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Responsabilità dell’Ente: nessuna inversione dell’onere della prova
Le motivazioni della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione sul caso Thyssenkrupp (Cass. Pen., Sez. Un., 18 settembre 2014 n. 38343) contengono anche un capitolo dedicato al D.Lgs.231/01, che è di grande interesse - anche al di fuori del riferimento al caso specifico dello stabilimento torinese - per i chiarimenti che fornisce in ordine all’onere della prova nel procedimento per la responsabilità amministrativa dell’azienda e alle caratteristiche che deve avere la prova liberatoria fornita dall’azienda.
Modelli organizzativi e colpa di organizzazione
La sentenza inquadra così il collegamento tra modelli organizzativi e colpa di organizzazione: “il legislatore, orientato dalla consapevolezza delle connotazioni criminologiche degli illeciti ispirati da organizzazioni complesse, ha inteso imporre a tali organismi l’obbligo [1] di adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione di alcuni reati, adottando iniziative di carattere organizzativo e gestionale.”
In particolare, chiarisce la Corte, “tali accorgimenti vanno consacrati in un documento, un modello che individua i rischi e delinea la misure atte a contrastarli”: il modello di organizzazione, gestione e controllo (artt. 6 e 7 D.Lgs.231/01; art. 30 D.Lgs.81/08). Il “non aver ottemperato a tale obbligo fonda il rimprovero, la colpa d’organizzazione.”
L’onere della prova
E, prosegue la Cassazione, “al riguardo, peraltro, non si configura un’inversione dell’onere della prova.”
Infatti “nessuna inversione dell’onere della prova è, pertanto, ravvisabile nella disciplina che regola la responsabilità da reato dell’ente, gravando comunque sull’accusa la dimostrazione della commissione del reato da parte di persona che rivesta una delle qualità di cui al d.lgs.n.231, art.5, e la carente regolamentazione interna dell’ente, che ha ampia facoltà di offrire prova liberatoria.”
L’azienda ha infatti la possibilità di fornire una prova atta a liberarla dalla responsabilità amministrativa: come ricorda la Cassazione, “militano a favore dell’ente, con effetti liberatori, le previsioni probatorie di segno contrario di cui al d.lgs. n. 231, art. 6, afferenti alla dimostrazione di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi.”
Questa impostazione, che individua una convergenza tra l’onere della prova legato alla commissione del reato da parte della persona fisica e l’onere della prova in ordine alla“carente regolamentazione interna dell’ente”, deriva da quella che la Cassazione chiama “convergenza di responsabilità” che è riscontrabile tra la responsabilità della persona fisica, che consegue alla commissione di un fatto-reato, e quella della persona giuridica secondo il sistema delineato dal decreto 231/01.
E tale “convergenza di responsabilità” sussiste in quanto“il fatto della persona fisica, cui è riconnessa la responsabilità anche della persona giuridica, deve essere considerato “fatto” di entrambe, per entrambe antigiuridico e colpevole, con l’effetto che l’assoggettamento a sanzione sia della persona fisica che di quella giuridica s’inquadra nel paradigma penalistico della responsabilità concorsuale.”
Infatti anche se “la responsabilità dell’ente ha una sua autonomia”, tuttavia “è imprescindibile il suo collegamento alla oggettiva realizzazione del reato […] da parte di un soggetto fisico qualificato [2]”.
La mancata adozione del modello organizzativo da parte della Thyssen e l’inadeguata composizione del suo Organismo di Vigilanza
Nel caso della Thyssen, uno degli elementi principali da cui la Cassazione (come già in precedenza la Corte d’Assise di Torino e la Corte d’Assise d’Appello) ha dedotto l’inidoneità del modello organizzativo adottato dopo il reato è stato l’inserimento dell’ RSPP e dirigente del settore ecologia, ambiente e sicurezza nell’Organismo di Vigilanza, il quale Organismo, come noto, deve essere dotato secondo la legge di “autonomi poteri di iniziativa e controllo”.
Secondo la Suprema Corte, infatti, “il modello organizzativo non è stato mai efficacemente adottato, per via dell’inidoneità dell’ing. Ca. a svolgere il ruolo critico previsto dalla legge”.
Inoltre, in risposta alle argomentazioni addotte dall’azienda nel ricorso, la Cassazione precisa che anche “le innovazioni normative in ordine alla composizione del’ODV” subentrate nel tempo “non mettono in crisi la primaria istanza di indipendenza dell’organo.”
Maggiori dettagli sull’inadeguatezza della composizione dell’Organismo di Vigilanza della Thyssen sono desumibili dalla sentenza di primo grado. [3]
Già la Corte d’Assise presso il Tribunale di Torino, infatti, sottolineando la “superficialità” e la “scarsa attenzione della sicurezza sul lavoro” che avevano caratterizzato i vertici dell’azienda anche dopo la tragedia avvenuta il 6 dicembre 2007, aveva avuto modo di affermare che “quanto affermato emerge proprio dalla nomina, quale membro dell’Organismo di vigilanza di cui all’art. 6 lett. b), organismo di vigilanza che, secondo la legge, deve essere dotato di autonomi poteri di vigilanza e controllo, allo scopo di implementare tale organismo come un membro “competente” in materia antinfortunistica, dello stesso Ing. C.: senza neppure preoccuparsi – per questo la Corte si permette di indicare tale scelta come “superficiale e poco attenta” – del fatto, evidente, che il membro deputato ad efficacemente vigilare sull’adozione del “modello” in materia antinfortunistica era lo stesso dirigente del settore ecologia, ambiente e sicurezza; in sostanza l’Ing. C, come membro dell’organo di vigilanza, doveva controllare il suo stesso operato.”
Il Tribunale aveva anche specificato: “Quindi l’Ing. C., dirigente responsabile del settore sicurezza sul lavoro, entra a far parte dell’Organismo di vigilanza di cui all’art. 6 lett. b) nel dicembre 2007, proprio per la sua competenza in materia di sicurezza e, nonostante i fondati dubbi, da lui stesso sollevati, sulla sua contraddittoria funzione di controllore e controllato,vi permane certamente oltre la dichiarazione di apertura del presente dibattimento (febbraio 2009), quantomeno sino alla data in cui ha reso la sua testimonianza (26.3.2010).”
E la sentenza di primo grado aveva concluso: “La Corte ritiene che questa circostanza, di per sé sola, induca a ritenere che il modello adottato, nel periodo preso in considerazione, non poteva essere stato reso operativo, tanto meno in modo efficace, sottolineando che tale organismo deve essere dotato, secondo il citato art. 6, di “autonomi poteri di iniziativa e controllo”: non è necessario spendere ulteriori parole sulla “autonomia” del controllore quando è la stessa persona fisica del controllato”.
Inidoneità della “prova liberatoria” nel caso Thyssen e trattamento sanzionatorio
L’inidoneità del modello organizzativo della Thyssen e della composizione dell’Organismo di Vigilanza messo in piedi dalla medesima azienda ha determinato, oltre alla riaffermazione della responsabilità in sé della Thyssen ai sensi del decreto 231/01, anche la conferma in termini qualitativi e quantitativi da parte della Cassazione delle sanzioni applicate nei gradi precedenti all’azienda per la responsabilità amministrativa.
Conclude infatti la Suprema Corte sul punto: “per ciò che attiene al trattamento sanzionatorio, la pronunzia [d’appello, n.d.r.] è appropriata ed immune da censure. Infatti, contrariamente a quanto dedotto, si fa leva non solo e non tanto sulla drammaticità degli eventi, ma anche sulla gravità della colpa, sulla consolidata avversione a costruire procedure decisionali e gestionali trasparenti. Tale apprezzamento giustifica la modulazione delle sanzioni in tutte le sue articolazioni.”
Anche per quanto riguarda la sussistenza del “profitto” - infine - quale elemento che ha rilevanza secondo il decreto 231/01 ai fini dell’applicazione delle sanzioni interdittive e della confisca, la Cassazione è lapidaria nell’affermare che “con riguardo ad una condotta che reca la violazione di una disciplina prevenzionistica, posta in essere per corrispondere ad istanze aziendali, l’idea di profitto si collega con naturalezza ad una situazione in cui l’ente trae da tale violazione un vantaggio che si concreta, tipicamente, nella mancata adozione di qualche oneroso accorgimento di natura cautelare, o nello svolgimento di una attività in una condizione che risulta economicamente favorevole, anche se meno sicura di quanto dovuto. Qui si concreta il vantaggio che costituisce il nucleo essenziale dell’idea normativa di profitto.”
E conclude, con riferimento allo specifico caso dello stabilimento torinese: “dunque non erra per nulla la Corte di merito quando individua il profitto, come minimo, nel risparmio di spesa inerente all’impianto di spegnimento; oltre che nella prosecuzione dell’attività funzionale alla strategia aziendale ma non conforme ai canoni di sicurezza.”
Anna Guardavilla
[1] La giurisprudenza spesso, parlando dell’adozione e attuazione dei modelli organizzativi, usa il termine “obbligo”. Come noto, l’adozione e attuazione del modello organizzativo è un atto formalmente volontario, ovvero una facoltà, ma il ragionamento sostanzialistico che soggiace all’utilizzo del termine “obbligo” è che, qualora dovessero ricorrere tutti i presupposti per l’applicazione della responsabilità prevista dal D.Lgs.231/01 nei confronti dell’azienda (tra cui anche l’interesse o vantaggio), ove si avviasse un procedimento giudiziario in tal senso e l’azienda non avesse implementato il modello organizzativo, l’applicazione della sanzione - quantomeno pecuniaria - sarebbe certa.
[2] La Cassazione precisa che nello stesso senso va Sez. 2, n. 3615 del 20/12/2005, D’Azzo, Rv. 232957.
[3] Si veda anche, su questo, A. Guardavilla, “ L’Organismo di Vigilanza nella legge di stabilità e nella sentenza Thyssenkrupp - Quando il controllore coincide con il controllato”, pubblicato in Puntosicuro del 17 novembre 2011 n.2743.
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