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Dopo il lavoro a domicilio

Dopo il lavoro a domicilio
Antonio Zuliani

Autore: Antonio Zuliani

Categoria: Coronavirus-Covid19

05/11/2020

Tra qualche mese saremo nelle condizioni di decidere se continuare o interrompere questa esperienza di smart working: è il momento per riflettere e per prepararsi al domani. Di Antonio Zuliani e Wilma Dalsaso.

In questi giorni di novembre 2020 si sta incrementando il lavoro a domicilio: decisione ineccepibile per contrastare gli effetti dalla pandemia, ma questo è anche il momento per riflettere e per prepararsi al domani. Quando tra qualche mese, con la fine della pandemia, si presenterà l’occasione di decidere se continuare o meno con il lavoro da casa.

 

Smart e home working

Riteniamo che occorra però fare chiarezza su un aspetto: la forma di lavoro di cui stiamo parlando cos’è?

 

Se leggiamo con attenzione cosa dice l’Osservatorio Digital Innovation della Scool of Management del Politecnico di Milano vediamo che definisce lo smart working come “una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”. Lo stesso Ministero del Lavoro ne parla come di “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, stabilita mediante un accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”.

 

Strano paese il nostro, non solo appiccichiamo termini inglesi a ogni cosa possibile, ma lo facciamo spesso nel modo sbagliato. Certo è molto più bello e romantico chiamare il lavoro da casa “smart” o “lavoro agile”, ma farlo non cambia la realtà, la realtà di un lavoro da casa che, non solo è poco “smart”, ma è anche poco regolamentato dalle leggi e dai contratti di lavoro, che si è avviato per necessità (la pandemia) senza la necessaria preparazione organizzativa e culturale.

 

Proprio nella logica che perseguiamo nel nostro lavoro, vediamo cosa possiamo imparare dall‘esperienza attuale e come prepararci al futuro. Pur assodato che continuiamo a chiamare smart working quello che non lo è, le riflessioni seguenti rimangono attuali.

 

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Il rientro

Come accennato all’inizio, tra qualche mese saremo nelle condizioni di decidere se continuare o interrompere questa esperienza di home working. Proponiamo alcune considerazioni di natura psicologica che sembrano utili sia che la decisione sia quella di programmare il rientro di tutti i lavoratori, sia che si opti per mantenere comunque un’aliquota degli stessi con forme di lavoro misto (alcuni giorni a casa e alcuni in sede aziendale).

 

La ricomposizione del gruppo

Il tema sul quale riflettere e sul quale lavorare già da adesso riguarda la ricomposizione del gruppo di lavoro. Inizialmente la cosa potrà trovare un assenso di massima perché, occorre ricordarlo, il lavoro a domicilio così come spesso si è stati costretti a organizzarlo, causa pandemia, ha presentato per molti difficoltà non da poco. Ma, richiamare al lavoro in sede i dipendenti non significa automaticamente ricomporre il gruppo. Per questo motivo riteniamo sia indispensabile riflettere già da ora quali difficoltà relazionali potranno determinarsi, proprio in ragione dell’esperienza vissuta durante la pandemia.

 

Non dimentichiamo che per tutto il tempo nel quale il dipendente ha lavorato a casa sono necessariamente venuti a mancare tutti i piccoli segnali e rituali che caratterizzano ogni singolo gruppo di lavoro. Dal caffè, agli aspetti relazionali che scandiscono ogni incontro, dai più informali a quelli ritualizzati. Questa lunga separazione non solo ha interrotto le forme di questi legami (e spesso alcune di queste forme sono anche sostanza), ma farà reincontrare persone che hanno vissuto esperienze che possono aver determinato degli stati emotivi che hanno inciso nella vita di ognuno e che si riverseranno sul ritrovato gruppo.

 

Vediamone alcuni

Il perdurare per lungo tempo dell’incertezza determinata dalle fasi della pandemia può portare a reazioni personali atte a controllare in qualche modo la sofferenza emotiva e cognitiva legata all’incertezza stessa. L’iniziare a dare credibilità a interpretazioni che comunque danno una visione “certa” a quello che sta accadendo è una tendenza cognitiva nota, il che fa presupporre che in questa fase di estrema incertezza molte persone possono aderire a visioni diverse che acuiscono le diversità e accrescono la possibilità di conflitto quando queste si riuniscono.

 

Aver vissuto esperienze drammatiche come la malattia o la perdita per essa di persone care. Ma anche solo la preoccupazione per la salute o anche per il futuro economico dei propri cari può creare in ciascuno un vissuto emotivo atto a modificare il suo modo di rapportarsi con gli altri. È ben vero che si tratta di esperienze che possono accadere nel corso della vita di ciascuno; ma in questa fase si sono certamente acuite e per di più ogni persona le ha vissute più sul versante personale che all’interno di una fondamentale elaborazione collettiva. Ben sappiamo (Zuliani, 2007) come l’elaborazione di ogni evento drammatico diminuisca la possibilità che lo stesso determini un trauma psicologico sia nella persona che lo ha vissuto sia nella collettività.

 

Accanto a questi aspetti legati al rapporto personale con la pandemia, ve ne sono altri maggiormente connessi al funzionamento del gruppo stesso. Ogni gruppo di lavoro vive, inevitabilmente, dei momenti di incomprensione e di tensione tra i suoi membri. Si tratta di piccole tensioni e incomprensioni quotidiane che siamo soliti sperimentare con le persone che ci circondano, ma che ogni gruppo ha imparato a gestire anche attraverso piccoli gesti e segali non verbali. Nella protratta situazione di lavoro a domicilio c’è la fondata possibilità che proprio tutti questi delicati meccanismi di compensazione e di alleggerimento delle tensioni interne siano venuti meno, proprio perché hanno spesso ragion d’essere all’interno di relazioni vissute in presenza. Occorre quindi prendere in considerazione la possibilità che tante difficoltà che si incontrano sempre nel corso di un lavoro non abbiano avuto la possibilità di essere risolte. Le stesse possono, quindi, entrare all’interno di una sorta di escalation di incomprensione prima e di aggressività dopo, che rischiano di scaricarsi nel momento della ricomposizione del gruppo.

 

Come ovviare a tutto ciò? Queste difficoltà e tensioni possono essere risolte con il mezzo che più utilizziamo oggi per rapportarci con gli altri: la videoconferenza? Forse sì, ma anche attorno a questa possibilità occorre sviluppare una cultura di gruppo e organizzativa da curare fin dalle prossime settimane.

 

Qualche suggerimento

Le problematiche affrontate mostrano come siano da prevedere interventi a favore sia del singolo lavoratore sia del gruppo di lavoro e della sua riorganizzazione. In questo articolo ci soffermiamo sul primo punto, riservandoci una riflessione più approfondita sul tema del gruppo di lavoro nel prossimo numero di PdE.

 

Proviamo ad analizzare alcune attenzioni che possono essere attivate anche in questa situazione determinata dal lavoro a domicilio.

 

In primo luogo è indispensabile che il dirigente e il proposto conoscano i vissuti e i problemi che stanno affrontano i collaboratori che lavorano a casa. Le loro preoccupazioni, che possono riguardare come abbiamo detto anche aspetti extralavorativi. Vissuti che evolvono nel tempo anche in relazione al mutare dei vissuti sociali in merito. Il prefigurasi dell’attuale riacutizzarsi della pandemia, a titolo di esempio, non segnala solo un problema sanitario, ma anche l’aggravarsi di un senso di insicurezza verso il futuro che era stato precedentemente edulcorato con slogan del tipo “tutto tornerà come prima” o “ce la faremo”.

 

Questa attenzione comporta la scelta di dedicare del tempo all’ascolto delle problematiche espresse dai collaboratori. È ben vero che spesso non si hanno risposte dirette, ma il fatto di sentirsi ascoltati fornisce un senso di fiducia di inestimabile valore. Queste due prime riflessioni suggeriscono l’opportunità di pensare sulla necessità di introdurre anche in Italia la figura del “peer supporter”. Si tratta di un lavoratore che, a seguito di uno specifico percorso formativo, è in grado di prestare un supporto psicosociale ai colleghi che stanno vivendo una situazione di difficoltà nell’ambito lavorativo (Zuliani e De Marzi, 2006; Zuliani, 2011).

 

La terza attenzione è quella di costituire delle occasioni di incontro anche informale con i collaboratori, pur nel rispetto delle misure di sicurezza. Anche se esperienze limitate e parziali, possono comunque servire per mantenere anche il senso di quella presenza fisica fondamentale nella determinazione delle relazioni.

 

Detto questo, sarà indispensabile programmare con attenzione le fasi del rientro predisponendo un progetto articolato all’interno del quale riteniamo sia indispensabile la collaborazione di uno psicologo.

 

 

Antonio Zuliani e Wilma Dalsaso

 

 

Fonte: PDE, n. 58




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