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Milano, 19 Dic - La sentenza del GIP di Tolmezzo depositata il 3 febbraio 2012 (ud. 23.1.2012) ha condannato per il reato di omicidio colposo commesso con violazione di norme prevenzionali (art. 589 c. 2 c.p.) un datore di lavoro e un dirigente (quest’ultimo responsabile dell’'impianto) i quali, in cooperazione colposa fra loro, avevano cagionato ad un dipendente dell’azienda con mansioni di capo montatore un infortunio consistito dapprima in lesioni gravissime (per sindrome da folgorazione con arresto cardiorespiratorio) e poi, dopo anni di coma vegetativo permanente da encefalopatia post-anossica nel quale la vittima aveva versato successivamente alla folgorazione, culminato nella sua morte.
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Responsabilità amministrativa a seguito di infortunio mortale
La colpa degli imputati era consistita principalmente nell’avere “omesso di impedire che la porta di accesso al quadro (elettrico) dove si è verificato l'infortunio alla vittima non fosse bloccata, con ciò consentendo l’accesso agli elementi in tensione all’interno dell’armadio omettendo di sottoporre ad idonea manutenzione la porta di accesso all'armadio”.
Nel riepilogare l’iter processuale, il Tribunale ricorda che il PM aveva proceduto - e chiesto l'emissione del decreto che dispone il giudizio dinanzi al Tribunale stesso - nei confronti oltre che degli imputati anche della società, per l’illecito amministrativo derivante da reato (ai sensi del D.Lgs. 231/01).
Tra i capi d’imputazione presenti nella sentenza del Tribunale, infatti, vi è anche l’illecito amministrativo a carico della persona giuridica, “perché traeva interesse o vantaggio dal delitto preveduto e punito dagli artt. 40 cpv., 113, 589 c.p. commesso con violazione delle norme norma antinfortunistiche e sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro […], avendo la società omesso di adottare ed efficacemente attuare un modello di organizzazione e di gestione idoneo a prevenire il reato sopra specificato per difetto di adeguate misure di “interdizione” all’accesso alla cabina elettrica di cui sopra in presenza di condizioni di pericolo per 1'incolumità del personale ivi operante […] beneficiando di cd. risparmio di spesa a ciò conseguente.”
Con la sentenza in commento il Giudice si è pronunciato sulla sola posizione dell'azienda mentre per gli altri imputati è stato disposto il rinvio a giudizio.
E, nei confronti dell’azienda, il Tribunale ha dichiarato “non luogo a procedere” perché l’illecito amministrativo contestatole “non sussiste”. Vediamo perché.
Una volta premesso che i reati-presupposto previsti dal D.Lgs. 231/01 sono principalmente di natura dolosa, il Tribunale ricorda che vi sono “due vistose eccezioni: omicidio colposo e lesioni personali colpose gravi o gravissime” commessi con violazione di norme prevenzionali (reati colposi ai quali peraltro oggi si aggiungono anche i reati ambientali).
In tali casi, prosegue il Giudice, per la verifica della sussistenza di un interesse o vantaggio dell’ente occorre“ritenere che il requisito di cui all’art. 5 D.Lgs. n. 231/2001, in caso di reato presupposto di natura colposa, possa essere riferito non all’intero fatto-reato (compreso l’evento) ma anche alla sola condotta”.
Questa interpretazione è secondo il Giudice quella “più plausibile, e seguita nella giurisprudenza di merito edita (Trib. Cagliari – GUP, 4.7.2011; Trib.Novara - GUP, 26.10.2010; Trib. Pinerolo – GUP, 23.9.2010: Trib. Trani, sez. Molfetta. 11.1.2010). Infatti essa è funzionale alla ratio dell’inserimento dei delitti in questione nel catalogo del D.Lgs. n. 231/2001, ovvero alla finalità di creare spinte dì prevenzione speciale che contrastino la libera scelta imprenditoriale, in modo che il datore di lavoro trovi più conveniente (nel quadro di un'analisi razionale del bilancio costi/benefici) comportarsi in modo lecito piuttosto che illecito.”
E, soffermandosi a questo punto sul concetto di colpa, il Tribunale precisa che “da ciò deriva però anche che non ogni profilo di colpa risulti rilevante, ma solo quelle violazioni di misure di prevenzione dei rischi lavorativi poste in essere per un obiettivo di risparmio di costi aziendali (o di analogo interesse aziendale, quale la velocità d'esecuzione delle prestazioni o l'evasione più pronta di commesse).”
Applicando questo concetto al caso di specie, il Tribunale analizza la contestazione mossa all’azienda da parte dell’accusa e osserva che “in questa causa per il PM l’interesse sociale, perseguito dagli agenti con la realizzazione della condotta vietata, sarebbe in sostanza da individuarsi “nel risparmio di spesa derivante dall'omessa adozione di un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire il reato”. Tale impostazione non può essere condivisa in radice.”
Secondo il Giudice, infatti, “l'accusa avrebbe dovuto, piuttosto, individuare quale interesse sociale il dirigente dell'incolpata abbia perseguito violando l’art 64 comma 1 lett. b)-e) D.Lgs. n. 81/2008 (questa è la violazione di norme di sicurezza ascritta e presupposta), ed in base a ciò si sarebbe potuto pienamente discutere in questa sede della relativa responsabilità dell'ente. Ma tutto ciò manca nella fattispecie e non può concedersi una progressione dibattimentale in tali condizioni.”
E aggiunge, proseguendo questo ragionamento secondo il quale sostanzialmente l’interesse dell’ente alla commissione del reato da parte della persona fisica non può essere tautologicamente dedotto dalla mancata adozione di un modello organizzativo: “ciò anche perché non è vero che ad ogni delitto di omicidio e lesioni colpose segua necessariamente ed immancabilmente la responsabilità amministrativa dell’ente per cui il reo operava.
Peraltro occorre rilevare che dagli atti d’indagine emerge che esistevano in loco procedure di sicurezza e sistemi protettivi, in base a valutazioni ex ante del tutto adeguate; solo che in ambito locale, decentrato ed in via episodica (con piena rimproverabilità agli imputati per il fatto che tali sistemi non fossero al momento pienamente utilizzabili perché “bloccati” per mancata lubrificazione dei meccanismi) un operatore si è introdotto ove non doveva.
Manca dunque la possibilità di individuare un interesse concreto dell’ente in una vicenda di tal genere.”
In conclusione, secondo il Tribunale “stante quanto sopra, ai sensi dell’art. 61 D.Lgs. n. 231/2001 [che prevede che “il giudice dell’udienza preliminare pronuncia sentenza di non luogo a procedere nei casi di estinzione o di improcedibilità della sanzione amministrativa, ovvero quando l’illecito stesso non sussiste o gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere in giudizio la responsabilità dell’ente”, n.d.r.] occorre fin d'ora pronunciare sentenza di non luogo a procedere perché l’illecito ascritto non sussiste”.
Anna Guardavilla
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Rispondi Autore: davide dalla pria - likes: 0 | 19/12/2012 (09:26:22) |
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