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Sulla cooperazione e coordinamento fra appaltante e appaltatore
Commento a cura di G. Porreca.
Viene ribadita in questa sentenza la necessità della cooperazione e del coordinamento fra ditta appaltante ed impresa appaltatrice nel caso in cui l’attività di quest’ultima venga svolta nell’ambito dell’azienda della prima, in applicazione degli obblighi contenuti nell’art. 26 del D. Lgs. 9/4/2008 n. 81, contenente il Testo Unico in materia di salute e di sicurezza sul lavoro. Il caso sottoposto all’esame della suprema Corte di Cassazione riguarda questa volta un incidente stradale con esito mortale accaduto all’interno di uno stabilimento del committente nel corso del quale è rimasto vittima un dipendente della ditta appaltatrice per essere stato investito mentre circolava nello stesso utilizzando una bicicletta. Nella circostanza è stata riscontrata e contestata una carente valutazione del rischio specifico ed una violazione delle regola cautelari di riferimento sia da parte della ditta committente alle cui dipendenze operava il lavoratore infortunato, che della ditta appaltatrice che si sarebbe dovuta attivare e prendere in considerazione ed adottare le relative misure di prevenzione a favore dei propri dipendenti addetti alla manovra dei mezzi di trasporto all’interno dello stabilimento.
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Il fatto
Il delegato per la sicurezza dello stabilimento di una società ed il legale rappresentante di un’impresa che aveva preso in appalto il servizio di evacuazione degli scarti di lavorazione, sono stati chiamati a rispondere del delitto di omicidio colposo commesso, con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, in pregiudizio di un lavoratore dipendente della società che gestiva lo stabilimento. Con essi per lo stesso delitto è stato chiamato a rispondere anche un dipendente della ditta appaltatrice.
Era accaduto che il lavoratore infortunato, accortosi al momento di entrare in un reparto di non avere con sé il casco di protezione, si era diretto, dopo avere inforcato la propria bicicletta, verso l'immobile ove si trovavano gli spogliatoti, distante circa 200 metri dal reparto, per recuperare detto casco. Nel percorrere tale tragitto, attraversando l'ampio piazzale interno allo stabilimento, il lavoratore è stato investito da un autocarro, di proprietà della ditta appaltatrice, guidato da un dipendente della stessa, coimputato, mentre usciva da un capannone dello stabilimento. Nell'incidente, il lavoratore ha riportato gravi fratture craniche rivelatesi mortali.
Nell'immediatezza, è stato accertato che la bicicletta della vittima era priva di dispositivi di illuminazione e che il lampeggiante giallo della porta del capannone dal quale usciva il mezzo che segnalava il movimento della saracinesca (ad apertura verticale), e quindi l'entrata e l'uscita dei veicoli, era spento poiché la porta era bloccata in posizione di apertura. Secondo l'accusa, i tre imputati hanno causato la morte del lavoratore per colpa consistita in imprudenza, imperizia, negligenza nonché inosservanza delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro.
In particolare, al delegato per la sicurezza dello stabilimento è stato contestato:
-di non avere predisposto, per i pedoni ed i lavoratori in transito a bordo di biciclette, una distanza di sicurezza tra il loro percorso e quello dei veicoli a motore;
-di non avere evidenziato il tracciato delle vie di circolazione in corrispondenza del capannone ove si era verificato l'incidente;
-di non avere segnalato la zona di pericolo e non avere fatto ricorso alla segnaletica stradale;
-di non avere imposto che le biciclette adoperate dai dipendenti all'interno dello stabilimento fossero munite di dispositivi di segnalazione visiva;
-di non avere valutato e fronteggiato il rischio costituito dagli spostamenti dei lavoratori in bicicletta all'interno del perimetro aziendale.
Allo stesso responsabile della sicurezza è stato inoltre contestato congiuntamente al legale rappresentante della ditta appaltatrice, di non avere cooperato all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi connessi con il contratto di appalto, con riferimento alla mancata organizzazione degli spostamenti di mezzi e uomini all'interno dello stabilimento.
I tre imputati, riconosciuti responsabili dal giudice monocratico del Tribunale, sono stati tutti condannati e precisamente il delegato responsabile della sicurezza alla pena di un anno di reclusione, il legale rappresentante della ditta appaltatrice a quella di dieci mesi di reclusione e l’autista del mezzo alla pena di un anno di reclusione (pene sospese e non menzione delle condanne) e tutti e tre condannati altresì, in solido, al risarcimento dei danni patiti dalla parte civile liquidati, in via equitativa, in 10.000,00 euro mentre nessuna statuizione civile è stata adottata nei confronti dei familiari della vittima, i quali hanno revocato, nel corso del giudizio, la costituzione di parte civile. Appellata tale decisione dal responsabile della sicurezza e dal legale rappresentante della ditta appaltatrice la Corte d'Appello, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha ridotto ad otto mesi di reclusione la pena inflitta dal primo giudice al legale rappresentante della ditta appaltatrice confermando il resto.
Il ricorso alla Corte di Cassazione e le motivazioni
Avverso la sentenza della Corte di Appello hanno proposto ricorso alla Corte di Cassazione, per il tramite dei rispettivi difensori, sia il responsabile della sicurezza dello stabilimento che il legale rappresentante della ditta appaltatrice chiedendone l’annullamento. Il responsabile della sicurezza dello stabilimento, in particolare, ha messo in evidenza che l'incidente si sarebbe, in realtà, verificato solo per l'eccessiva velocità con la quale il conducente dell'autocarro, che ben sapeva di dover procedere "a passo d'uomo", è uscito dal capannone, pur avendo tempestivamente notato la presenza della bicicletta del lavoratore e che nessuna delle regole cautelari ritenute omesse dal giudice, avrebbe impedito l'evento, né avrebbe ridotto il rischio del suo verificarsi. Lo stesso ha fatto presente, altresì, che nel documento di valutazione dei rischi erano state previste delle precise regole di comportamento, idonee a disciplinare il transito degli automezzi e ad evitare incidenti, tra le quali quella, imposta ai conducenti di veicoli, di percorrere le strade dello stabilimento alla velocità moderata, di 40 o 20 km orari e addirittura "a passo d'uomo" nei capannoni ed in caso di scarsa visibilità ed erano state fornite, altresì, alla ditta appaltatrice informazioni di sicurezza, con allegata una piantina che illustrava il piano di circolazione interno, regole, dunque, perfettamente note e certamente idonee, se rispettate, ad evitare incidenti come quello occorso al lavoratore.
Il rappresentante della ditta appaltatrice, dal canto suo, ha lamentato la mancata effettuazione di una perizia cinematica nonché il mancato utilizzo da parte del lavoratore infortunato di un casco protettivo individuando tale mancanza come causa di per sé sufficiente a determinare l’evento considerato il punto di impatto fra la vittima e l’autocarro. Ha lamentato, altresì, che il responsabile dello stabilimento aveva provveduto ad elaborare un documento di sicurezza che aveva quale unico scopo quello di regolare il transito dei propri veicoli e non di dettare regole riguardanti la circolazione delle biciclette, utilizzate solo dai propri dipendenti ed inoltre di non avere effettuato un’attività di coordinamento.
Le decisioni della suprema Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha ritenuto entrambi i ricorsi infondati. Per quanto riguarda il comportamento del responsabile della sicurezza dello stabilimento la suprema Corte ha sostenuto che legittimamente i giudici del merito hanno ritenuto di individuare nella sua condotta gli estremi del delitto contestato, osservando come, a fronte delle condizioni di rischio in cui si trovava chiunque transitasse nell'area dello stabilimento, al cui interno circolavano, oltre ai pedoni, una pluralità di mezzi, dai veicoli di trasporto del materiale alle biciclette, utilizzate comunemente dai lavoratori per i loro spostamenti interni, non fosse egualmente e tempestivamente intervenuto per eliminare le fonti di rischio.
Era stato accertato, infatti, che “la pluralità di mezzi pesanti che circolavano nell'area dello stabilimento, transitando in entrambi i sensi di marcia, e la presenza di lavoratori che, a piedi o in bicicletta, si muovevano liberamente nella stessa area - gli uni e gli altri senza seguire percorsi prestabiliti ed obbligatori che avrebbero, quantomeno, consentito di ridurre il pericolo di incidenti - avrebbero dovuto indurre l'imputato ad intervenire per disciplinare più adeguatamente tale transito (reso, peraltro, difficoltoso anche dalle sconnessioni del terreno e dalla presenza di binari), in realtà sostanzialmente affidato alla prudenza ed al buon senso di ciascuno, e per obbligare ognuno al rispetto delle regole imposte”. La Sez. IV non ha escluso altresì “l'obbligo di quanti circolavano di mantenere in efficienza i rispettivi veicoli, le cui approssimative condizioni di manutenzione sono state pure segnalate dai giudici del merito, laddove essi hanno ricordato che gran parte delle biciclette in circolazione, compresa quella utilizzata dal (lavoratore), erano prive di dispositivi di illuminazione e di catarifrangenti, mentre lo stesso camion guidato (dall’autista) presentava pneumatici fortemente usurati”.
La Sez. IV ha fatto inoltre osservare che, proprio davanti al portone d'ingresso del capannone che si affacciava sul piazzale teatro dell'incidente, dal quale era sbucato l'autocarro della ditta appaltatrice, non erano stati apposti segnali di alcun genere, se non due strisce bianche perpendicolari al portone, volte a segnalare il percorso di uscita dei mezzi pesanti. Nessun'altra segnalazione, infatti, era stata apposta, non un cartello di pericolo, non uno specchio parabolico che consentisse al conducente degli autocarri in uscita di accertare preventivamente l'eventuale presenza di pedoni o di altri veicoli in transito, evitando allo stesso di avventurarsi all'esterno "alla cieca", non un dissuasore di velocità, che obbligasse, quindi, il camionista ad uscire all'esterno a velocità adeguata. Lo stesso portone, ha fatto notare la Sez. IV, era privo di segnali luminosi ed acustici che avvertissero all'esterno dell'approssimarsi all'uscita dei camion, della cui presenza, quindi, chi transitava sul piazzale aveva contezza solo allorché i veicoli uscivano all'esterno, assenza di segnali che evidentemente accresceva il pericolo di quanti si trovassero a transitare all'esterno in concomitanza con l'uscita dei camion e che erano, nella pratica, da tempo inutilizzati perché il portone veniva lasciato costantemente bloccato in apertura (coprendo le cellule fotoelettriche), e quindi, la lampada esterna rimaneva costantemente spenta, di guisa che l'approssimarsi all'uscita dei veicoli non era in alcun modo visibile dal piazzale.
La Sez. IV ha quindi condiviso con la Corte di Appello che il responsabile della sicurezza dello stabilimento ha sottovalutato la situazione di rischio quotidianamente presente nello stabilimento, connessa con il transito di numerosi veicoli e con la disordinata presenza di pedoni e biciclette, benché fosse stata messa in evidenza anche dalle rappresentanze sindacali, sottovalutazione che lo aveva evidentemente indotto a trascurare la predisposizione di interventi che avrebbero potuto riportare più ordine nella circolazione interna ed avrebbe potuto almeno ridurre il pericolo di incidenti.
Per quanto riguarda, invece, il ricorso del rappresentante legale della ditta appaltatrice la suprema Corte ha sottolineato che è stata individuata a suo carico una evidente sostanziale sottovalutazione da parte della stessa della situazione di rischio derivante dal continuo transito, all'interno dello stabilimento, dei propri automezzi e dal loro incrociare pedoni ed altri mezzi; sottovalutazione attestata dal fatto che nello stesso documento di valutazione dei rischi non era neanche stata presa in considerazione la necessità di coordinare il transito dei camion con quello delle numerose biciclette che circolavano in quello stesso contesto. I responsabili delle due imprese, ha infine messo in evidenza la Sez. IV, non erano neanche a conoscenza dei percorsi seguiti dai camion della ditta appaltatrice, “circostanza dalla quale gli stessi giudici hanno tratto ulteriore conferma dell'assenza di coordinamento e delle gravi carenze organizzative che hanno caratterizzato i temi della sicurezza della circolazione interna allo stabilimento”. Del tutto insufficiente, ha quindi concluso la suprema Corte, è stata la valutazione dei rischi da parte della ditta appaltatrice ed inesistenti sia la cooperazione che il coordinamento della stessa con i responsabili della società committente per cui giusta è stata ritenuta la responsabilità addebitata allo stesso rappresentante legale.
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