La responsabilità del gestore di un fondo agricolo per un infortunio
Nel decidere su di un ricorso presentato dal gestore di un fondo agricolo condannato per l’infortunio mortale accaduto su di esso a un collaboratore caduto da una scala nel mentre stava raccogliendo degli agrumi, la suprema Corte ha richiamato il consolidato insegnamento ricorrente nella giurisprudenza di legittimità ai sensi del quale, in tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine all'incolumità fisica dei lavoratori, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo dagli stessi lavoratori il rispetto delle regole di cautela, sicché la sua responsabilità può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e, comunque, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile.
Nel caso in esame l’imputato, quale gestore del fondo, era titolare di un vero e proprio obbligo di garanzia a tutela dell'incolumità del lavoratore infortunato per cui competeva a lui l'obbligo giuridico dell'esatta osservanza delle misure antinfortunistiche e, quindi, di dotare l'occasionale collaboratore di una scala conforme alla previsioni dell’art. 133 del D. Lgs. n. 81/2008.
Il fatto, l’iter giudiziario e il ricorso per cassazione
La Corte di Appello ha confermata la sentenza con cui il Tribunale aveva riconosciuto il gestore di un fondo agricolo responsabile del reato di omicidio colposo ai danni di un collaboratore, per colpa generica, nonché per l'inosservanza delle norme antinfortunistiche afferenti alla raccolta degli agrumi che veniva eseguita con l'utilizzo di scale semplici, prive di ganci di trattenuta, appoggi antisdrucciolevoli e livellamento del piano di pendenza. In particolare, nella ricostruzione operata dai giudici di merito, il lavoratore, giunto presso il fondo, incaricato dal gestore di procedere alla raccolta dei limoni operazione che eseguiva senza casco protettivo e mediante l'utilizzo di una scala comune inadeguata ad effettuare lavori a 7 m di altezza su piano di calpestio in pendenza, con inclinazione di circa 25%, con uno strapiombo di 5,50 m sulla destra, improvvisamente, durante l'esecuzione del lavoro, cadeva con tutta la scala, precipitando sulla piazzola sottostante e decedendo per le gravi ferite riportate.
Avverso la sentenza della Corte di Appello ha ricorso per cassazione il difensore dell'imputato eccependo una violazione dell'art. 589 cod. pen. e dell'art. 2, lett. b), del D. Lgs. n. 81/2008, con particolare riferimento alla ritenuta sussistenza della qualifica di datore di lavoro. Non vi è alcun elemento probatorio, ha sostenuto il ricorrente, da cui dedurre, oltre ogni ragionevole dubbio, che l'imputato abbia invitato la vittima a prestare il proprio contributo lavorativo. Costituisce mera congettura l'assunto secondo cui l'imputato, nel brevissimo lasso temporale di escursione in giardino, insieme al figlio e alla vittima, avesse dato disposizioni per la raccolta dei limoni, per poi rientrare in casa. Le numerose cassette di limoni, appena raccolti, erano state riempite dal ricorrente e non dall'infortunato il quale si trovava, sino alle 12.30, nella tenuta di un altro proprietario e non presso il suo fondo. Risulterebbe provato inoltre, secondo il ricorrente, che, quando la vittima raggiunse il fondo, la raccolta dei limoni era terminata, sicché non aveva alcuna necessità di ricorrere all'ausilio del figlio o del lavoratore infortunato. Il giudice dell'appello, inoltre, non avrebbe tenuto conto delle risultanze probatorie, richiamate dalla difesa e aventi il carattere della decisività.
Come secondo motivo il ricorrente ha lamentato una violazione dell'art. 539 cod. proc. pen. e una mancanza di motivazione in ordine all'avvenuta quantificazione del danno riconosciuto alle parti civili. Non sarebbe stato infatti accertato, in entrambe le sentenze di merito, qualunque profilo fattuale che potesse incidere sulla determinazione del danno risarcibile, essendosi fatto ricorso alle tabelle del Tribunale. Peraltro, nel computo del risarcimento del danno si sarebbe dovuto altresì considerare il concorso di colpa della vittima che ha agito in modo affrettato, utilizzando una scala in una zona pericolosamente inclinata.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione
Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione. Secondo la stessa la qualificazione giuridica del rapporto intercorrente tra l'imputato e la vittima dell'infortunio aveva formato oggetto di specifico approfondimento da parte della Corte di merito, trattandosi di questione incidente sull'estensione della responsabilità dell’imputato in materia antinfortunistica e del rischio che questi, nella sua qualità, si trovava a gestire. La sentenza impugnata, inoltre, aveva tenuto conto di quanto sostenuto dagli ispettori del lavoro nel loro rapporto informativo nel quale avevano indicato che l’imputato gestiva il limoneto, per conto del proprietario dello stesso, realizzando, durante tutto l'arco dell'anno, lavori di potatura, spruzzando antiparassitari e simili, sistemando i telai di copertura e provvedendo alla raccolta finale del prodotto. Egli operava in piena autonomia quanto alla programmazione e all'esecuzione dell'attività (comprese le spese di acquisto dei materiali utilizzati per la coltura dei limoni), venendo retribuito annualmente dalla moglie del proprietario.
La sentenza impugnata, ha inoltre osservato la Sez. IV, ha richiamata la normativa specifica antinfortunistica di settore, riportata anche dai predetti ispettori del lavoro nel loro rapporto, a norma della quale (art. 21 del D. Lgs. n. 81/2008) "i coltivatori diretti del fondo, i soci delle società semplici, i componenti dell' impresa familiare devono utilizzare attrezzature da lavoro conformi alle disposizioni di cui al Titolo III", e, quindi, quanto alle scale, secondo la specifica normativa antinfortunistica dettata dal successivo art. 113. La Corte di Appello, peraltro, aveva rilevato come la qualifica di imprenditore agricolo o di coltivatore diretto in capo all’imputato si desumesse anche dal certificato di iscrizione alla Camera di Commercio e Agricoltura (allegato alla citata informativa ed acquisita agli atti).
Correttamente, pertanto, la Corte territoriale aveva sostenuto, secondo la Cassazione, che l'imputato era titolare di un vero e proprio obbligo di garanzia a tutela dell'incolumità del lavoratore e che, essendosi verificato l'infortunio sul luogo di lavoro, e quindi entro l'area di rischio, competeva al medesimo, in quanto gestore del fondo, l'obbligo giuridico dell'esatta osservanza delle misure antinfortunistiche, quindi, nel caso di specie, di dotare l'occasionale collaboratore di una scala conforme alla previsioni del citato art. 133 del D. Lgs. n. 81/2008, proprio in quanto titolare della specifica posizione di garanzia.
Sul punto, invero, la suprema Corte ha ritenuto di richiamare il consolidato insegnamento della Corte di legittimità, ai sensi del quale, “in tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine all'incolumità fisica dei lavoratori, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo dagli stessi lavoratori il rispetto delle regole di cautela, sicché la sua responsabilità può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e, comunque, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile”
Parimenti infondato ha ritenuto la suprema Corte il secondo motivo di ricorso. La motivazione della sentenza impugnata si appalesa immune dalle sollevate censure atteso che, nel confermare le statuizioni civili e la provvisionale, stabilita nella misura di 165.960 euro, dal primo giudice, ha affermato che detto ammontare minimo deve «ritenersi provato per la morte del lavoratore a seguito d'infortunio sul lavoro, anche alla luce dell'elevato grado di colpa dell'imputato, quasi ai limiti della colpa cosciente, non potendosi ravvisare alcun concorso di colpa in capo alla vittima, peraltro nemmeno specificato dall'appellante ma solo genericamente evocato».
In conclusione, per i motivi sopra indicati, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Gerardo Porreca
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