (17%). Le ‘azioni estemporanee’ in due infortuni su tre sono associate a problemi riscontrati su Utensili, macchine, impianti o in Ambienti di lavoro e spesso appaiono come un tentativo ‘istintivo’ del lavoratore di farvi fronte”. Se poi nella dinamica infortunistica sono coinvolti “utensili macchine, impianti”, l’analisi degli incidenti “rileva una quota molto elevata (76%) di determinanti caratterizzati da un problema di ‘assetto’, ovvero l’indagine ha evidenziato delle criticità preesistenti al verificarsi dell’evento” che, quindi, potevano essere individuate già in fase di valutazione dei rischi. In particolare, “il più frequente problema di sicurezza legato all’assetto delle macchine riguarda le protezioni, nel 48% dei casi assenti,  manomesse o inadeguate”.

I dati raccolti indicavano inoltre altri aspetti, come quello del fattore “Ambiente di lavoro”, dove i problemi di sicurezza più frequenti sono:

  • “nel 45% dei casi l’assenza di apprestamenti di sicurezza, percorsi attrezzati, segregazione di zone pericolose o illuminazione adeguata;
  • nel 31% degli eventi il cedimento o smottamento di strutture, muri, pareti di scavo. Rispetto agli anni precedenti, questa percentuale è sostanzialmente più elevata. Una parte di questo aumento è riconducibile anche agli eventi sismici succedutisi nel tempo che hanno interessato alcune aree del nostro paese nel corso di attività lavorative;
  • nel 17% dei casi la presenza di elementi pericolosi (elettricità, materiali sul percorso, spazi ristretti, liquidi su pavimento, gas, vapori)”.

 

Dati precisi, circostanziati e soprattutto reali, però completamenti ignorati dalla Politica e da tutti le Istituzioni dello Stato preposti al controllo, più in particolare dal Ministero del Lavoro e il relativamente nuovo Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) istituito nel 2015, statuto emanato nel 2016, iniziato ad operare il 1° Gennaio 2017, un “flop” tutto italiano fin dalla nascita perché si doveva muovere su due direttrici, entrambe rimaste lettera morta, riguardanti la semplificazione e la razionalizzazione delle attività di vigilanza e dove la creazione dell’INL era stato concepito come nuovo Ente preposto per una riscrittura anzitutto delle norme in materia ed una creazione di una rete di più soggetti coinvolti sotto un’unica regia, in linea con quanto accade nei Paesi europei più avanzati, in cui non esiste l’italiana frammentazione di competenze. Per non parlare del “raggruppamento” di tutti Funzionari dei Servizi Ispettivi, i cosiddetti Ispettori ed in particolare gli Ufficiali di Polizia Giudiziaria, in un unico Ente come l’INL, perché distribuiti inutilmente e nel tempo in molti Enti di controllo dello Stato (Ministero del Lavoro, INPS e INAIL): sostanzialmente doppioni in materia di controlli, sostanzialmente inutili. Progetto però sapientemente avversato da parte di tutti i Sindacati per presunta incompatibilità di ruolo tra il vecchio ed il nuovo proposto e della sostanziale differenza di retribuzione tra Enti della Pubblica Amministrazione acquisita nel tempo a parità di lavoro, come nel caso degli Ispettori dell'INAIL e dell'INPS che confluiscono nell’INL, ma conservano il rapporto di lavoro subordinato con i rispettivi enti di appartenenza, dai quali dipendono funzionalmente e per il trattamento economico-contrattuale. Un altro classico accordo tutto italiano fra Pubblica Amministrazione e Sindacati e il tutto ancora oggi sopito dall’indifferenza, nonostante il continuo e giornaliero accadimento di “infortuni mortali”.

 

I dati però non indicano “Chi” produce storicamente questi “infortuni mortali” e “Perché” continuano ad accadere. Si parla però sempre ed impropriamente del comportamento imprudente “solo” del Lavoratore, molto meno dei comportamenti imprudenti o l’indifferenza dei Datori di Lavoro, dei Dirigenti e dei Preposti. Non si parla del ruolo che devono avere i Sindacati e più in particolare i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) rispetto al contemporaneo ruolo di sindacalista che non cessa formalmente di esistere come richiesto dalla normativa, come anche del controllo delle “regolari” modalità per la loro elezione e formazione.

 

Dati dello studio comunque precisi e circostanziati che dovrebbero consentire alla Pubblica Amministrazione preposta al controllo (in particolare il citato Ispettorato Nazionale del Lavoro) e ove queste avessero cultura professionale e competenze all’altezza della situazione emergenziale tutta italiana, di predisporre “protocolli di controllo”, specifici, al fine di indirizzare, al meglio delle esperienze dirette sul campo, le ispezioni dei posti di lavoro da parte degli Ispettori, per individuare chiaramente i responsabili a qualsiasi livello e grado.

Da “infortunio mortale”, nel tempo, si è passati a chiamare le persone decedute durante e per causa del lavoro svolto “caduti del lavoro”. Locuzione frequentemente usata anche per strade e piazze d'Italia, per una sorta di lavaggio della propria coscienza e quella collettiva, per indicare in modo subdolo che la Pubblica Amministrazione si sta interessando dell’argomento, però senza tanto intervenire.

“Caduti del lavoro” non bastava perché il fenomeno infortunistico è stato chiamato anche “morti bianche”, dove l'uso dell'aggettivo "bianco" allude tristemente all'assenza di una mano direttamente responsabile dell'infortunio per eludere le responsabilità del singolo facilmente individuabile nella scala gerarchica. Nel settore dell'agricoltura, per distinguersi, si parla invece di “morti verdi come se fossero chiaramente differenti gli infortuni mortali agricoli da quelli dell’industria. Non solo, ma in senso critico ed enfatico, è stata utilizzata anche l’espressione “omicidi del lavoro”, per rimarcare le responsabilità (spesso mai accertate) dei sistemi di produzione delle economie industrializzate e la scarsa attenzione alla salute e alla sicurezza sul lavoro del sistema industriale, in particolare nel siderurgico e nell’agricolo. Naturalmente definizioni chiaramente pleonastiche per nascondere subdolamente le responsabilità individuali della Pubblica Amministrazione per renderle aprioristicamente ed intenzionalmente difficili da accertare secondo un semplice schema piramidale organizzativo previsto dal D.Lgs. 81/2008 partendo semplicemente dal Lavoratore, al quale è occorso un infortunio, una malattia professionale, un incidente, un infortunio mortale per risalire, con la dovuta certezza e serietà professionale alle eventuali responsabilità del Preposto, del Dirigente e del Datore di Lavoro questi comunque, per definizione normativa, titolare dell’azienda e principale responsabile in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

 

Cosa fare? Niente: purtroppo è l’attuale risposta.

 

Sembrerebbe però che Corsi di formazione ad hoc sull’ Etica della Responsabilità individuale” possano consentire una riduzione del fenomeno infortunistico nel suo complesso per i meccanismi di maggiore consapevolezza “individuale” che l’etica può dare ad una giusta priorità a queste severe tematiche direttamente alla singola “persona” rispetto ad altre priorità dettate dalle necessità operative e produttive.

 

Si potrebbe terminare con questa semplice proposta, ma per rendere accessibile “ai più” questo nobile concetto di etica, un interessante articolo può, a parere di chi scrive, indicare un possibile percorso informativo/formativo nel momento in cui l’articolo che segue tratta una distintiva figura professionale: il “medico”.

 

Il documento che segue è tratto da “ Introduzione all’etica medica” di Paola Premoli De Marchi (Accademia University Press, 2012).

 

 


 

“L’etica della professione e la responsabilità del medico”

 

Che cos’è l’etica della professione?

Potremmo definire l’etica della professione come quella parte dell’etica applicata che «ha per oggetto l’esperienza lavorativa e professionale dell’uomo», e precisamente che «tratta dei principi, delle finalità, delle virtù, delle norme che a vario titolo concernono tale esperienza.

 

In senso ampio, per professione si può intendere una generica attività lavorativa con la quale l’uomo offre una prestazione, dunque anche quelle più umili sono professioni. In un senso più ristretto, invece, per professione si fa riferimento a una attività lavorativa «altamente qualificata, esercitata da soggetti che hanno acquisito una competenza specialistica attraverso un lungo iter formativo e un tirocinio»di particolare rilevanza sociale. Sono così intese le «libere professioni», come quella dell’avvocato, del notaio, del medico.

 

Si può dare un’etica professionale sia nel primo significato, sia nel secondo significato del termine. È però chiaro che la professione del medico tocca il secondo e più specifico senso. Infatti, per iniziare a esercitarla è richiesto il tirocinio più lungo di ogni altra carriera professionale e la categoria dei medici si è data organi di autoorganizzazione e precisi codici di comportamento.

 

Un manager alcuni anni fa divenne il responsabile dell’area informatica di una delle più grandi aziende italiane. Il giorno in cui incontrò per la prima volta i cinquanta dirigenti che avrebbe avuto sotto di sé, fece loro un discorso che è una sintesi assai efficace di quella branca della filosofia morale che è l’etica della professione. Intendeva chiarire quali fossero le attese che egli aveva nei confronti dei dirigenti che aveva di fronte e di coloro che da cui quelli dipendevano, circa tremila persone. A tale scopo, riassunse le sue richieste in cinque punti. Egli chiedeva ai suoi dirigenti: (1) responsabilità personale, (2) disponibilità a condividere gli obiettivi dell’azienda, (3) trasparenza nei rapporti, (4) capacità di lavorare in squadra, (5) competenza professionale. Si tratta di concetti abbastanza diffusi nell’ambito dell’organizzazione aziendale, ma che possono essere utilizzati anche per presentare gli ambiti principali dell’etica della professione.

 

Porre la responsabilità personale al primo posto significa che essa ha un ruolo fondamentale rispetto a tutta l’etica della professione. Si può dire che una buona prospettiva per inquadrare tale etica è proprio quella di vederla come etica della responsabilità, sia a causa del valore sociale che ogni professione comporta, sia perché il buon professionista è colui che si assume le responsabilità di ciò che fa.

 

La disponibilità a condividere gli obiettivi dell’azienda può essere intesa più in generale come il riferimento a ogni ambito nel quale il proprio agire professionale riguarda la collettività. Riguarda, dunque, il rispetto delle norme e delle consuetudini dell’azienda o dell’istituzione in cui si è stati assunti, ma anche tutto ciò che in un’ottica più ampia riguarda il bene comune e la giustizia: l’adesione alla legislazione inerente la professione, la distribuzione delle risorse connesse alla propria professione, l’attenzione all’ambiente. Per il medico tutto ciò assume una rilevanza particolare dovuta al ruolo sociale peculiare della sua professione, già più volte citato.

 

Indicare la trasparenza nei rapporti come requisito dell’etica della professione è un modo efficace di esprimere l’importanza cruciale, in ogni attività lavorativa, della correttezza nei rapporti interpersonali. Questo terzo aspetto dell’etica della professione riguarda tutti i tipi di relazione, dunque per il medico comprende le relazioni col paziente e con i suoi familiari, con i colleghi, con il primario e i superiori in generale, con gli altri professionisti della sanità, ecc.

 

La capacità di lavorare in squadra, al centro di molti degli studi di gestione aziendale e oggi di gran moda, ha anche una rilevanza morale. Se, infatti, il lavoro in gruppo è condizione dell’efficacia dell’attività di quasi tutte le professioni – e in quella medica ciò emerge con la massima evidenza –, esso assume un valore che non è solo strettamente tecnico, ma è anche etico.

 

Ultimo aspetto dell’etica della professione è la competenza professionale. Pur essendo una condizione necessaria, ineludibile, per il buon professionista, è collocato all’ultimo posto per mettere in guardia dal rischio di considerare la conoscenza della teoria come una condizione sufficiente per essere un buon professionista. L’etica della professione copre un ambito molto più ampio della semplice competenza professionale. Qualche tempo fa ho udito un buon medico di base commentare che i giovani medici sanno tutto su malattie che hanno un’incidenza di un caso ogni 100.000 persone, ma non hanno idea di come comunicare a un paziente una prognosi infausta. In questo esempio è evidente la sproporzione tra la mera conoscenza teorica e quella formazione professionale ed etica complessiva che permette di distinguere tra il semplice laureato in medicina e il bravo medico.

 

L’etica della professione come etica della responsabilità

Si è scelto di presentare l’etica della professione alla luce del concetto di responsabilità perché esso evoca immediatamente la dimensione etica delle attività professionali. Spesso affermare che qualcuno non ha alcun principio di etica professionale non significa altro che dire che lavora in modo irresponsabile. Pensiamo all’avvocato senza scrupoli che attizza le contese per mantenersi i clienti; al manager che è disposto a danneggiare gli avversari con ogni mezzo per fare carriera, all’impiegato che non si assume la responsabilità di ciò che fa e scarica sugli altri gli effetti della propria negligenza, ecc.

 

È evidente che la professione medica implica la responsabilità in un senso particolarissimo. Nel Codice di deontologia medica, l’art. 1, per esempio recita:

 

  • Art. 1 – […] Il comportamento del medico, anche al di fuori dell’esercizio della professione, deve essere consono al decoro e alla dignità della stessa, in armonia con i principi di solidarietà, umanità e impegno civile che la ispirano.

 

Nell’art. 4, si aggiunge:

 

  • Art. 4 Libertà e indipendenza della professione – L’esercizio della medicina è fondato sulla libertà e sull’indipendenza della professione, che costituiscono diritto inalienabile del medico. Il medico nell’esercizio della professione deve attenersi alle conoscenze scientifiche e ispirarsi ai valori etici della professione, assumendo come principio il rispetto della vita, della salute fisica e psichica, della libertà e della dignità della persona; non deve soggiacere e interessi, imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura. Il medico deve operare al fine di salvaguardare l’autonomia professionale e segnalare all’Ordine ogni iniziativa tendente a imporgli comporta-menti non conformi alla deontologia professionale.

 

Fanno riferimento alla responsabilità anche l’art. 7, sul divieto di abusare del proprio ruolo professionale; l’art. 13 sulla responsabilità nelle decisioni diagnostiche e terapeutiche; l’art. 23 sull’obbligo di assicurare la continuità delle cure e l’art. 32 sull’obbligo di assistenza del minore, del disabile e dell’anziano.

 

Max Weber: etica della convinzione ed etica della responsabilità

Uno dei dibattiti più accesi tra i filosofi morali ha le sue radici nella distinzione tra etica della convinzione (o dell’intenzione) ed etica della responsabilità, così come fu enunciata dal sociologo, economista e filosofo tedesco Max Weber (Erfurt, 1865 -Monaco, 1921) in una conferenza del 1919. Secondo Weber queste espressioni indicano due atteggiamenti radicalmente diversi rispetto alla sfera morale che conducono a un modo di relazionarsi al mondo e alla politica del tutto divergente.

 

L’etica della convinzione corrisponde all’atteggiamento di colui che valuta le azioni in base al loro significato intrinseco, dunque al loro valore in sé. Nella sua forma più estrema, considera ogni azione come un assoluto, a prescindere dal suo impatto nel mondo e dal suo successo: tale posizione conduce al rifiuto di considerare le circostanze e le conseguenze dell’azione, così come la relazione tra mezzi e fini. Poiché chi agisce in questa prospettiva si propone di rispettare un dovere e non di produrre uno scopo, tale posizione rischia di essere un’etica della testimonianza, un’etica, cioè, che non ha alcun interesse a cambiare il mondo, ma ha come unica preoccupazione quella di garantire la coerenza dell’azione con i principi. Weber ritrova questa impostazione in molte etiche di origine religiosa, così come nelle interpretazioni radicali del pacifismo e del socialismo rivoluzionario.

 

L’etica della responsabilità, invece, secondo Weber corrisponde all’atteggiamento di colui che vuole trasformare il mondo, e di conseguenza nel suo agire è preoccupato dell’impatto che ciò che fa avrà: il senso di responsabilità spinge a prendere in considerazione la totalità delle prevedibili conseguenze e a scegliere in funzione delle migliori. Chi opera in questa prospettiva ritiene che il valore di un’azione vada cercato fondamentalmente non nell’azione in sé, ma nei suoi risultati. Problema cruciale di questo atteggiamento è però quello di stabilire fino a che punto un mezzo si giustifica solo in funzione dello scopo che deve raggiungere, soprattutto quando il mezzo è un’azione riprovevole. Weber cita come esempi dell’etica della responsabilità il tipo del politico realista, che adatta le proprie scelte al contesto in cui opera, e il personaggio del Grande Inquisitore del romanzo di Dostoevskij, i Fratelli Karamazov, che di fronte alla scelta tra la fedeltà a un ideale e la rinuncia a esso per evitare le conseguenze negative che la coerenza avrebbe prodotto, sceglie la seconda possibilità e tradisce l’ideale.

 

Weber pensava che, in un’ottica ideale, le due prospettive dell’etica della convinzione e dell’etica della responsabilità dovessero combinarsi, ma nella realtà tale conciliazione fosse quasi impossibile. Secondo Weber, infatti, l’etica dell’intenzione necessita di un fondamento ultraterreno, di un Dio che garantisca l’ordine di giustizia e il premio dopo la morte. Ma se il mondo dimentica Dio, gli resta solo l’etica della responsabilità.

 

Il dibattito più recente ha seguito la direzione della contrapposizione radicale tra queste due prospettive. L’etica della convinzione è stata ricondotta all’etica del dovere di impronta kantiana (deontologia), mentre quella della responsabilità è stata letta in prospettiva utilitaristica. Il filosofo tedesco Spaemann ha però obiettato che porre la questione in questo modo dicotomico è del tutto astratto: nessuna etica prescinde del tutto dalle conseguenze di un’azione, perché per sua natura ogni azione ha degli effetti, e non è possibile neppure definire l’oggetto dell’azione senza tenerne conto5. D’altra parte, per valutare le azioni è anche necessario avere dei principi, almeno alcuni dei quali devono essere assoluti, punti fermi validi in ogni circostanza, inderogabili indisponibili. La struttura delle azioni umane, insomma, richiede che la valutazione morale sia una combinazione dei requisiti dell’etica della responsabilità con quelli dell’etica della convinzione.

 

I cinque aspetti della responsabilità morale

Se riflettiamo sul concetto di responsabilità, possiamo vedere che esso è assai più complesso della descrizione data da Weber, che sembra identificare la responsabilità con il calcolo delle conseguenze. L’uso del termine implica, infatti, il riferimento a diversi elementi.

 

Può essere utile ricorrere a un esempio, tratto dal film Scuola d’onore, del 1992. Il film narra di un gruppo di studenti di un prestigioso college americano, alle soglie del passaggio all’università. Gli studenti devono affrontare gli esami finali, dai quali dipende il loro futuro. Quello di storia incide per il trenta per cento sul risultato complessivo. Secondo il regolamento del college, prima di iniziare lo scritto, gli studenti devono firmare un documento con il quale si impegnano, sul loro onore, a non copiare, ma anche a denunciare i compagni che lo fanno, pena l’espulsione dal college. Inizia l’esame e il professore esce dall’aula. Uno degli studenti, il rampollo viziato di una ricca e influente famiglia, di nome Dillon, tiene nascosto in mano un pezzo di carta con alcuni appunti e lo consulta per rispondere alle domande. Due compagni lo vedono. Al termine dell’esame, nel lasciare l’aula, Dillon perde il foglietto. Il professore lo trova, ma non può risalire al suo autore perché è scritto in stampatello. Allora convoca tutta la classe e comunica di avere la prova che uno di loro ha copiato. Poiché tutti hanno sottoscritto l’impegno d’onore, aggiunge il docente, o il responsabile si autodenuncia, o tutta la classe verrà bocciata. Greene, uno dei due testimoni, va a parlare con Dillon chiedendogli di non far pagare a tutti la sua azione, ma questi si rifiuta, anzi, non appena si trova con i compagni, accusa lo stesso Greene di essere il colpevole. Il regolamento della scuola lascia agli studenti la facoltà di scegliere se lasciare la decisione al collegio dei docenti, o se invece giudicare tra loro la questione, e comunicare il verdetto al preside. Greene e Dillon accettano di farsi giudicare dai compagni, impegnandosi a sottoscrivere il loro verdetto. Nella votazione è indicato come colpevole Greene. Fedele alla parola data ai compagni, questi va ad autodenunciarsi, accettando così di assumersi la responsabilità di qualcosa che non ha commesso. Tralasciamo il finale del film per non togliere il piacere di vederlo al lettore che fosse interessato. Quanto abbiamo raccontato, infatti, è sufficiente per il nostro scopo. Pur trattandosi di una storia di fantasia, essa mette in luce assai bene i cinque aspetti essenziali della responsabilità morale.

 

In primo luogo, la responsabilità indica il riferimento a un soggetto libero che è la causa di un’azione. In questo senso, la responsabilità deriva direttamente dalla libertà, dall’autonomia intesa come capacità di autodeterminazione, coincide con l’»imputabilità» dell’azione e dunque si stabilisce in base alla valutazione dell’intenzione; il primo compito che gli studenti dell’esempio devono assolvere per salvarsi dalla bocciatura è individuare chi ha copiato. La responsabilità significa in primo luogo assegnare un’azione al suo autore, come in un titolo di giornale che dicesse: «muore neonato durante un cesareo, si cerca di stabilire la responsabilità del chirurgo e dell’anestesista».

 

In secondo luogo, la responsabilità indica il riferimento a degli effetti moralmente rilevanti di un’azione, che come tali meritano un premio o una punizione, come il risarcimento di un danno, o una promozione. La responsabilità in questo senso si stabilisce in base alla valutazione delle conseguenze dell’azione: nell’esempio del film, chi ha copiato si è macchiato di slealtà e mancanza alla parola data, dunque deve pagare con l’espulsione dalla scuola, altrimenti dovranno pagare anche i compagni con la bocciatura all’esame, per salvare l’onore della scuola. Oppure se, nell’esempio dell’articolo di giornale, si affermasse che «il chirurgo è stato ritenuto responsabile dei danni derivati dall’intervento da lui compiuto».

 

In terzo luogo, la responsabilità può indicare il riferimento a degli impegni presi. Per esempio, se prometto qualcosa a qualcuno, ciò significa che da ora in poi sono responsabile di adempiere ciò che ho promesso, o se mi offro di accompagnare degli amici con la mia auto, divento responsabile della loro incolumità. La responsabilità in questo senso si stabilisce in base alla valutazione della presenza di obblighi formali: nell’esempio del film, questo aspetto della responsabilità emerge sia negli effetti della sottoscrizione dell’impegno d’onore da parte degli studenti, sia nella promessa fatta da Greene e da Dillon di accettare il giudizio dei compagni, qualunque esso sia; in ambito medico, siamo in questo caso se si afferma che «il medico è stato accusato di omissione di soccorso».

 

Inoltre, la responsabilità include il riferimento a qualcuno rispetto al quale devo rendere conto di ciò che ho fatto. La responsabilità implica dunque un elemento di risposta che si deve dare a qualcuno, un aspetto intersoggettivo: nell’esempio del film, i ragazzi devono rispondere al professore e alla scuola di aver copiato o coperto il colpevole, ma anche il colpevole è chiamato a rispondere ai compagni delle sue azioni, cosa che Dillon rifiuta di fare. In ambito medico, questo senso di responsabilità emerge se si afferma che «il primario ha convocato il personale del reparto per chiedere conto della loro mancanza di puntualità».

 

Infine, la responsabilità fa riferimento alla consapevolezza e insieme alla presa di posizione soggettiva rispetto alle proprie responsabilità. A ciò si riferisce l’espressione «assumersi la responsabilità», come emerge chiaramente nel momento in cui Greene accetta di autodenunciarsi (e si assume la responsabilità di qualcosa che non ha fatto per non mancare alla promessa fatta), oppure se affermiamo che «il medico ha riconosciuto di aver sbagliato la diagnosi e si è scusato col paziente».

 

I cinque elementi appena elencati si presentano in ogni forma di responsabilità morale, ma anche alla responsabilità giuridica, e rivelano che nella responsabilità entrano aspetti oggettivi, indicati nei primi tre punti dell’elenco, aspetti intersoggettivi, indicati dal quarto, e aspetti soggettivi, presenti nel quinto punto dell’elenco. Se lasciamo da parte la questione della responsabilità giuridica e ci limitiamo alla sfera più specificamente morale, l’analisi degli elementi che convergono nella nozione di responsabilità serve anche a comprendere il legame tra l’azione e il suo peso morale.

 

Le azioni moralmente rilevanti si presentano all’esperienza come degne di lode e biasimo, meritevoli di premio o di punizione: ciò significa che il loro impatto nel mondo non è irrilevante. Il fatto che le azioni abbiano un «peso» morale è un’obiezione importante a coloro che negano di poter dare contenuto sostanziale al bene, e limitano la morale a un’etica pubblica frutto di convenzione e a un’etica privata abbandonata alle preferenze soggettive dei singoli. Questa posizione impone di considerare i propri valori più profondi come decisioni neutrali che riguardano procedure prive di contenuto valoriale. Ma ciò non è vero né dal punto di vista soggettivo, perché i valori che sono criterio delle nostre scelte per noi non hanno una valenza neutrale, né dal punto di vista oggettivo, perché le scelte in ambiti moralmente rilevanti, come in ambito medico o educativo, hanno un impatto assai grave sulla cultura, la mentalità, le norme giuridiche della società. Il fatto che le nostre azioni abbiano un peso morale si esprime proprio con il concetto di responsabilità.

 

Responsabilità individuale e responsabilità collettiva

Una questione assai importante per l’etica della professione è se si possa parlare e in che misura, di responsabilità collettiva. È chiaro che se una banda di teppisti distrugge un locale, la responsabilità riguarda un gruppo di persone, ma anche dal punto di vista giuridico i teppisti dovranno rispondere di ciò che hanno fatto individualmente. In questo esempio la responsabilità collettiva è semplicemente la somma delle responsabilità individuali.

 

Si consideri però il caso in cui una comunità o un popolo abbiano compiuto atti di ingiustizia in passato, per esempio abbiano decimato una minoranza etnica, confiscando i loro beni, e dopo decenni dalla morte degli effettivi responsabili, ancora nessuno abbia risarcito le vittime. Pur essendo scomparsi gli autori delle ingiustizie, non si può affermare che nessuno sia più responsabile di riparare ai danni. Dal punto di vista morale, in casi come questo i membri della comunità alla quale i responsabili appartenevano sono chiamati ad assumersi la responsabilità oggettiva di ciò che hanno compiuto coloro che li hanno preceduti, anche se non sono soggettivamente responsabili delle ingiustizie. Ciò può essere applicato anche alle comunità scientifiche, per esempio riguardo al dovere di riparare ai danni fatti da chi ci ha preceduto, anche se non si è gli autori di tali danni, oppure alle strutture, come un ospedale, in cui le prestazioni professionali sono offerte dalla cooperazione di molte persone. Qui la responsabilità assume di frequente l’azione della corresponsabilità. È importante imparare a cogliere anche questa dimensione della propria responsabilità professionale che, ancora una volta, è morale ancora prima che legale.

 

L’etica delle responsabilità per le biotecnologie

Il filosofo tedesco Hans Jonas ha studiato la questione della responsabilità morale nelle sue applicazioni in campo biomedico, diventando uno dei rappresentanti più autorevoli dell’etica della responsabilità, esposta soprattutto a partire dalla pubblicazione del libro Il principio responsabilità (1979). A Jonas va il merito di aver messo in luce come l’ambito delle biotecnologie presenti delle forme peculiari di responsabilità per le conseguenze delle azioni. Gli interventi che esse rendono possibili possono infatti avere delle conseguenze a lungo termine e di portata globale tale quale non si è mai data in altre forme dell’agire umano, come per esempio la possibilità di influenzare l’identità genetica delle generazioni future e l’ecosistema nel suo complesso.

 

L’ambito della bioetica è evidentemente collegato tanto al bene dei singoli quanto al bene della società. Jonas ha osservato che la tecnologia non solo offre nuove possibilità di scelta, bensì cambia il modo in cui percepiamo la vita. Senza un’idea del bene individuale e sociale, la scienza può essere spinta a prendere in mano le redini della società, ma non ha le categorie per fare questo. È dunque necessaria una presa di coscienza dell’impatto culturale che le decisioni economiche, scientifiche e tecniche possono avere sulla società, per affidare a una seria riflessione filosofica le conseguenze etiche che tali ambiti dell’agire umano possono avere.

 

Lo sviluppo scientifico e tecnico ha aumentato sempre più la distanza tra l’uomo che agisce e le conseguenze delle sue azioni: ciò aumenta anche l’incertezza riguardo alla valutazione di tali conseguenze e dunque la prudenza richiesta. Sempre più l’umanità corre il rischio, secondo Jonas, di «segare il tronco sul quale sta seduta». Egli guardava con preoccupazione al pericolo che la crescente specializzazione in ambito scientifico e tecnologico potesse condurre a una diminuzione della percezione della responsabilità individuale. Tale rischio stava a suo avviso emergendo nella tendenza a delegare la responsabilità ai vari codici di deontologia professionale, e quindi alla crescente insensibilità dei ricercatori di fronte all’assunzione di responsabilità per le proprie azioni. Questo è un pericolo che minaccia anche la categoria dei medici, e dunque va tenuto presente nella valutazione delle proprie responsabilità professionali”.

 

 


 

La conclusione che si può dare riguarda quindi una consapevole possibilità di mobilitare la coscienza della “singola” persona, nella speranza che ciascun singolo individuo, e a maggior ragione un leader a livello nazionale, possa influenzare la coscienza individuale e collettiva per dare un concreto contributo al possibile obiettivo circa un continuo controllo, una continua mobilitazione e protesta da parte di tutti gli “addetti ai lavoro” per una drastica riduzione degli “infortuni mortali”, non trascurando un possibile obiettivo riguardante un auspicabile loro abbattimento.

 

 

 

Donato ERAMO

Aviation Safety Engineer già Director Occupational Safety ALITALIA Group

 


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