La responsabilità dell'ente quando l'autore del reato non è identificato
All'assoluzione della persona fisica imputata del reato presupposto per una causa diversa dalla rilevata insussistenza di quest'ultimo non consegue automaticamente l'esclusione della responsabilità dell'ente per la sua commissione, poiché tale responsabilità, ai sensi dell’art. 8 del D. Lgs. n. 231 del 2001, deve essere affermata anche nel caso in cui l'autore del suddetto reato non sia stato identificato. E’ questo il principio che emerge dalla lettura di questa sentenza della Corte di Cassazione alla quale ha fatto ricorso una società che si era vista rigettare dalla Corte di Appello una istanza di revisione di una condanna dalla stessa società subita per illecito amministrativo ex art. 5 del D. Lgs. n. 231/2001 dopo che i rappresentanti della società erano stati assolti perché il fatto non sussiste per i reati presupposti collegati all’illecito amministrativo.
La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso richiamando altresì un altro principio in base al quale, in caso di revisione della sentenza avente ad oggetto la responsabilità dell'ente ai sensi del D. Lgs. n. 231 del 2001 per contrasto di giudicato ex art. 630, comma 1, lett. a) c.p.p., ove in separato giudizio si sia pervenuti all'assoluzione della persona fisica per il reato presupposto è sempre necessario verificare se la ricorrenza del fatto illecito sia stata accertata, discendendo la inconciliabilità del giudicato solo dalla negazione del fatto storico e non anche dalla mancata individuazione della persona fisica del suo autore, ciò in quanto, ai sensi dell’art. 8 del D. Lgs. n. 231 del 2001, la responsabilità dell'ente sussiste anche quando l'autore del reato non è stato identificato.
Il fatto, l’iter giudiziario, il ricorso per cassazione e le motivazioni.
La Corte di Appello con un’ordinanza ha dichiarato inammissibile l'istanza di revisione, proposta ai sensi degli artt. 630, 633 c.p.p. e 73 del D. Lgs. n. 231 del 2001, della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti resa dal Tribunale e divenuta irrevocabile nei confronti di una società a responsabilità limitata all'epoca società per azioni. L'istanza era stata proposta dalla società ricorrente per la risoluzione del conflitto, ex art. 630, comma 1, lett. a) c.p.p., tra la sentenza di patteggiamento pronunciata dal Tribunale nei confronti dell'ente e la sentenza pronunciata nei confronti degli imputati-persone fisiche, i quali erano stati mandati assolti dal reato di cui all'art. 590, comma 3, c.p. per insussistenza del fatto.
La Corte territoriale ha rigettato l'istanza, osservando la mancata ricorrenza dei presupposti applicativi dell'istituto della revisione. La stessa ha richiamato in proposito il consolidato principio stabilito in sede di legittimità, in base al quale, in caso di contrasto tra giudicati, è possibile la revisione soltanto ove vi sia inconciliabilità tra i fatti storici stabiliti a fondamento delle due sentenze, negando tale requisito.
La società ha proposto ricorso per Cassazione a mezzo del proprio difensore, lamentando contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione addotta dalla Corte di Appello, meritevole secondo la stessa di essere censurata e basando il ricorso sulle osservazioni di seguito indicate
L'orientamento citato nella ordinanza è inconferente rispetto al thema decidendum, poiché esso si riferisce ad ipotesi di conflitto di giudicati risultanti da sentenze pronunciate nei confronti di persone fisiche. Con riferimento invece alle ipotesi di revisione di sentenze pronunciate nei confronti dell'ente deve ritenersi ammissibile la richiesta di revisione della sentenza di patteggiamento a carico dell'ente collettivo a fronte di una pronuncia irrevocabile del giudice penale che escluda a sussistenza del reato presupposto.
L'addebito all'ente collettivo inoltre andrebbe sicuramente escluso nel caso in cui la persona fisica autrice dell'illecito penale sia stata assolta "perché il fatto non sussiste", mancando in tal caso il presupposto del regime di responsabilità disciplinato dal D. Lgs. n. 231 del 2001. L'accertamento della responsabilità amministrativa degli enti, infatti, si fonda su un modello di imputazione che, seppur mutuato da quello penalistico, è peculiare, prevedendo l'affermazione di responsabilità solo in caso di ricorrenza del presupposto della commissione di un fatto che costituisce reato.
Con la sentenza di assoluzione dei due imputati-persone fisiche inoltre, rispettivamente delegato dal datore di lavoro alla sicurezza e custode dello stabilimento, il Tribunale aveva accertato che era era insussistente il reato di lesioni colpose costituente, secondo il modello normativo di cui al D. Lgs. n. 231 del 2001, il cosiddetto reato presupposto della responsabilità della società. Dal punto di vista sistematico, la struttura generale dell'illecito dell'ente tipizzata dalla legge insiste proprio sulla commissione di un reato presupposto da parte di un soggetto funzionalmente legato all'ente.
Il D. Lgs. n. 231 del 2001 altresì, nella prospettiva di indicare l'esimente della responsabilità, non prevede affatto la sanzionabilità dell'ente per aver meramente omesso di adottare un modello di organizzazione, gestione e controllo, ma prevede, invece, la punibilità dell'ente che abbia consentito la realizzazione del reato presupposto - elemento indefettibile e irrinunciabile della responsabilità degli enti -perché privo di un' organizzazione idonea a minimizzare il rischio del verificarsi di tali reati. In mancanza del reato presupposto, pertanto, nessuna responsabilità può essere addebitata all'ente.
È evidente, infine, che l'assoluzione delle persone fisiche con la formula "perché il fatto non sussiste" esclude l'accertamento di quegli elementi oggettivi che dovrebbero caratterizzare il reato-presupposto. Si tratta, infatti, di una formula che statuisce l'assenza del reato-presupposto contestato.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.
Il ricorso è stato ritenuto inammissibile dalla Corte di Cassazione secondo la quale è stata corretta la decisione di cui al provvedimento impugnato.
Per consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha precisato la stessa, il giudizio di revisione non può essere fondato sulla incompatibilità di due giudicati, a meno che non vi sia prova che tale incompatibilità riguardi il fatto storico. In tema di revisione, infatti, il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili di cui all'art. 630, comma 1, lett. a), c.p.p., deve essere inteso con riferimento ad una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici stabiliti a fondamento delle diverse sentenze, non alla contraddittorietà logica tra le valutazioni operate nelle due decisioni; ne consegue che gli elementi in base ai quali si chiede la revisione devono essere, a pena di inammissibilità, tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve esser prosciolto e, pertanto, non possono consistere nel mero rilievo di un contrasto di principio tra due sentenze che abbiano a fondamento gli stessi fatti. Nel caso in esame la "inconciliabilità" non si riferisce ai "fatti stabiliti a fondamento della sentenza di condanna".
Nel caso in esame, ha così proseguito la Sezione IV, il fatto storico è rappresentato dalla esistenza di un infortunio occorso sul luogo di lavoro in uno stabilimento ad un dipendente della società. Nella sentenza di assoluzione invero non è stato negato il fatto (caduta di un portone scorrevole, non correttamente assicurato alle guide, che aveva cagionato lesioni gravi a un dipendente), ma è stato escluso che i due imputati rivestissero una posizione di garanzia.
La difesa degli imputati, ha sottolineato inoltre la Corte di Cassazione, aveva sostenuto nel ricorso che la pronuncia assolutoria aveva accertato che fosse insussistente il reato di lesioni colpose, costituente secondo il modello normativo di cui al D. Lgs. n. 231 del 2001 il reato presupposto della responsabilità della società, ma non è in effetti così avendo invece la sentenza affermato in realtà una cosa diversa, per avere ritenuto che i due imputati non avessero rivestito una posizione di garanzia. La lettura della sentenza ha quindi in sintesi rivelato tutt'altro e cioè che il giudice ha ritenuto che il fatto era sussistente ma che non fosse ascrivibile a responsabilità degli imputati.
La Corte di Cassazione ha quindi rammentato come in tema di responsabilità da reato degli enti ex D. Lgs. n. 231 del 2001 è stato stabilito, con sentenza n. 20060 del 04/04/2013 della V Sezione penale, che “all'assoluzione della persona fisica imputata del reato presupposto per una causa diversa dalla rilevata insussistenza di quest'ultimo non consegua automaticamente l'esclusione della responsabilità dell'ente per la sua commissione, poiché tale responsabilità, ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 8, deve essere affermata anche nel caso in cui l'autore del suddetto reato non sia stato identificato”. Il condivisibile principio espresso in questa pronuncia può essere esteso al caso in esame essendo stato accertato nella pronuncia assolutoria che l’infortunio fosse accaduto, rimanendo non individuate le figure dei responsabili dello stesso.
Dalla disamina del caso in esame si può trarre, secondo la suprema Corte, in conclusione il seguente principio: "In caso di revisione della sentenza avente ad oggetto la responsabilità dell'ente ai sensi del D. Lgs. n. 231 del 2001 per contrasto di giudicato - art. 630, comma 1, lett. a) c.p.p. ove in separato giudizio si sia pervenuti all'assoluzione della persona fisica per il reato presupposto, è sempre necessario verificare se la ricorrenza del fatto illecito sia stata accertata, discendendo la inconciliabilità del giudicato solo dalla negazione del fatto storico e non anche dalla mancata individuazione della persona fisica del suo autore. Ciò in quanto, ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 8, la responsabilità dell'ente sussiste anche quando l'autore del reato non è stato identificato".
Alla declaratoria d'inammissibilità del ricorso è quindi conseguita la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, a norma dell'art. 616 c.p.p., al versamento della somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2003).
Gerardo Porreca
I contenuti presenti sul sito PuntoSicuro non possono essere utilizzati al fine di addestrare sistemi di intelligenza artificiale.