Sull’omissione dolosa di cautele antinfortunistiche
In applicazione dell’art. 437 del codice penale sulla rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro va riconosciuta una penale rilevanza anche alle condotte che, attraverso la violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro, abbiano messo a repentaglio l'incolumità sia pure di un singolo lavoratore. E’ un indirizzo questo che la Corte di Cassazione ha già dato in passato e in questa occasione ha citato in merito una sua precedente sentenza, la n. 57673 del 28/12/2017, commentata dallo scrivente nell’articolo “La Cassazione sulla rimozione od omissione di cautele antinfortunistiche”.
Tale indirizzo è stato ribadito nel decidere su di un ricorso presentato dal Procuratore della Repubblica di un Tribunale avverso la sentenza con la quale lo stesso aveva annullato un provvedimento, adottato dal Giudice per le indagini preliminari, di sospensione dell’attività imprenditoriale nei confronti del legale rappresentante di una società che era stata incaricata di smantellare il tetto di un fabbricato, composto da una struttura in legno con copertura in tegole, nel quale veniva svolto un esercizio commerciale.
Nel cantiere erano state riscontrate nel corso di un controllo ispettivo numerose violazioni in materia di sicurezza sul lavoro, consistenti nell'assenza diffusa di protezioni contro il rischio di caduta dall'alto, nell'utilizzo di una scala portatile non conforme, nella presenza di aperture e vuoti nei solai, nell'assenza di recinzione di cantiere e nell'incompletezza del Piano Operativo di Sicurezza.
Il Tribunale del riesame, con diverso avviso rispetto al Giudice per le indagini preliminari, aveva escluso che, oltre alle contravvenzioni previste dalla normativa in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, fosse maturato il delitto di rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro essendo stato messa in pericolo tramite i descritti comportamenti illeciti, l'integrità fisica di uno o, al più, di due lavoratori e non anche, come richiesto dall'art. 437 cod. pen., di una vera e propria collettività lavorativa, intesa quale numero di lavoratori (o di persone gravitanti attorno all'ambiente di lavoro) sufficiente a realizzare una condizione di indeterminata estensione del pericolo.
La suprema Corte, ha accolto il ricorso del Procuratore della Repubblica e, ritenendo che il Tribunale per il riesame non si fosse attenuto agli orientamenti forniti dalla giurisprudenza di legittimità, ha annullata l’ordinanza impugnata rinviando gli atti al Tribunale di provenienza per un nuovo giudizio.
Il caso, l’iter giudiziario e il ricorso per cassazione.
Il Tribunale del riesame, in accoglimento dell'appello proposto dal legale rappresentante di una società incaricata di smantellare il tetto di un fabbricato adibito a esercizio commerciale composto da una struttura in legno e copertura in tegole, ha annullata la misura cautelare del divieto di esercitare, per la durata di sei mesi, determinate funzioni all'interno di entità imprenditoriali, adottata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale per il reato sanzionato dall'art. 437 cod. pen.. A seguito di un controllo di polizia erano state infatti accertate, sul cantiere, gravi violazioni in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, consistenti nell'assenza diffusa di protezioni contro il rischio di caduta dall'alto, nell'utilizzo di una scala portatile non conforme, nella presenza di aperture e vuoti nei solai, nell'assenza di recinzione di cantiere e nell'incompletezza del Piano Operativo di Sicurezza.
Il Tribunale del riesame, andando in contrario avviso rispetto al Giudice per le indagini preliminari, aveva escluso che tali condotte integrassero, oltre alle contravvenzioni previste dalla normativa in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, il delitto di rimozione od omissione dolosa di cautela contro gli infortuni sul lavoro. Al riguardo, aveva ritenuto che l’imputato, tramite i descritti comportamenti illeciti, avesse messo in pericolo l'integrità fisica di uno o, al più, due lavoratori e non anche, come richiesto dall'art. 437 cod. pen., nell'interpretazione che ne fornisce la giurisprudenza di legittimità, di una vera e propria collettività lavorativa, intesa quale numero di lavoratori (o di persone gravitanti attorno all'ambiente di lavoro) sufficiente a realizzare una condizione di indeterminata estensione del pericolo.
Lo stesso Tribunale aveva segnalato, in proposito, che in quel cantiere non prestavano servizio altri dipendenti oltre al lavoratore presente all'atto del controllo, e ad un altro che vi aveva lavorato il giorno precedente non ritenendo che avesse importanza che, dopo il sequestro dell'area, l’imprenditore avesse destinato alla messa in sicurezza un più consistente numero di operai, condotta determinata dall'interesse ad adempiere rapidamente all'onere, propedeutico alla revoca del blocco ed alla ripresa dei lavori.
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico, articolato motivo, con il quale ha dedotto violazione di legge e vizio di motivazione.
Lo stesso ha addebitato al Tribunale del riesame di non avere offerto nella sua decisione un appagante percorso argomentativo e di avere, per di più, disatteso la lezione proveniente dalla giurisprudenza di legittimità in ordine al decisivo requisito della diffusività del pericolo ed alla concreta possibilità che il reato venisse configurato anche quando la platea interessata non oltrepassi la sfera dei dipendenti di un piccolo insediamento produttivo, in tal modo propendendo indebitamente per un approccio di tipo meramente quantitativo. Il Procuratore ha eccepito, in sostanza, che il Tribunale del riesame aveva sottovalutato la portata della condotta illecita e orientata la decisione al requisito dimensionale, per di più trascurando che i lavori in itinere concernevano un immobile di grande estensione, ubicato nel centro storico di una cittadina, sì da rendere tangibile l'estensione del pericolo a terzi.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.
Il ricorso è stato ritemuto dalla Corte di Cassazione fondato e meritevole di essere accolto. La stessa ha ricordato che l'art. 437 cod. pen., rubricato “Rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro”, prevede, al primo comma, che “Chiunque omette di collocare impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, ovvero li rimuove o li danneggia, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni” ed a quello successivo prevede che “Se dal fatto deriva un disastro o un infortunio, la pena è della reclusione da tre a dieci anni”.
La giurisprudenza di legittimità, ha così proseguito la suprema Corte, chiamata ad enucleare le condizioni al cui cospetto è possibile configurare il delitto in argomento, ha affermato che “ai fini della configurabilità dell'ipotesi delittuosa descritta dall'art. 437 cod. pen., è necessario che l'omissione, la rimozione o il danneggiamento dolosi degli impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire infortuni sul lavoro si inserisca in un contesto imprenditoriale nel quale la mancanza o l'inefficienza di quei presidi antinfortunistici abbia l'attitudine, almeno in via astratta, a pregiudicare l'integrità fisica di una collettività di lavoratori, o, comunque, di un numero di persone gravitanti attorno all'ambiente di lavoro sufficiente a realizzare la condizione di una indeterminata estensione del pericolo”.
Tale ultimo indirizzo, ha aggiunto la suprema Corte, che assegna centrale rilevanza al carattere di diffusività del pericolo derivante dalla rimozione od omissione di apparecchi destinati a prevenire infortuni sul lavoro, deve essere preferito, in ossequio, peraltro, alla prospettiva delineata nell'ordinanza impugnata, a quello, che pure ha trovato eco, ancora in tempi non remoti, presso la stessa Corte di Cassazione, che ha riconosciuta una penale rilevanza anche alle condotte che, attraverso la violazione della normativa prevenzionale, abbiano messo a repentaglio l'incolumità di un singolo lavoratore, citando a proposito la sentenza n. 57673 del 24/11/2017 della IV Sezione penale. Tanto, in ragione, tra l'altro, della dichiarata finalità cautelare ed alla collocazione sistematica della disposizione, la cui interpretazione deve essere parametrata all'astratta attitudine della condotta illecita a provocare l'esposizione a pericolo della pubblica incolumità e ad amplificare, per tale via, il rischio, non più circoscritto ad uno o più soggetti e diretto, invero, nei confronti di un'intera, ancorché, se del caso, numericamente contenuta, comunità di lavoratori.
L'interpretazione della norma, quindi, deve essere orientata sul piano della potenziale offensività del comportamento irrispettoso della normativa prevenzionale, in chiave essenzialmente di sua attitudine ad attingere tutti coloro che, a diverso titolo, vengano a contatto con quell'ambiente lavorativo, piuttosto che su quello della individuazione della platea dei soggetti materialmente coinvolti.
Nel caso di specie il Tribunale del riesame, secondo la Sezione I, non ha fatto corretta applicazione del principio di diritto sopra enunciato, perché ha escluso che il contegno dell'indagato abbia assunto il prescritto carattere di diffusività sulla scorta di elementi di fatto rappresentati e valutati in modo incompleto e, in parte, incongruo. Lo stesso ha, in particolare assegnato precipua rilevanza al riscontrato coinvolgimento, nelle opere di ristrutturazione del tetto del fabbricato, di due soli lavoratori ed escluso che altri soggetti, dipendenti della stessa impresa ovvero persone che, per altre ragioni, avessero avuto occasione di transitare nei pressi del cantiere potessero restare esposti ai rischi derivanti dalla trasgressione alla normativa antinfortunistica.
Il Tribunale del riesame, inoltre, così facendo aveva trascurato, per un verso, la gravità delle riscontrate carenze, talune delle quali suscettibili di arrecare pregiudizio anche a soggetti estranei all'impresa appaltatrice. Era il caso, ad esempio, della scala metallica utilizzata per l'accesso al piano sottotetto, che, per la mancanza di fissaggi e di dispositivi antiscivolo, avrebbe potuto essere rovesciata all'indietro con una lieve spinta della mano, ovvero dell'assenza di parapetti, che avrebbe potuto agevolare la caduta di materiali, oggetti e persone o, ancora, dell'assenza di recinzione, tale da consentire a chiunque l'accesso al cantiere nel quale si svolgeva attività obiettivamente pericolosa. La diffusione del pericolo nei confronti di un numero indeterminato di persone, ha così concluso la suprema Corte, è risultata, per altro verso, più concreta a cagione dell'insistenza, nella stessa struttura, di un locale aperto al pubblico, di una palestra, e dell'ubicazione del fabbricato nel centro storico della cittadina per cui era da presumere un intenso afflusso di persone.
Alla luce delle suesposte considerazioni, la suprema Corte ha ritenuta illegittima l’ordinanza impugnata, che ha, pertanto, annullata con rinvio degli atti al Tribunale del riesame di provenienza in vista di un nuovo giudizio che sia emendato dai vizi dalla stessa evidenziati.
Gerardo Porreca
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Rispondi Autore: Marabelli Gian Piereo - likes: 0 | 31/01/2022 (07:36:34) |
La mia è un'osservazione che vuole essere provocatoria: quante volte viene citato il D.lgs 81/2008 e s.m.i? |
Rispondi Autore: MASSIMO ZUCCHIATTI - likes: 0 | 31/01/2022 (21:57:18) |
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