L’arte dell’auditing
Ci può essere un approccio non strutturato nel condurre una verifica ispettiva presso un’organizzazione o un’azienda? Se un modo sicuramente corretto è quello di approcciarsi con una lista di riscontro (check list) che prevede una ricca serie di domande, da formulare nel modo più chiaro, esaustivo e preciso possibile, purtuttavia è possibile immaginare di andare a conoscere un’organizzazione ed entrare in essa in un modo sicuramente rispettoso, ma che sia anche educatamente “addentrante” nella sua realtà produttiva o di servizi, per andare a cogliere eventualmente quello che può non essere immediatamente evidente, palese o manifesto.
Ma è possibile tutto ciò? La tesi di questo articolo è che questo modo di approcciarsi sia effettivamente possibile e nel proseguo intende profilarne un modo peculiare. La premessa è che le considerazioni vorrebbero essere di carattere generale, indipendentemente dal tipo di organizzazione e di sistema di gestione oggetto di verifica, ma poi nella pratica gli esempi applicativi rimanderanno normalmente alle norme ISO riferite ai sistemi di gestione della qualità (ISO 9001), ambiente (ISO 14001) e sicurezza (ISO 45001), senza l’intenzione di voler limitare solo a questi l’approccio.
Potrà anzi essere di stimolo e di spunto per il lettore, anche sulla base della sua esperienza, andare ad integrare quanto esposto con le sue idee e convinzioni (sul sito lasciamo uno spazio strutturato specifico proprio “ad hoc”). A questo punto partiamo con l’esplorazione dei vari spunti.
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- Entrare e funzionare come un’antenna
La prima considerazione che mi viene da fare è sul tipo di approccio che invito a tenere nell’avvicinarsi fisicamente al luogo dell’audit. Vi invito a pensare di essere “un’antenna ricevente” e magari di sentire attraverso la vostra postura fisica questo atteggiamento che consiste nel mettersi in uno stato di ricezione sensoriale letteralmente con tutti i sensi: udito, vista, odorato, tatto e, se qualcuno me lo consente e se la sente, con un’attenzione “energetica” su quello che si percepisce globalmente. Si tratta di un avvicinarsi ponendo il centro di attenzione al di fuori di sé stessi, senza una focalizzazione su qualcosa di preciso, ma con un atteggiamento aperto a cogliere qualunque evento, segnale, spunto, rumore o quant’altro possa accadere. In questo modo cominciamo a raccogliere informazioni che poi, in modo più o meno consapevole, saranno oggetto di confronti e valutazioni successive, finalizzate a farsi un’idea dell’organizzazione. La proposta conseguente a questo approccio è quella di sentire e fare caso a quello “che non ci torna” o quello “che non ci convince”. Normalmente sono sensazioni corrette, giuste, centrate, ma può capitare che non riusciamo a giustificarle, a comprenderne la motivazione o la causa: ma questo ora non è importante. E’ molto più importante acquisire la capacità di rendersi conto (consapevolezza) che c’è qualcosa che “stona” per tenerne conto in modo da approfondire ulteriormente o sospendere temporaneamente qualunque tipo di giudizio o valutazione che potrebbe essere azzardata o prematura.
- Fare attenzione a tutti i dettagli
Coerentemente e ad integrazione di quanto visto nel punto precedente, l’invito è di sviluppare un livello di attenzione elevata che permetta di cogliere e registrare tutto quello con il quale entriamo in contatto: persone, ambienti, luoghi, oggetti, eventi. Se nel punto precedente ci facevamo “antenna” qui integriamo l’antenna con una “batteria di accumulo” (loading battery), che “tiene” quello che incontra nel percorso perché da una parte ci permette di sviluppare la conoscenza dell’organizzazione nella quale siamo entrati, e dall’altra ci potrà fornire alcune informazioni che più avanti potranno esserci utili. Non si abbia paura: non sto dicendo di registrare, annotarsi, fotografare, filmare, ma solamente “farci caso”, porre su quello che incontriamo un’attenzione “focalizzata” che non trascura quello che ci viene incontro perché ha già classificato in modo preventivo cosa è utile, funzionale e cosa è inutile e superfluo. In questa fase tutto è meritevole di attenzione. E’ pur vero che ci saranno segnali che incontreremo che saranno più significativi ed altri molto meno. Ho sempre guardato con ammirazione gli auditor “coi capelli bianchi” che sapevano, per maturata esperienza, cogliere le informazioni chiave per inquadrare e classificare l’organizzazione che andavano a conoscere e che sarebbero poi state confermate in sede di chiusura. Tuttavia, in questa fase, il suggerimento è quello di non trascurare nulla, cogliendo tutto consapevolmente per eventualmente farne uso in un secondo momento. In questa fase è inopportuno voler giungere ad un giudizio o una classificazione: raccogliamo e teniamo quanto ci arriva, poi valuteremo in modo analitico.
- Prendersi tempo
Va da sé che con un approccio di questo tipo è necessario, probabilmente, rallentare, darsi dei tempi personali di osservazione, ascolto, mettersi e stare in relazione con le persone. Per alcuni potrebbe essere un modo più “slow” di procedere, ma probabilmente necessario. Lo “Slow auditing” (scimmiottando scherzosamente l’associazione SlowFood fondata da Carlo Petrini per cui ho “militato”) è condizione a mio avviso necessaria per sviluppare un livello di conoscenza e consapevolezza superiore rispetto ad un approccio tradizionale. Magari siamo abituati ad essere più veloci o più sbrigativi: dipende da quanto è importante il livello di accuratezza della valutazione cui siamo chiamati a pervenire. Nel punto successivo svilupperemo ulteriormente il concetto del tempo, ma è utile comprendere che ci serve effettuare una valutazione sul feedback che ci viene nello stare in relazione con i nostri interlocutori. Se le mie domande non risultano sufficientemente chiare devo capirlo ed adattarmi, ma per farlo ci vuole del tempo. Se non capisco se il mio interlocutore sia diffidente o semplicemente timido, devo prestargli attenzione, ma per farlo ci vuole del tempo. Se c’è qualcosa che sta disturbando la nostra interazione e non sappiamo se dipenda da noi o da fattori a noi estranei è necessario che facciamo delle ipotesi per poi verificare, ma per farlo ci vuole del tempo. Non ne veniamo fuori: un audit operativamente accurato richiede del tempo che dobbiamo prenderci. E dobbiamo averlo previsto prima di andare sul campo di confronto.
- Ritmo: gestire adeguatamente il timing
Sempre considerando il tempo come risorsa che utilizziamo nello svolgimento di un audit è sicuramente utile trovare un giusto ritmo nello svolgimento delle attività che sia contemporaneamente allineato alla nostra modalità di procedere e funzionale a creare una relazione proficua con l’organizzazione. Procedere troppo spediti ed incalzanti avendo come bussola di riferimento una pianificazione temporale dettagliatamente scadenzata può non essere efficace per cogliere le informazioni anche perché può ostacolarci nel creare una relazione con le persone dell’organizzazione che sono state chiamate a rispondere alle nostre domande. Allora è utile “calibrare” la nostra modalità con quella degli interlocutori con cui ci poniamo. Non possiamo conoscere a priori la loro velocità di risposta e reazione, non possiamo dare per scontato che per loro sia chiaro ed immediato quello di cui stiamo parlando o che stiamo chiedendo loro. Ci vuole il giusto tempo, ma per scoprirlo dobbiamo darci tempo. E il giusto tempo non lo decidiamo a priori, al massimo facciamo un’ipotesi di quanto potrebbe essere, ma poi dobbiamo necessariamente sperimentarlo sul campo. Per fare questo è necessario dare all’interlocutore un tempo che gli sia sufficiente. Proviamo per tentativi, usando quell’attenzione necessaria di cui abbiamo parlato prima, funzionale a capire se la nostra relazione con l’interlocutore è efficace: ci permette di raccogliere informazioni affidabili, che siano rappresentative della realtà organizzativa che stiamo conoscendo.
- Attenzione alla terminologia ed alle parole
Spesso mi è capitato di rendermi conto che con il mio interlocutore non ci capivamo perché avevamo un disallineamento sul significato che attribuivamo ai termini, alle parole che usavamo per comunicare. In realtà mi è capitato non solo nella vita professionale, ma anche in quella privata. Ma come si fa a capire che non stiamo dando lo stesso significato ad un medesimo termine? Non intendo dire che solo noi ne facciamo un utilizzo in modo corretto ed il nostro interlocutore stia sbagliando. Può essere benissimo il contrario, ma il problema è quello di rendersene conto, accettare ragionevolmente il punto di vista dell’altro, per trovare una definizione condivisa o la giusta perifrasi e superare l’impasse. Ma quante volte questo accade? Alcune volte i disaccordi nascono proprio da un utilizzo improprio della terminologia. Altre volte più semplicemente dal fatto di non essere ascoltati: io faccio una domanda, ma il mio interlocutore risponde ad un’altra. Ma questo è un discorso che affronteremo più avanti. Il problema può sorgere quando siamo soliti fare uso della terminologia anglosassone (usiamo termini inglesi frequentemente utilizzati nel linguaggio aziendale), ma che potrebbero non essere chiari nel significato da parte del nostro interlocutore. Ce ne accorgiamo? Potrebbe essere utile usare contemporaneamente anche il corrispondente termine in italiano per essere sicuri di essere compresi? Audit e verifica ispettiva li possiamo considerare sinonimi, ma il nostro interlocutore è d’accordo? E se magari ha adottato una codifica convenzionalmente diversa per cui distingue tra i significati delle due parole: se fosse così sarebbe utile venirne a conoscenza il prima possibile per risparmiarci inutili o sterili discussioni. Qui abbiamo deviato un po’ sul tema dell’efficacia dell’audit più che sull’entrare con delicatezza nell’organizzazione. Tornando al tema della terminologia, la cultura aziendale è fatta anche di terminologia utilizzata e coglierla nel parlare con le persone di azienda ci può essere utile per farci un’idea della stessa.
- Cogliere l’approccio delle persone nel rispondere
Domanda: siamo in grado di cogliere l’approccio con cui le persone in azienda ci rispondono o si pongono in relazione con noi? Siamo in grado di dire se ci sembrano (non “se sono”, mi raccomando), se le percepiamo a proprio agio, in difficoltà, in ansia, preoccupate, tese, intimorite, stressate? Se esiste una consuetudine ad essere auditati, magari perché sono molti gli schemi oggetto di certificazione o di audit, allora le persone potrebbero aver sviluppato una familiarità, una confidenza che permette loro di vivere l’audit in modo non problematico, fluido, sufficientemente sereno e costruttivo. Se nell’azienda ci sono molti schemi ( sistemi di gestione certificati) possiamo ipotizzarlo, ma dobbiamo poi verificarlo sul campo. Il suggerimento continua ad essere sempre il medesimo: porsi in un ascolto attento, anche corporeo con il nostro interlocutore, per cogliere il suo modo di porsi in relazione con noi. All’inizio avevo proposto l’approccio “energetico” nel cogliere il tipo di relazione che abbiamo con l’altro: se ci crediamo e ci riusciamo allora risulta essere uno strumento in più nella nostra cassetta di attrezzi di indagine sull’organizzazione. A cosa ci serve farci un’idea sul come le persone ci percepiscono: se sono rilassate possiamo ipotizzare che ci forniranno informazioni veritiere, in coerenza con quello che abbiamo già raccolto ed andremo a raccogliere. Se invece cogliamo una tensione, potremo pensare che siano sulla difensiva, ma allora potrebbero non essere completamente trasparenti e questo potrebbe evolvere in una relazione di audit non gradevole o comunque ad ostacoli.
- Quali correlazioni tra fatti, oggetti eventi?
Finalmente possiamo approcciare un primo “tirar le fila” delle prime impressioni raccolte. Come dicevo, io suggerisco di dare importanza a quello che “percepiamo”, alle sensazioni in positivo ed in negativo che percepiamo. E’ pur vero che potremmo incontrare persone particolarmente affabili e amabili che sono in grado di recitare un ruolo finalizzato a conquistare una nostra benevolenza, ma è un rischio che possiamo correre. Ripercorrendo mentalmente quanto abbiamo sentito, visto, colto, conosciuto, mettendo insieme anche le impressioni che di volta in volta abbiamo sperimentato, possiamo cominciare a rispondere ad alcune prime domande: c’è qualcosa che “stona”, quanto è fluido il processo che stiamo portando avanti? C’è qualcosa di indefinito che “non ci convince”? se abbiamo una prima sensazione di un livello organizzativo alto, medio o basso allora il tutto è abbastanza e completamente coerente?
- E ancora…
Ci sarebbe ancora da parlare di ulteriori spunti riferiti a:
- quando facciamo una domanda ed otteniamo la risposta ad un’altra
- quando utilizzare approcci destabilizzanti o lievemente provocatori
- come usare silenzio e tempi di attesa in modo tattico
- guardare in viso le persone e cogliere le espressioni
- cogliere l’atmosfera ed il clima dell’azienda in cui si opera
- avvertire se è presente tensione o impazienza
- avvertire il livello di presenza nell’audit
- rilevare è la velocità di reazione
- rilevare il livello di conoscenza
- rilevare il livello consapevolezza?
- meglio approccio formale o informale?
Ma ne parleremo altrove o più avanti.
Ing. Davide Biasco
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Rispondi Autore: Giovanni Bersani - likes: 0 | 14/09/2024 (08:23:55) |
Concordo su tutto e mi complimento per l'esposizione molto ben fatta, grazie |