Sull’annullamento di una sentenza perché carente e erronea in diritto
Diversi sono i principi della giurisprudenza che emergono dalla lettura di questa sentenza della Corte di Cassazione che la stessa ha richiamati citando le principali precedenti sentenze nelle quali sono stati evidenziati. Il caso sottoposto all’esame della Corte suprema in questa occasione riguarda l’infortunio mortale accaduto all’interno di un capannone a un lavoratore dipendente di una cooperativa, alla quale il committente aveva affidato dei lavori di carico scarico e pulizia di colli, che era caduto dall’altezza di circa 5 metri mentre era posizionate sulle forche di un carrello elevatore con il quale si stava facendo portare in quota. Ritenuto il committente sia dal Tribunale che dalla corte di Appello fra i responsabili dell’accaduto in quanto identificato come datore di lavoro dell’infortunato per essere stato riconosciuto il contratto di appalto come contratto di somministrazione di manodopera. lo stesso ha ricorso per cassazione sostenendo di avere regolarmente adempiuto agli obblighi di cui all’art. 26 del D. Lgs. n. 81/2008 ed evidenziando altresì il comportamento abnorme tenuto dall’infortunato nella dinamica dell’evento infortunistico.
Il principio richiamato in primis nella sentenza e riguardante la figura del committente è quello in base al quale in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, per valutare, nel caso dell’infortunio di un lavoratore, la responsabilità del committente stesso occorre verificare in concreto l'incidenza della sua condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo.
Per quanto riguarda invece la figura e la responsabilità del datore di lavoro la suprema Corte ha richiamato l'orientamento giurisprudenziale in base al quale non può essere ascritta al datore di lavoro la responsabilità di un evento lesivo o letale per culpa in vigilando qualora non venga raggiunta la certezza della conoscenza o della conoscibilità, da parte sua, di prassi incaute dalle quali sia scaturito l'evento infortunistico e ricordato inoltre che in altre occasioni la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, in tema di infortuni sul lavoro, in presenza di una prassi dei lavoratori elusiva delle prescrizioni volte alla tutela della sicurezza, non è ravvisabile la colpa del datore di lavoro, sotto il profilo dell'esigibilità del comportamento dovuto omesso, ove non vi sia prova della sua conoscenza, o della sua colpevole ignoranza della prassi stessa.
In merito poi alla individuazione della responsabilità del datore di lavoro, nel caso dell’infortunio di un suo lavoratore dipendente, la Corte di legittimità ha richiamato il principio secondo il quale in tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro che, dopo avere effettuato una valutazione preventiva del rischio connesso allo svolgimento di una determinata attività, ha fornito al lavoratore i relativi dispositivi di sicurezza ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, non risponde delle lesioni personali derivate da una condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore stesso. Una evoluzione questa che ha avuto il sistema della normativa antinfortunistica passando da un modello "iperprotettivo", interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro, quale soggetto garante investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello "collaborativo" in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori.
Con riferimento invece al comportamento del lavoratore infortunato la Corte di Cassazione ha precisato che, in tema di infortuni sul lavoro, la condotta abnorme del lavoratore, idonea ad escludere il nesso causale, non è solo quella che esorbita dalle mansioni affidate al lavoratore stesso, ma può essere anche quella che, nell'ambito delle stesse, attiva un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia.
Alla luce di tutti gli indirizzi e gli insegnamenti sopra richiamati la Corte di Cassazione, avendo ritenute carenti e erronee in diritto le motivazioni addotte dalla Corte territoriale nella sentenza di condanna dell’imputato, ha accolto il ricorso e ha annullata la sentenza stessa con rinvio degli atti a altra Sezione per un nuovo esame e un nuovo giudizio.
Il fatto e l’iter giudiziario.
La Corte di Appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha rideterminato la pena e, per il resto, ha confermato la declaratoria di responsabilità del rappresentante legale di una società per il reato di omicidio colposo di un lavoratore dipendente. Lo stesso, secondo la ricostruzione operata dai giudici di merito, si trovava all'interno del capannone di proprietà di una società committente assieme a un suo collega con il quale stava effettuando dei lavori con l'uso di un muletto. I soccorritori infatti avevano trovato il corpo del lavoratore disteso a terra in una pozza di sangue, privo di sensi e di dispositivi di sicurezza, ai piedi di uno scaffale sito lungo la parete sinistra di un box e accanto a lui vi era il muletto con le forche ancora alzate e dirette verso lo scaffale.
Dalla perizia medica svolta sul corpo dell’infortunato era emerso che le fratture riportate dallo stesso, causa del decesso, erano compatibili con una caduta da un'altezza minima di almeno 4 metri e massima di 10 metri e trattandosi di scaffali aventi un'altezza complessiva di 5,5 metri, era stato escluso che la vittima si fosse arrampicata. Alcuni t testi avevano riferito che il lavoratore quando è caduto era posizionato sulle forche di un carrello elevatore che lo stava sollevando per effettuare dei lavori di pulizia degli scaffali.
La Corte territoriale, in ciò confermando l'impostazione del primo giudice, aveva ritenuto che il contratto di appalto stipulato dal committente con una cooperativa appaltatrice, avente ad oggetto "il carico, lo scarico e pulizia dei colli" da realizzare all'interno del capannone, fosse sostanzialmente da qualificare come contratto di somministrazione di manodopera, stipulato in violazione della legge 276/2003 e che quindi fosse da ritenersi nullo ex art. 21, comma 4, della stessa legge ciò comportando, di fatto, l'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato tra i dipendenti della cooperativa e la società committente con la conseguenza che il rappresentante legale della stessa società fosse stato identificato come datore di lavoro della persona offesa. Da ciò era stata fatta derivare la sua posizione di responsabilità in materia di sicurezza sul lavoro: per non aver predisposto alcuna misura atta ad impedire l'utilizzo inadeguato del muletto, in violazione dell'art. 71 del D. Lgs. n. 81/2008 e per omessa vigilanza; per non avere adeguatamente valutato il rischio e disposto circa i lavori di pulizia su scaffali alti o merce esposta in altezza. Erano stati esclusi, altresì, profili di abnormità della condotta del lavoratore, posto che l’infortunato era impegnato a svolgere compiti propri delle mansioni allo stesso affidate, peraltro in assenza di corsi di formazione offerti dalla parte datoriale.
Il ricorso per cassazione e le motivazioni.
Avverso la sentenza di condanna da parte della Corte di Appello il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione adducendo alcune motivazioni. Con riferimento, in particolare, alla parte in cui era stato escluso il contributo causale autonomo dei lavoratori nella produzione dell'evento, il ricorrente ha sostenuto che i giudici avevano escluso un comportamento abnorme del lavoratore, senza considerare gli aspetti innovativi del vigente modello di protezione antinfortunistica, in funzione del quale anche il comportamento esorbitante che fuoriesce dalle mansioni, ordini e disposizioni impartite dal datore di lavoro o di chi ne fa le veci, esclude la responsabilità penale del datore di lavoro. Era stato appurato il comportamento pericoloso ed incosciente dell’infortunato in quanto messo in atto senza le opportune misure di sicurezza ed in presenza di un altro socio della cooperativa il quale svolgeva anche le funzioni di preposto alla vigilanza sulle norme antinfortunistiche.
Il datore di lavoro, ha sostenuto ancora il ricorrente, non ha più un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, come in passato e nel DVR predisposto era stato previsto il divieto di sollevare e farsi alzare sulle forche del muletto ed anche quello di utilizzare scale a mano per accedere ai soppalchi o scaffalature. La carenza formativa, inoltre, non era addebitabile a lui e comunque non era stato dimostrato che la stessa abbia avuto un'efficacia causale nella produzione dell'infortunio mortale. Il collega era abilitato all'uso del muletto e l’infortunato aveva un'esperienza pluriennale nel settore. Non era stato dimostrato, altresì, che l'incidente mortale fosse avvenuto durante l'attività di pulizia delle scaffalature sulle quali erano depositati i bancali, né tra le mansioni affidate al lavoratore era stata ricompresa quella di pulizia della merce riposta sugli scaffali. Era stato dimostrato inoltre nel corso del processo e non era stato preso in considerazione dalla Corte di Appello che la Cooperativa aveva provveduto ad organizzare in modo autonomo l'aspetto della sicurezza.
Con riferimento all’applicazione dell’art. 26 del D. Lgs, n, 81/2008 il ricorrente ha sottolineato che prima dell'affidamento del servizio era stato redatto apposito verbale di sopralluogo allo scopo di portare a conoscenza dell'affidatario dei rischi propri dell'ambiente di lavoro, dandosi atto anche della acquisizione del certificato della camera di commercio, al quale era allegata la relativa comunicazione di inizio attività. Era stata acquisita anche la S.C.I.A. contenente le autocertificazioni relative ai requisiti di capacità economico-finanziaria, tecnico-organizzativa e di onorabilità.
Quanto alle violazioni degli artt. 28 e 71 del D.Lgs. 81/2008, la Corte territoriale, secondo il ricorrente, si era limitata a ricalcare pedissequamente quanto affermato dal primo giudice, senza confrontarsi con le deduzioni difensive articolate in sede di gravame riguardanti la previsione del divieto di salire sulle forche del muletto, sia nel DVR che nel verbale di sopralluogo congiunto; il medesimo divieto riprodotto su due pittogrammi visibili nel mezzo di sollevamento meccanico; il divieto di presa manuale dei carichi e di movimentazione della merce posta sulle scaffalature; il divieto di utilizzare scale a mano per accedere a soppalchi e scaffalature. Né era stato specificato quali sarebbero state le ulteriori misure tecniche ed organizzative che avrebbe dovuto assumere, atte ad impedire che il carrello elevatore venisse utilizzato per sollevare persone. Era apparso quindi del tutto contraddittorio addebitare l'omicidio colposo a suo carico, sia quale datore di lavoro di fatto dell'infortunato, sia quale committente delle opere affidate in appalto.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.
Il ricorso è stato ritenuto fondato dalla Corte di Cassazione. Con riferimento alla contestazione fatta all’imputato della violazione dell’art. 26 del D. Lgs. n. 81/2008 in relazione alla scelta inadeguata quale committente della società appaltatrice, la Corte suprema ha richiamato al riguardo il principio per cui, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, per valutare la responsabilità del committente, in caso di infortunio, occorre verificare in concreto l'incidenza della sua condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo ed ha citato a proposito la sentenza n. 5946 del 18/12/2019 della Sez. IV. In merito a tale profilo di responsabilità il ricorrente aveva dedotto, in sede di appello, motivi specifici circa l'avvenuta redazione di un apposito verbale di sopralluogo che era stato sottoscritto dalle parti, nonché in ordine all'avvenuta acquisizione della documentazione SCIA attestante la capacità tecnico-organizzativa della cooperativa, aspetti sui cui la Corte territoriale non si è minimamente soffermata, omettendo di fornire risposta ai dedotti rilievi difensivi.
Quanto all'affermato dovere di vigilanza a carico del ricorrente, la Corte suprema ha ritenuto il percorso argomentativo della sentenza impugnata carente e affetto da evidenti vizi logico-giuridici, laddove ha affermato che l'imputato "non predispose alcuna misura atta ad impedire l'utilizzo del muletto", in violazione dell'espresso divieto, contenuto nel DVR, di salire sulle forche dello stesso. Il ragionamento della Corte territoriale, ha sottolineato la Sez. IV, non ha indicato quale sarebbe stato il cosiddetto comportamento alternativo lecito né ha specificato quali misure avrebbe dovuto adottare concretamente l’imputato per impedire l'utilizzo vietato del muletto. Del resto, pare logico affermare che nel DVR lo specifico rischio di caduta dall'alto a seguito di sollevamento della persona sulle forche del muletto non potesse essere previsto, trattandosi di modalità di lavoro vietata dalle direttive impartite.
Al di là del fatto poi che un simile dovere di vigilanza non pare concretamente esigibile 24 ore su 24, i giudici di merito non hanno considerata né valutata la circostanza che, a fronte di una precisa disposizione che vietava il sollevamento di persone con il muletto, al momento dell'incidente sul posto era presente proprio il preposto alla vigilanza dell'operato della persona offesa.
La sentenza impugnata inoltre, secondo la Corte di Cassazione, non ha menzionata alcuna reale ed effettiva esigenza di vigilanza a carico dell’imputato, nel senso che non è stata accertata la conoscenza da parte del medesimo di prassi lavorative scorrette o illegittime adottate all'interno del suo capannone, fra cui quella del sollevamento delle persone mediante le forche del muletto, che giustificassero l'affermato dovere di vigilanza. La decisione sotto questo profilo non è risultata quindi in linea con l'orientamento giurisprudenziale in base al quale non può essere ascritta al datore di lavoro la responsabilità di un evento lesivo o letale per culpa in vigilando qualora non venga raggiunta la certezza della conoscenza o della conoscibilità, da parte sua, di prassi incaute e ha citato in merito la sentenza n. 20833 del 15/05/2019 della Sez. IV. Analogamente in un’altra sentenza ancora, ha ricordato la suprema Corte, la n. 32507 del 16/04/2019, è stato affermato dalla giurisprudenza di legittimità che, in tema di infortuni sul lavoro, in presenza di una prassi dei lavoratori elusiva delle prescrizioni volte alla tutela della sicurezza, non è ravvisabile la colpa del datore di lavoro, sotto il profilo dell'esigibilità del comportamento dovuto omesso, ove non vi sia prova della sua conoscenza, o della sua colpevole ignoranza, di tale prassi.
Nella sentenza impugnata, ha precisato ancora la Sez. IV, non è stata neanche argomentata la prova dell'esistenza di una prassi in tal senso; ma, quand'anche tale prova fosse emersa in giudizio, sarebbe stato comunque necessario accertare ulteriormente, quanto meno in via logica, e non certo sulla sola base dell'astratta posizione di garanzia, che il ricorrente fosse, o dovesse necessariamente essere, a conoscenza della prassi incauta.
Con riferimento, infine, alla valutazione dell’eventuale abnormità del comportamento del lavoratore infortunato la Corte di Cassazione ha evidenziato che occorre dare conto del principio dalla stessa Corte affermato secondo cui, in tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro che ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, non risponde delle lesioni personali derivate da una condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore. Si tratta di orientamento che ha precisato che il sistema della normativa antinfortunistica si è evoluto passando da un modello "iperprotettivo", interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro, quale soggetto garante investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello "collaborativo" in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori.
Ebbene nel caso in esame, ha sottolineato la Sez. IV, la Corte territoriale si è limitata a richiamare l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, ai fini della esclusione dell'interruzione del nesso causale per condotta abnorme del soggetto infortunato, è sufficiente che, nella condotta tenuta dal lavoratore, non vi sia stato superamento delle mansioni assegnate. Non è stata, invece, analizzata compiutamente la vicenda concreta in relazione alla possibile attivazione, da parte del lavoratore poi deceduto, di un rischio eccentrico riconducibile alla sua condotta imprudente, indipendentemente dal superamento delle mansioni a lui assegnate.
Sotto questo profilo, non è stato tenuto conto della più recente giurisprudenza di legittimità che, superando il requisito della radicale imprevedibilità, riconduce il concetto di abnormità della condotta colposa del lavoratore (interruttiva del nesso causale) a quella che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia. Non è stato tenuto conto altresì dalla Corte territoriale che “in tema di infortuni sul lavoro, la condotta abnorme del lavoratore, idonea ad escludere il nesso causale, non è solo quella che esorbita dalle mansioni affidate al lavoratore, ma anche quella che, nell'ambito delle stesse, attiva un rischio eccentrico od esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia”,
Nel caso di specie, invece, benché sia stato accertato che il lavoratore infortunato si era fatto sollevare mediante l’utilizzo delle forche del muletto per raggiungere una posizione elevata, senza essere munito di strumenti di protezione anti-caduta ed in violazione delle direttive che gli vietavano una simile manovra (eseguita fra l'altro in presenza del responsabile della sicurezza), i giudici di merito hanno omesso di valutare se tale condotta, indubbiamente imprudente, fosse tale da attivare un rischio esorbitante o eccentrico dalla sfera di rischio governata dall’imputato, al fine di stabilire l'eventuale ricorrenza di una condotta interruttiva del nesso causale fra il comportamento omissivo del garante e l'evento mortale.
La motivazione della Corte territoriale, in conclusione, è stata ritenuta dalla Corte suprema carente ed erronea in diritto, non avendo tenuto conto dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, per cui la stessa ha annullata la sentenza impugnata con rinvio al giudice di provenienza per un nuovo esame.
Gerardo Porreca
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