La responsabilità per la morte di un lavoratore attaccato da un toro
Davvero singolare l’infortunio al quale si riferisce questa sentenza della Corte di Cassazione e cioè quello accaduto con esito mortale a un lavoratore attaccato e ucciso da un toro in una stalla e per il quale è stato condannato nei due primi gradi di giudizio il datore di lavoro che ha fatto ricorso alla Corte di Cassazione chiedendo l’annullamento della stessa. L’accusa mossa all’imputato era stata quella di non avere provveduto a creare delle vie di fuga nell’area recintata nella quale il lavoratore che svolgeva le mansioni di mungitore era stato attaccato dall’animale e per non avere idoneamente formato e informato lo stesso per lo svolgimento della sua attività. L’accusa aveva interessata anche la mancata valutazione del rischio specifico nel documento di valutazione dei rischi, la mancata adozione di idonee misure di prevenzione nonché la mancata fornitura al lavoratore dei DPI necessari.
Avendo l’imputato sostenuto nel ricorso che la vittima dell’accaduto era persona esperta per la sua lunga attività nel settore specifico, la Corte di Cassazione ha richiamato quanto più volte dalla stessa sostenuto in precedenti occasioni e cioè che la formazione riveste un carattere obbligatorio di particolare importanza per i lavoratori in quanto si sostanzia nel fornire agli stessi gli strumenti necessari a comprendere, prima ancora che ad affrontare, le varie situazioni che possono verificarsi nello svolgimento della loro attività, con particolare riguardo a quelle rischiose.
La formazione, ha sottolineato infatti la suprema Corte, riveste carattere obbligatorio proprio per assicurare a tutti i lavoratori, anche a quelli verosimilmente più preparati, un adeguato apporto conoscitivo, iniziale e consecutivo, per assicurare un corretto svolgimento dell'attività; più volte la stessa ha affermato, del resto, che il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell'infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore il quale, nell'espletamento delle proprie mansioni, pone in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi. L'adempimento di tali obblighi, ha aggiunto inoltre la suprema Corte, non è escluso né è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenza che comunemente sì realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro.
Il fatto e l’iter giudiziario.
La Corte di Appello, in parziale riforma della pronuncia emessa dal Tribunale, ha ridotto ad otto mesi di reclusione la pena inflitta a un datore di lavoro per il delitto di omicidio colposo. L’imputato ha proposto ricorso per cassazione deducendo alcune motivazioni. Lo stesso ha contestato innanzitutto un vizio di motivazione, in quanto i Giudici, per un verso, avevano censurata la mancata formazione del lavoratore poi deceduto, e, per altro verso, avevano attestato che questi aveva superato il periodo di prova, a conferma del fatto che si trattava di un lavoratore esperto, con preparazione decennale e di livello superiore a quella che un corso di base avrebbe potuto garantire. Il lavoratore peraltro. contrariamente a quanto si legge in sentenza, non sarebbe stato addetto alla sola attività di mungitura che stava svolgendo ma si occupava, in generale, della gestione e del governo degli animali, ciò che il lavoratore deceduto di certo sapeva fare (tanto da avere un timore reverenziale per il toro). L'istruttoria, peraltro, non avrebbe dimostrato che una diversa e migliore recinzione avrebbe impedito l'evento, anche considerando che quella in cui il fatto era avvenuto era un'area destinata alle bovine, animali certamente più mansueti del toro. Il lavoratore, peraltro, sarebbe entrato nel recinto dove si trovava il toro contro le direttive impartite dal ricorrente (oltre che senza strumenti ed in presenza di un toro irrequieto), disobbedendo quindi al datore di lavoro in tal modo interrompendo un eventuale nesso causale.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.
Il ricorso è risultato, secondo la Corte di Cassazione, manifestamente infondato. La stessa ha ritenuto che la sentenza impugnata, ha riconosciuta la colpevolezza dell'imputato con un apparato argomentativo più che solido, fondato su oggettive risultanze istruttorie e privo di qualsiasi illogicità o contraddizione; come tale, dunque, non censurabile. I giudici della cognizione, infatti, hanno evidenziato plurime omissioni alla disciplina antinfortunistica, così riscontrando il capo di imputazione. In primo luogo, è stato accertato che la stalla nella quale si trovava il toro era priva delle necessarie vie di fuga, tali da garantire l'uscita dai box o una separazione dall'animale in caso di pericolo: le poche misure previste nel documento di valutazione rischi (DVR), infatti, erano del tutto generiche in punto di rischio da schiacciamento e, peraltro, non erano state attuate. L'istruttoria inoltre non aveva provato che il lavoratore fosse stato munito di dispositivi di protezione individuale (DPI); agli atti vi era una dichiarazione scritta dal ricorrente, priva, tuttavia, di sottoscrizione del dipendente che avrebbe ricevuto i dispositivi. Infine, una ulteriore circostanza era pacificamente emersa e cioè che il lavoratore non aveva ricevuto alcun corso di formazione per la sicurezza; entrambe le sentenze, al riguardo, e in particolare quella di appello, avevano opportunamente sottolineato che la formazione riveste un carattere di particolare importanza per il lavoratore, in quanto si sostanzia nel fornire a questi gli strumenti necessari a comprendere, prima ancora che ad affrontare, le varie situazioni che possono verificarsi nello svolgimento dell'attività, con particolare riguardo a quelle rischiose.
Già il Tribunale, peraltro, ha aggiunto la suprema Corte, aveva evidenziato sul punto che la responsabilità del ricorrente non poteva essere esclusa dal fatto che il lavoratore avesse già maturata una esperienza nel settore, presso altre aziende; la formazione, infatti, riveste carattere obbligatorio proprio per assicurare a tutti i lavoratori, anche a quelli verosimilmente più preparati, un adeguato apporto conoscitivo, iniziale e consecutivo, per assicurare un corretto svolgimento dell'attività. La Corte di Cassazione, del resto, ha già più volte affermato che il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell'infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore il quale, nell'espletamento delle proprie mansioni, pone in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi, e l'adempimento di tali obblighi non è escluso né è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenza che comunemente sì realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro.
Le sentenze di merito, ha precisato inoltre la suprema Corte, avevano adeguatamente risposto anche alla censura in punto di nesso di causalità, peraltro riproposta in sede di legittimità, con affermazione generica e priva di confronto con la motivazione resa dalla Corte di appello. La tesi in particolare secondo cui l'attacco dell'animale non sarebbe stato prevedibile e che, in ogni caso, il lavoratore avrebbe potuto allontanarsi scavalcando la recinzione o attraversando le sbarre, non poteva essere condivisa: l'istruttoria aveva infatti provato l'assenza di vie di fuga (pur formalmente previste nel DVR), non surrogabili da un mero varco nel recinto il cui accesso, peraltro, era risultato di difficile praticabilità a causa delle condizioni del pavimento. Quanto, poi, alla prevedibilità dell'attacco, la circostanza aveva trovato pacifica conferma istruttoria, in sede sia testimoniale che di esame dell'imputato: il toro, infatti, era risultato molto irrequieto, tanto che il veterinario lì presente aveva invitato il ricorrente (e, per lui, i suoi dipendenti) a non entrare nel box in cui l'animale stesso si trovava.
L’imputato, per contro e così come ben indicato nella sentenza di primo grado e confermato in appello, aveva deciso di fare ingresso nel recinto per provare a muovere le bovine, intimando alla persona offesa di rimanere all'esterno. Ebbene, questi aveva rispettato la prescrizione, senza dunque tenere alcun comportamento abnorme, come invece affermato nel ricorso; tuttavia, proprio questo comportamento corretto ne aveva cagionato la morte, in quanto il ricorrente aveva fatto uscire dal box il toro, che così era entrato nello stesso ambiente in cui si trovava il lavoratore, colpito e caricato senza scampo a causa dell'assenza di vie di fuga. La responsabilità dell’imputato, pertanto, è stata motivata con argomenti del tutto solidi e non censurabili, e con i quali il ricorso di fatto non si è confrontato, così da dover essere dichiarato inammissibile sul punto.
Rilevato infine che, nella fattispecie, non sono emersi elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell'inammissibilità è susseguito, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 3.000 euro.
Gerardo Porreca