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Fare sicurezza in azienda: principi manageriali e vera semplificazione
Viareggio, 15 Mag - Chi scrive ha ripetutamente, e da alcuni anni, la sensazione che nel fare sicurezza in azienda, ovvero nel operare per migliorare le condizioni di salute e sicurezza sul lavoro, stiamo davvero sprecando una infinità di energie.
Le sprecano, tantissime energie, in primis coloro che in azienda sono preposti ad occuparsi del tema, secondariamente chi a loro fornisce consulenza o servizi di supporto in genere, e non ultimi le sprecano coloro che si occupano di definire regole, linee guida ecc. Sembra quasi che il proliferare di regole tecniche e organizzative sui temi di salute e sicurezza sul lavoro, sia di per sé un valore, ovvero garantisca automaticamente miglioramenti concreti.
È evidente che chi scrive questo articolo ha qualche dubbio in merito. Però vogliamo subito sgombrare il campo dalla impressione che questo articolo sia una critica generalizzata alle regole; le buone prassi, il benchmark in genere sono strumenti fondamentali per il miglioramento della gestione della sicurezza e della salute e per la scelta delle migliori prassi per il controllo dei rischi residui.
Detto questo proviamo a fare una analisi della situazione attuale che possiamo riscontrare nella maggior parte delle aziende che hanno deciso di avere un comportamento etico e diligente sui temi della salute e della sicurezza. Ci pare di potere identificare alcune criticità diffuse:
- gli aspetti di sicurezza e salute sono percepiti come questioni di pertinenza degli “addetti”, ovvero del Servizio Prevenzione e Protezione, del Medico Competente e, al più, del Datore di Lavoro. Tutti gli altri sentono come proprio dovere il rispetto delle regole di salute e sicurezza vigenti, ma non ritengono loro compito l’essere proattivi;
- per loro parte gli “addetti” sono prima di tutto focalizzati su tutto quanto opportuno e necessario a non incorrere in violazioni di legge, ovvero in situazioni nelle quali l’azienda e/o i singoli mostrano inequivocabilmente di non avere rispettato un requisito legislativo esplicito e applicabile al contesto di riferimento;
- la valutazione dei rischi spesso non è percepita come fondamentale strumento di lavoro, quanto piuttosto come adempimento formale che non deve presentare debolezze tali da fare invocare la “mancata valutazione dei rischi”. Detto in altri termini la valutazione dei rischi è più intesa come strumento per la redazione del Documento di Valutazione dei Rischi, che come concreto strumento logico / metodologico di lavoro.
Tutto questo è favorito da una serie di fattori di contorno che spingono nella direzione di cui stiamo parlando:
- nel nostro Paese la cultura forte della Sicurezza e Salute sul lavoro, vista in forma legale e non paternalistica, ha origine negli anni ’50 del secolo scorso, con un approccio che si usa definire “comanda e controlla”. Che porta dietro un corollario: non posso controllare ciò che non ho comandato;
- dopo 40 anni, a metà degli anni ’90, questo approccio doveva essere superato tramite il recepimento delle direttive sociali europee in materia di salute e sicurezza sul lavoro, ma il nostro Paese nel recepirle si è guardato bene dallo smantellare il sistema pre – esistente. A nostro avviso questo ha contribuire a dare molta meno evidenza all’introduzione dell’unica vera novità: il principio di operare sulla base della valutazione dei rischi;
- l’equivoco si è protratto negli anni tanto che determinati rischi sono stati assoggettati a valutazione solo dopo che è stato pubblicato il corrispondente titolo all’interno del D.Lgs. 626/94;
- il pur egregio lavoro fatto con l’elaborazione del D.Lgs. 81/2008, non ha però dato quella spinta di modernità che ci sarebbe stata se l’apparato sanzionatorio fosse stato rivisto al fine di sanzionare maggiormente le deficienze “di sistema” delle aziende, e meno le singole infrazioni. Solo l’estensione della applicazione dei modelli organizzativi esimenti ex D.Lgs. 231/2001 ai reati in materia di sicurezza e salute sul lavoro, e l’articolo 30 del citato D.Lgs. 81/2008, vanno in direzione diversa, e ben chiara; ma si tratta pur sempre di scelte aziendali a carattere volontario.
Che la sicurezza e la salute sul lavoro siano spesso gestite con spirito burocratico che secondo i principi del controllo dei rischi e del miglioramento continuo non è, comunque, questione solo nazionale. Le aziende di molti paesi “evoluti” (Europa, Nord America ecc.), hanno per loro conto sviluppato sistemi interni di gestione della sicurezza che costruiscono vere e proprie strutture burocratiche interne il cui scopo appare essere la protezione del Top Management; queste strutture quindi accumulano dati e informazioni, ma riescono a dare un vero e concreto contributo a coloro che operano sul campo? Certamente riescono a fornire un contributo positivo, ma forse non commisurato alle risorse investite.
E ora immaginatevi una azienda che contemporaneamente subisca la “burocrazia nazionale” e delle regole corporate imposte dal management della multinazionale a cui appartiene. Si rischia la paralisi, oppure l’inutile duplicazione di risorse.
La chiave del cambiamento
Possiamo auspicare, insieme al presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, una regulation review, nel nostro caso focalizzata sui temi della salute e della sicurezza sul lavoro, ma in attesa di un atto del genere, che troverebbe fortissime resistenze perché sarebbe erroneamente percepito come una riduzione delle tutele dei lavoratori, dobbiamo cercare autonomamente di trovare una soluzione che garantisca la migliore tutela dei lavoratori anche attraverso un uso oculato (cioè efficace ed efficiente) delle (poche) risorse disponibili. Il “poche” lo aggiungo io considerando che in un momento di forte impegno per la riduzione dei costi, determinato dalla così detta crisi, ovvero dalla minore propensione alla spesa dell’intero mercato, in un momento come questo le aziende ragionano di ridurre al minimo le risorse destinate a servizi indiretti. Quindi quanto meno non possiamo immaginare un aumento delle persone impegnate sui temi della tutela della sicurezza e della salute in azienda.
Quindi, si diceva, diventa una questione di ottimizzazione dell’impiego delle risorse esistenti, che a sua volta si trasforma in un riesame delle vere priorità: cosa è utile per prevenire infortuni e malattie professionali, e cosa non lo è, o non lo è direttamente e nell’immediato.
Sulla base di questo ragionamento si può compiere una vera rivoluzione in relazione al “modo di funzionare” sia del Servizio Prevenzione e Protezione (in primis), ma anche del management.
Le vere priorità
Suonerà banale quello che vengo a dire, ma tanto vale precisarlo; mettendo in ordine le priorità di una azienda “eticamente sana”, sul tema della sicurezza e della salute sul lavoro, dovremmo trovare grosso modo un elenco come il seguente:
1. Tutelare nel modo migliore possibile la sicurezza e la salute delle persone che lavorano nella azienda o per l’azienda;
2. Evitare che, nel malaugurato caso si verificasse un infortunio o una malattia professionale, la azienda medesima possa esserne chiamata a risponderne come persona giuridica secondo le previsioni del D.Lgs. 231/2001 e dell’articolo 30 del D.Lgs. 81/2008;
3. Sotto le medesime negative condizioni del punto precedente, evitare che i soggetti apicali della azienda siano coinvolti per colpe che oggettivamente non li riguardano;
4. Garantire che sul tema della sicurezza e della salute sul lavoro, siano rispettate tutte le leggi e norme applicabili alla azienda; così facendo evitare anche che alla azienda siano comminate prescrizioni o altre sanzioni per il mancato rispetto dei requisiti di legge.
Chi scrive è convinto di essere nel giusto, ovvero che questa sequenza di obiettivi ordinati per importanza sia quella più corretta dal punto di vista dell’imprenditore attento alla sicurezza e alla salute dei propri collaboratori.
Dalle priorità alla pratica
Considerando il primo punto sopra espresso, è evidente che se opero in un contesto che può essere reso sicuro in modo tecnicamente “invalicabile”, fatto ciò la questione si chiude per tutti i primi tre punti; le responsabilità amministrative della azienda, e penali dei soggetti apicali, non possono sussistere se non si manifesta un evento negativo, un infortunio o una malattia professionale. L’unico aspetto che non si risolverebbe sarebbe quello della mera conformità, che è poi una questione esclusivamente di denaro. Direi che è un ragionamento banale.
È meno banale quello che segue: consideriamo una normale azienda produttiva e domandiamoci se esistono davvero casi nei quali si possa eliminare totalmente la possibilità di accadimento di un infortunio o di una malattia professionale. Nelle aziende industriali ciò non è possibile: sussiste un rischio (residuo) più o meno alto di infortunio o di malattia professionale che deve essere tenuto sotto controllo con l’organizzazione aziendale e i comportamenti sicuri.
In questo scenario il secondo e il terzo obiettivo si raggiungono tramite la implementazione di una buona organizzazione della sicurezza & salute in azienda, che effettivamente sia in grado di operare per ridurre al minimo i rischi e controllare i rischi residui nel migliore dei modi. Se questo requisito pratico viene raggiunto diventa immediatamente facile dimostrare all’esterno di avere quel modello organizzativo esimente ex D.Lgs. 231/2001 che consente di evitare responsabilità per l’azienda e per gli apicali. Per il semplice motivo che si dimostrerebbe che l’azienda e gli apicali hanno davvero fatto tutto quanto era in loro potere per garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori.
Fine prima parte. Il seguito dell’articolo verrà pubblicato la prossima settimana.
Alessandro Mazzeranghi
Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.
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Rispondi Autore: M. MARIO - likes: 0 | 15/05/2014 (08:49:22) |
Quello che scrivi tu èsono regole di civiltà da applicarsi in un paese con persone civili e di buon senso. Analizza l'Italia....e i conti non tornano. Auguri. |
Rispondi Autore: MB - likes: 0 | 15/05/2014 (11:25:51) |
articolo interessante... |
Rispondi Autore: Melissa D. - likes: 0 | 15/05/2014 (11:52:53) |
Titolo meraviglioso. Un articolato molto interessante. Avvincente direi, che si conclude con : il secondo e il terzo obiettivo si raggiungono tramite la implementazione di una buona organizzazione della sicurezza & salute in azienda, che effettivamente sia in grado di operare per ridurre al minimo i rischi e controllare i rischi residui nel migliore dei modi. Cosa dire ? Cosa voleva dire ? |
Rispondi Autore: Massimo Ferraro - likes: 0 | 15/05/2014 (12:01:52) |
Concordo con quanto espresso dall'ing. Mazzeranghi sulla necessità di acquisire un approccio diverso e molto meno dissipativo sulla gestione della sicurezza in azienda. Se non creiamo la cultura della sicurezza nel quotidiano e aspettiamo solo che ci sia l'infortunio non c'e' futuro per la creazione di un'etica. Molto possono (e devono) fare coloro che dall'esterno intervengono nelle fasi della consulenza e della formazione per realizzare una semplice ma efficace gestione della prevenzione e della sicurezza. Formare in modo "tradizionale"un lavoratore che ha già perso ogni sensibilità verso questo discorso (salvo poi pagarne di persona le conseguenze di un infortunio e di farle pagare alla comunità)rappresenta una mancata opportunità per tutti. Creare un modo diverso e più semplice di mettere la persona di fonte al problema e di aiutarlo a risolvere , permette di ottenere il risultato. Spiegare il nostro sistema legislativo è una sorta di "karakiri" ma usando esempi concreti si riesce ad ottenere un buon risultato soprattutto se l'azienda viene coinvolta in tutta la sua struttura (spesso costituita da meno di 10 persone). Di contro però ci sono poi elementi esterni e non "competenti" di queste attività che rafforzano la convinzione che la sicurezza sia tutto ed esclusivamente un danno economico per le aziende e per i lavoratori, soprattutto quando p.e. la formazione viene, ancora oggi, gestita da persone non qualificate (nonostante gli accordi stato-regioni) con l'unico obiettivo dell'attestato finale. Di sicuro l'Italia negli ultimi 30 anni ha legificato ma non ha dato mai seguito alla vera applicazione delle regole di civiltà (come dal commento di M. Mario) ma se facciamo l'analisi i conti (purtroppo) tornano quando su 100 aziende ne troviamo 20 % fuori da ogni regola , 40% con applicazione formale e 40 % che operano correttamente.. se migliorano il 40 % di quelle informali restano solo il 20% fuori. Se non interveniamo quelle fuori regola diventano il 70% !!!! Quindi dare tutto scontato e abbandonare il campo non dà risultati.. Non mi dilungo oltre e attendo la seconda parte per concludere il mio commento. |
Rispondi Autore: mauro tripiciano - likes: 0 | 15/05/2014 (12:03:55) |
concetti pienamente condivisibili: attendo la seconda puntata per sapere dove va a parare. Da parte mia penso che la soluzione stia nel fatto che la sicurezza deve essere responsabilità di ciascuno e della linea gerarchica. I ruoli SPP sono di consulenza, con sola responsabilità professionale. La valutazione dei rischi si fa con gli operatori, per loro e DOPO passa all'approvazione del DL e al DVR. A questo si aggiunge un sistema DPCM di miglioramento continuo (meglio se include la BBS)e si formalizza il SGS a fronte di tutte le norme |
Rispondi Autore: Loredana P. - likes: 0 | 18/05/2014 (20:26:04) |
Fare sicurezza in azienda: principi manageriali vera semplificazione, diventa vera semplificazione solo ed esclusivamente nel momento in cui tutti abbiamo la '' cultura'' della sicurezza, ovviamente non è cosi pertanto, siamo davvero lontani dalla semplicità.. |