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Gerardo Porreca
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La validità del verbale dell’ispettore del lavoro quale atto non ripetibile
Si è espressa la Corte di Cassazione in questa breve sentenza in merito alla validità del verbale redatto da un ispettore del lavoro quale atto non ripetibile compiuto dalla polizia giudiziaria. Il verbale dell'ispettore del lavoro ha sostenuto, infatti, la suprema Corte, non costituisce una mera informativa di reato ai sensi dell'art. 347 c.p.p. poiché contiene l'accertamento o la descrizione di una situazione di fatto suscettibile di modifica nel tempo per effetto di comportamenti umani o di eventi naturali. Lo stesso, pertanto, va annoverato tra gli atti non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria (art. 431 c.p.p., lett. b) e come tale, va inserito nel fascicolo per il dibattimento e ne va data lettura a richiesta di parte o su iniziativa del giudice (art. 511 c.p.p., comma 1), essendo utilizzabile come fonte di prova.
Il caso e il ricorso in cassazione
Il Tribunale ha condannato il presidente di un circolo privato alla pena di euro 1.200 di ammenda ritenendolo colpevole della contravvenzione dell’art. 14 comma del D. Lgs. n. 66 del 2003 per avere occupato una lavoratrice notturna in assenza di una preventiva visita medica di idoneità. Per giungere a tale conclusione il Tribunale ha considerato la documentazione trasmessa dal pubblico ministero e, in particolare il verbale contenente le dichiarazioni rese agli Ispettori del Lavoro dalla lavoratrice la sera stessa dell'ispezione nel locale nonché le affermazioni dell'imputato.
Il difensore dell’imputata ha fatto ricorso per cassazione denunziando, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) e lett. e), la violazione di norme processuali (artt. 512 e 512 bis c.p.p.) e il vizio di motivazione dolendosi innanzitutto del fatto che il giudice aveva utilizzato le dichiarazioni rese durante le indagini preliminari da una teste mai sentita in dibattimento e in assenza delle condizioni di cui agli artt. 512 e 512 bis c.p.p., perché la donna risultava residente ancora in Italia. Lo stesso difensore ha denunziato inoltre il vizio di motivazione perché una teste in dibattimento aveva dichiarato che nel circolo non esistevano né orari, né dipendenti né stipendi e che la somma di euro 500,00 veniva data alla lavoratrice a titolo di donazione da un socio e non come retribuzione. Ad avviso del ricorrente, infine, è mancata la prova che la lavoratrice svolgesse un lavoro con orario predeterminato e seguisse le direttive del presidente del circolo.
Le decisioni della Corte di Cassazione
Il ricorso è stato ritenuto dalla Sez. III penale della Corte di Cassazione infondato. Secondo la stessa, infatti, “il verbale dell'ispettore del lavoro non costituisce mera informativa di reato ai sensi dell'art. 347 c.p.p., poiché contiene l'accertamento o la descrizione di una situazione di fatto suscettibile di modifica nel tempo, per effetto di comportamenti umani o di eventi naturali”. “Esso”, ha così proseguito, “va, pertanto, annoverato tra gli atti non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria (art. 431 c.p.p., lett. b); come tale, va inserito nel fascicolo per il dibattimento e ne va data lettura a richiesta di parte o su iniziativa del giudice (art. 511 c.p.p., comma 1), essendo utilizzabile come fonte di prova”.
In ogni caso, ha aggiunto la suprema Corte, dalla sentenza impugnata è risultato che la colpevolezza dell'imputato è stata affermata non esclusivamente sulla base delle dichiarazioni rese all'ispettore del lavoro, in occasione della sua ispezione, dalla lavoratrice, dichiarata irreperibile in 'udienza senza peraltro alcuna opposizione del difensore, ma anche sulla scorta delle affermazioni della stessa imputata nella parte in cui "ha ammesso che la ragazza in questione riceveva periodicamente una somma di danaro", mentre invece sono state ritenute prive di riscontro probatorio le ulteriori precisazioni (e cioè che si trattava di un contributo versato per conto di un socio ammiratore della ragazza che non voleva figurare direttamente).
Era da escludere quindi, secondo la Sez. III, qualunque violazione del principio di cui all'art. 526 c.p.p. e di quelli contenuti nell'art. 6 della CEDU come interpretati dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (nel senso che può astrattamente concepirsi una deroga al principio della formazione della prova in contraddittorio purché, naturalmente, la condanna non si sia basata esclusivamente sulle dichiarazioni rese in fase anteriore al dibattimento su cui non si è avuto modo di replicare) e pertanto la Corte di Cassazione, non meritando censura la sentenza che, con riferimento alla posizione della lavoratrice, aveva desunto l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato sulla scorta delle dichiarazioni rese a verbale dalla donna e sulle dichiarazioni dell'imputata, ha rigettato il ricorso confermando la condanna a suo carico.
Gerardo Porreca
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