La gestione del rischio interferenziale
La Cassazione Penale, con la pronuncia della sezione dell’8 aprile 2024, n. 14070 è tornata ad approfondire la tematica del rischio interferenziale riguardo la caduta di un lavoratore all’interno di un lucernario lasciato non protetto da un’altra impresa.
Chi scrive, a differenza di molti altri commentatori ha sempre preferito analizzare pronunce in cui il ricorso del CSP o del CSE era stato accolto dalla Suprema Corte valorizzandone le conclusioni. Stavolta, però, va fatta un’eccezione in quanto la pronuncia è molto interessante perché effettua un’attenta disamina delle funzioni del CSP e del CSE evidenziando come carenti scelte progettuali e, soprattutto, organizzative nel PSC abbiano concorso a causare l’evento. Tant’è che il ricorso del datore di lavoro dell’impresa esecutrice è stato accolto, con rinvio alla Corte d’appello per un nuovo giudizio, mentre quello del CSE è stato rigettato.
La pronuncia riguarda il ricorso presentato da un CSP/CSE e da un datore di lavoro per la conferma, da parte della Corte di Appello di Bologna della colpevolezza di entrambi del reato di lesioni colpose gravissime con violazione delle norme per la prevenzione infortuni e li aveva condannati alla pena di giustizia con il riconoscimento di circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti rispetto alle circostanze aggravanti contestate.
Al CSP/CSE veniva ascritta, oltre a profili di colpa generica, la violazione dell'art. 92 comma 1 lett. b) del D. Lgs. n. 81/2008 per avere omesso di individuare nel PSC i fattori di rischio presenti nelle lavorazioni in cui erano intenti, presso il cantiere, alcuni lavoratori “in somministrazione” impiegati dall’impresa. I lavori consistevano nella sostituzione e nel fissaggio di elementi portanti (coppelle e tegoli) della copertura di un fabbricato industriale del quale era in corso la sostituzione della copertura. In particolare, al professionista che ricopriva le funzioni di CSE, veniva contestato di aver omesso di indicare le misure di tutela contro il rischio di caduta dei lavoratori attraverso i lucernari presenti sulla copertura.
Al datore di lavoro dell’impresa esecutrice delle citate lavorazioni, era invece ascritta, oltre a profili di colpa generica, l’inosservanza dell'art.115 D.Lgs. 81/2008, per avere omesso di indicare nel POS le misure di protezione contro il rischio della caduta dai lucernari verso l'interno dell'edificio. In conseguenza di tali omissioni era derivata la caduta all'interno di lucernario di un lavoratore dipendente di una società interinale, prestato in somministrazione all’impresa il quale, intento nell'attività di fissaggio strutturale ai tegoli a V delle coppelle di copertura, finiva per calpestare la superficie della copertura ove vi era un lucernario, privo di rete protettiva e senza lastra in plexiglass, precipitando a terra da un'altezza di circa nove metri, riportando lesioni personali gravissime con schiacciamento vertebrale che inducevano una completa tetraparesi.
La Corte di appello, richiamando gli argomenti sviluppati dal giudice di primo grado, premessi gli elementi di fatto e l'esame delle fonti probatorie, nel disattendere i motivi di impugnazione degli imputati, evidenziava che si era in presenza della mancata gestione di un rischio interferenziale in quanto si erano succedute due distinte fasi di lavoro eseguite da imprese diverse. L’impresa dell’infortunato operava in rapida successione rispetto all’altra impresa incaricata dello smontaggio delle componenti della copertura. Quest’ultima impresa avrebbe dovuto procedere anche alla sostituzione della copertura una volta che il personale della prima impresa avesse completato il suo compito (verifica, manutenzione ed eventuale sostituzione dei fissaggi tra tegoli e coppelli).
L’interferenza tra le suddette lavorazioni secondo la Corte d’appello <<aveva determinato una fondamentale lacuna nella previsione e nella integrazione degli strumenti prevenzionistici in quanto l’impresa che aveva proceduto, ovvero stava procedendo, alla progressiva rimozione delle componenti della copertura, aveva dovuto altresì sganciare le reti metalliche che proteggevano i lucernari sommitali, posti sopra i coppelli lasciando in tal modo privi di chiusura i suddetti accessi, di cui era stato altresì rimossa la protezione in plexiglass, di talché le superfici ove si trovavano le aperture non potevano essere calpestabili>>.Pertanto, secondo la Corte territoriale, il rischio di caduta all'interno dei lucernari, privi di lastra in plexiglass e di reti di protezione non era stato individuato dal CSP/CSE,il quale aveva previsto nel PSC e nelle successive riunioni di coordinamento solo il pericolo di cadute verso l'esterno per il personale impegnato sulla sommità della copertura.
Sempre secondo la Corte d’appello, anche per il datore di lavoro dell’impresa esecutrice, erano ravvisabili profili di responsabilità per colpa specifica per non avere contemplato nel POS analoghi rischi di caduta dall’alto, tenuto conto che le lavorazioni seguivano necessariamente gli interventi di rimozione della copertura anche in coincidenza dei lucernari dai quali era stata rimossa la rete di protezione.
Inoltre, la Corte territoriale escludeva al contempo l'abnormità ovvero l'eccezionalità della condotta del lavoratore che aveva utilizzato una porzione della copertura allo stesso preclusa e comunque non necessaria per procedere alla lavorazione richiesta e ribadiva che, vista la tipologia di rischio di caduta dall’alto determinato dalla precedente lavorazione <<un sistema di ancoraggio dei lavoratori mediante l'aggancio a linee vita avrebbe impedito il verificarsi dell'evento>>.
Il ricorso in Cassazione presentato dal datore di lavoro dell’impresa esecutrice era articolato in sei distinte motivazioni.
Con il primo motivo di ricorso si evidenziava il vizio logico costituito dal fatto che l’impresa incaricata dello smontaggio non avrebbe dovuto lasciare la rete metallica di protezione priva di ancoraggi sotto al lucernario, fornendo agli altri lavoratori la falsa rappresentazione del carattere portante e calpestabile della superficie. Invero tutta la documentazione tecnica e la predisposizione del PSC e del POS dell’impresa esecutrice dell’infortunato davano per scontato che non vi fossero rischi di caduta dalla copertura verso l'interno del manufatto, in quanto ricorreva una prassi operativa secondo la quale l’impresa che aveva proceduto a rimuovere la copertura, non lasciasse incustodite aperture come lucernari, trattandosi peraltro di regola cautelare prevista espressamente dal D.Lgs. n.81/2008 che fa carico (art.111) al datore di lavoro di adottare misure di sicurezza equivalenti quando sia necessario procedere alla temporanea rimozione di un presidio di protezione collettiva. Tale omissione si ergeva a primaria ed assorbente causa della caduta, atteso che il ricorrente da un lato non era in grado di prevedere una siffatta omissione nella catena delle lavorazioni che si succedevano sulla copertura e dall'altra non avrebbe comunque potuto tenere un comportamento alternativo idoneo a evitare quanto era poi avvenuto.
Con il secondo motivo di ricorso si lamentava erronea applicazione di norme, in relazione all'art.115 D.Lgs. n.81/2008 con riferimento alla sussistenza di un rischio governabile attraverso misure di prevenzione e protezione concretamente attuabili dal datore di lavoro dell’impresa dell’infortunato, laddove a tali misure prevenzionali individuali il ricorrente avrebbe dovuto fare ricorso qualora fosse insistito un pericolo di caduta degli operai verso l'interno, in base alla condizione della copertura al momento dell'intervento dei propri lavoratori, rischio che non solo era stato escluso dal CSP/CSE ma che non avrebbe dovuto essere contemplato dal POS della propria impresa in quanto le aperture dei lucernari non avrebbero dovuto rimanere prive di protezione. Inoltre, si evidenziava che post evento ed accertamenti riguardo l’evento avvenuto, si era riattivata la prassi già esistente sul luogo di lavoro, e cioè la previsione di uno sfasamento temporale tra il completamento delle lavorazioni della impresa incaricata di rimuovere la copertura, con fissaggio delle reti a protezione dei lucernari rispetto all'intervento dei lavoratori dell’impresa esecutrice volto a fissare le strutture portanti.
Il terzo motivo di ricorso riguardava l’erronea applicazione della legge penale in relazione all'art.43 cp con riguardo alla colpevolezza dell'imputato sotto il profilo della prevedibilità ed evitabilità dell'evento. Sotto il primo profilo la motivazione della sentenza impugnata aveva del tutto omesso di considerare che, a fronte della prassi operativa anzidetta, il ricorrente non aveva alcuna possibilità di prevedere ed evitare l'attivazione di un rischio, dallo stesso non provocato di cui non era neppure a conoscenza e, soprattutto rispetto al quale egli non aveva alcun governo, tantoché nel POS tale rischio non era stato considerato, non già per una colpevole omissione ma perché il pericolo di caduta verso l'interno non era lavoro connaturato alle lavorazioni demandate al personale della propria impresa che interveniva su un luogo di che era sotto il controllo di altre realtà aziendali. Luogo che avrebbe dovuto essere sicuro, rispetto a siffatta eventualità, e che non richiedeva alcun intervento previsionale e precauzionale da parte dell'appaltatore chiamato ad intervenire in relazione ad una specifica operazione tecnica. Neanche l'eventuale comportamento disattento e inosservante di precauzioni da parte del lavoratore infortunato poteva essere interpretato a detrimento dell'imputato, che lo utilizzava alle sue dipendenze, atteso che il rischio cadute verso l'interno doveva essere del tutto assente, a prescindere dalle individuali e pericolose prassi di lavoro le quali, comunque, erano del tutto ininfluenti rispetto al rischio di caduta, atteso che i lucernari dovevano rimanere protetti. Sotto diverso profilo nessun ulteriore comportamento alternativo poteva essere ragionevolmente richiesto al ricorrente, in quanto la previsione di dispositivi individuali di trattenuta sarebbero risultati del tutto vani e ridondanti rispetto al governo del rischio che non era preventivabile.
Il quarto motivo riguardava l’erronea applicazione della legge penale in relazione all'art.43 cp. e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento all'ipotetico comportamento alternativo lecito dell'imputato, sia in ragione della incompatibilità tecnica di un sistema di ancoraggio o di trattenuta realmente efficace, sia in relazione al rischio caduta che avrebbe dovuto essere governato da altro soggetto operativo nel cantiere.
Il quinto motivo riguarda l’erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 2 D. Lgs. n. 81/2008 con riguardo all'ascrivibilità dell'evento alla responsabilità del datore di lavoro il quale non era stato posto a conoscenza, anche a fronte di un complesso di ulteriori posizioni di garanzia che vigilavano sulle lavorazioni, dell'eventualità che i lucernari potessero essere sprovvisti delle loro protezioni, così da rendere insidioso lo svolgimento di lavorazioni in prossimità delle aperture e comunque aveva dotato i propri dipendenti di sistemi di ancoraggio e di trattenuta da utilizzare in caso di necessità.
Il sesto motivo riguarda semplicemente il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza, nonché manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione del comportamento tenuto dalla persona offesa.
Il professionista che aveva svolto le funzioni di CSP e CSE aveva articolato il proprio ricorso con due motivazioni ma per brevità ci si limiterà ad esaminare solo la prima riguardando, la seconda, il solo trattamento sanzionatorio.
Il legale difensore del CSE denunciava l’inosservanza e l’erronea applicazione di legge in relazione all'art. 40 comma 2 e 590 cp ed all’art. 92 comma 1 lett. b) del D. Lgs. n.81/2008. Escludeva la ricorrenza di un nesso causale tra la predisposizione del PSC e delle ulteriori prescrizioni stabilite all'esito delle riunioni di coordinamento durante le l'evento, laddove erano emerse in più occasioni le iniziative del CSE onde prevenire rischi di cadute di materiali e di persone anche verso l'interno, con riferimento alla esecuzione di interventi sulla sommità della copertura. Tali iniziative concernevano altresì il richiamo al rispetto di precisi orari di lavoro che impedissero una sovrapposizione di lavorazioni da parte delle diverse imprese che operavano nel cantiere, prescrizioni orarie che non erano state rispettate dal personale dell’impresa esecutrice dell’infortunato per procedere più celermente, mentre le fotografie acquisite nel sopralluogo in cantiere del 10 Aprile 2017 evidenziavano come le reti di protezione dei lucernari sommitali sui coppelli fossero fissate a detti coppelli sottostanti con travetti lignei, di talché il CSE risultava rassicurato del fatto che il personale dell’impresa incaricata della demolizione, una volta avere provveduto alla eliminazione delle componenti della copertura, avesse altresì proceduto ad assicurare le reti metalliche alla superficie dei coppelli con adeguati fissaggi.
La Cassazione Penale, riguardo il ricorso del CSE, lo ha ritenuto infondato con conseguente rigetto.
Secondo la Suprema Corte, l’infortunio è avvenuto su un luogo di lavoro ove il coinvolgimento integrato di più soggetti, titolari di autonome posizioni tutoriali, non solo era imposto dalla legge ma anche da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio e alla organizzazione del lavoro nel cantiere, nel legittimo affidamento da parte delle maestranze chiamate ad operare, che imponeva una opera di cooperazione e di coordinamento della gestione del rischio interferenziale. Per tale ragione era stato indicato dal committente uno specifico garante, il CSP/CSE, per la gestione e il coordinamento di tale articolata interferenza di lavorazioni.
In particolare, il rischio specifico di caduta dei lavoratori dell’impresa esecutrice all'interno dei lucernari sommitali della copertura ove si trovavano ad operare, non era stato né previsto né individuato dal CSP/CSE nei documenti dallo stesso predisposti in sede progettuale ed esecutiva sebbene lo stesso costituisse un tipico rischio interferenziale che traeva origine dal succedersi delle lavorazioni secondo una cadenza programmata che determinava la modifica dell'assetto della copertura e l'instaurarsi di nuove fonti di pericolo per i lavoratori.
Premesso che sia l’impresa incaricata della demolizione della copertura che l’impresa esecutrice dell’infortunato, costituivano realtà aziendali che avevano assunto in subappalto l'esecuzione di specifici interventi sulla copertura del capannone in ristrutturazione, il giudice distrettuale non aveva mancato di precisare che i rispettivi interventi erano intimamente connessi e complementari, in quanto legati da una successione cronologica necessitata dal fatto che le maestranze della prima impresa dovevano rimuovere gli elementi della copertura in fibrocemento e in plexiglass e installare la nuova copertura consistente in "copertine di lamiera", mentre l'opera dell’impresa esecutrice si inseriva tra le due fasi suddette e si risolveva nella verifica, manutenzione ed eventuale sostituzione degli elementi di fissaggio delle coppelle della copertura, preliminare all’installazione delle componenti in lamiera.
Pertanto, lo smantellamento dei preesistenti elementi della copertura determinava la necessità di provvedere alla protezione dei varchi che rimanevano scoperti e, in particolare dei lucernari sommitali. Tale rischio era stato previsto e governato dal CSP/CSE soltanto con riferimento agli interventi di competenza della impresa incaricata dell'installazione di "copertine in lamiera", laddove veniva prevista la misura della chiusura dei varchi durante le lavorazioni, in quanto le maestranze avrebbero dovuto operare anche in prossimità di essi, mentre nessuna analoga previsione era contenuta nel PSC con riferimento agli interventi di carpenteria demandati all’impresa esecutrice dell’infortunato, sulla base dell'erronea convinzione che, al momento di detti interventi, i varchi avrebbero dovuto essere ancora chiusi, mentre le maestranze dell’impresa, nell'opera di rimozione dei componenti della copertura, anche in plexiglass, avevano sganciato anche le reti metalliche elettrosaldate che costituivano la chiusura dei lucernari, lasciandole in prossimità dei varchi e alimentando l'affidamento che le stesse svolgessero tutt'ora una funzione di protezione.
In termini del tutto congrui e privi di lacune logico giuridiche è stata riconosciuta la responsabilità del CSE per il mancato coordinamento tra gli interventi realizzati dalle due imprese in quanto anche lo sfasamento temporale tra le distinte categorie di interventi, prospettato dal professionista nel primo motivo di ricorso, non sarebbe stato in grado di porre riparo al rischio interferenziale determinato dallo smontaggio delle reti elettrosaldate a protezione dei lucernari zenitali, trattandosi di eventualità, peraltro connaturata alla natura e alla successione degli interventi di competenza dell’impresa incaricata di tale lavorazione, che lo stesso non si era assolutamente prospettato, ma che avrebbe dovuto essere analizzata nella predisposizione del PSC o, comunque, con adeguate e specifiche prescrizioni nel corso delle lavorazioni, essendo emerso che il lavoratore infortunato già nelle precedenti giornate di lavoro, disattendendo le prescrizioni che gli imponevano di non allontanarsi dagli spazi assegnati per la lavorazione, aveva disatteso gli ordini di lavoro avventurandosi sulle porzioni sommitali della copertura per svolgere il lavoro di carpenteria allo stesso assegnato. Concludeva pertanto il giudice distrettuale riconoscendo come il CSE non avesse in concreto assolto agli obblighi di verifica, coordinamento e valutazione di coerenza che gli erano propri ai sensi dell'art. 92 comma 1 lett. b) del D.Lgs. n.81/2008, di fatto avvallando prassi lavorative in quota non corrette o comunque pericolose.
Secondo la Suprema Corte, il giudice distrettuale non è incorso in alcun travisamento della prova rispetto alle indicazioni fornite dalle risultanze istruttorie laddove, con ragionamento congruo e privo di vizi logici e in termini assolutamente coerenti con la imputazione, attribuisce al CSP/CSE una carenza previsionale nella gestione di un rischio interferenziale assolutamente prevedibile in fase di progettazione e comunque intercettabile mediante una adeguata vigilanza del cantiere, tenuto conto del fatto che le lavorazioni tra le due imprese si susseguivano senza soluzione di continuità e che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente nei motivi di ricorso, la prassi da parte degli operai dell’impresa incaricata delle demolizione delle copertura esistente di sganciare le reti di protezione dei lucernari all'atto di smontaggio della copertura, era comunemente adottata e che, al contempo le aperture, per tale ragioni incustodite, costituivano insidie che, in assenza di un corretto coordinamento e cooperazione tra le due ditte, neppure i responsabili, i preposti e gli stessi operai della dell’impresa esecutrice dell’infortunato erano stati in grado di prevedere.
Riguardo, poi, al comportamento dell’infortunato, il quale aveva scavalcato la struttura sommitale della copertura, per evitare di fare il giro intorno alla stessa, non poteva qualificarsi quale condotta abnorme, idonea a interrompere la relazione causale, <<trattandosi pur sempre di operazione impropria che si inseriva nel segmento lavorativo in cui l'operaio era chiamato ad operare e che, anzi, pur nella incauta prospettazione del dipendente, sarebbe servita ad accelerare le operazioni di verifica dei fissaggi>>.
A differenza del ricorso del CSE, quello del datore di lavoro dell’impresa esecutrice dell’infortunato è stato accolto dalla Suprema Corte anche <<con riferimento all'affermazione di responsabilità emessa nei suoi confronti a fronte di motivazione meramente assertiva e, in alcuni passaggi manifestamente illogica, sulla ricorrenza di una posizione di garanzia in capo al datore di lavoro in relazione alla previsione e al governo di fonti di rischio che non derivavano dalle modalità esecutive delle lavorazioni richieste alla sua impresa, ma dalla omessa predisposizione di cautele nelle precedenti fasi della lavorazione, nonché con riferimento ai conseguenti profili di causalità della colpa in relazione alla complessiva organizzazione della sicurezza sul cantiere>>.
Organizzazione della sicurezza in cantiere che non aveva contemplato l'impiego di dispositivi di protezione individuale di lavoro da parte dei dipendenti dell’impresa esecutrice dell’infortunato, <<quali strumenti di trattenuta o di imbrago ovvero linee vita fissate sulla copertura, trattandosi di interventi sulla sommità di una copertura che, protetta dalle cadute verso l'esterno mediante impalcature, non avrebbe dovuto presentare, quantomeno per le lavorazioni affidate alla ….. omissis …, profili di rischio di cadute verso l'interno>>.
Sempre secondo la Suprema Corte risultava palese che la caduta dell'operaio interinale presso l’impresa esecutrice era avvenuta attraverso il varco aperto su un lucernario sommitale in quanto, a seguito di precedenti lavorazioni eseguite da altra ditta, era stato rimosso definitivamente il plexiglass che dava luce all'ambiente sottostante mentre erano state temporaneamente rimosse le reti di protezione elettrosaldate che impedivano la caduta dalla sommità del varco. Conseguentemente il primo problema che doveva essere esplorato dal giudice distrettuale, in risposta ai profili di doglianza sollevati con l'atto di appello, è se il titolare della impresa esecutrice, che operava sui fissaggi delle coppelle, avrebbe dovuto gestire un rischio che, pur interferendo con le lavorazioni allo stesso assegnate e presente sul luogo di lavoro in cui era intento a prestare la propria opera, era riconducibile ad una inosservanza ascrivibile ad un'altra realtà aziendale (sulla base dell'art.111 D.Lgs. n. 81/2008) e che non era stato individuato neppure del CSP/CSE, né in sede di predisposizione del PSC, né in sede esecutiva, allorquando l'alternanza delle lavorazioni tra le due imprese rendeva evidente il pericolo di interferenza tra lavorazioni in rapida successione.
Sul punto la motivazione della sentenza impugnata risulta manifestamente illogica e assertiva in quanto, se da un lato ha riconosciuto la prevedibilità per il datore di lavoro dell’impresa esecutrice di eventuali prassi scorrette ed elusive dei propri dipendenti (il che è corretto), dall'altra <<ha sostenuto che le misure predisposte erano insufficienti per impedire la caduta verso l'interno degli operai, riconoscendo implicitamente che il datore di lavoro avrebbe dovuto rappresentarsi che i lucernari potessero risultare non calpestagli per essere state inopinatamente rimosse le reti di protezione nelle pregresse lavorazioni, così da doversi apprestare strumenti di protezione individuale>>.
Va innanzi tutto evidenziato che neppure a seguito dell'intervento degli organi ispettivi è stata richiesta l'adozione di sistemi di protezione individuale da parte dei dipendenti dell’impresa esecutrice in ossequio al disposto, che si assume violato, di cui all'art.115 D.Lgs. n. 81/2008, ma era stato prescritto di fare operare le maestranze delle due imprese nel rispetto di una sfasatura temporale che consentisse di garantire il ripristino di condizioni di sicurezza sopra la copertura.
La Cassazione penale ha accolto anche il terzo motivo di ricorso nella parte in cui assume una non corretta valutazione da parte del giudice di appello della causalità della colpa laddove, pure a volere riconoscere l'inosservanza della regola cautelare concernente l'obbligo a carico del datore di lavoro di assicurare ai lavoratori l'utilizzo di dispositivi di protezione individuali (art. 115 D.Lgs. n.81/2008). Infatti, la Suprema Corte ritiene che non risulta adeguatamente argomentato se alla base dell'infortunio potesse ravvisarsi l'inosservanza delle cautele sopraindicate, mentre risulta carente qualsiasi verifica sul fatto che l'infortunio ebbe come antecedente eziologico non tanto la mancata adozione di cautele individuali, quanto la mancata predisposizione, da parte di terzi, di sistemi di protezione e di sicurezza collettivi, idonei a prevenire infortuni della stessa specie in ragione di un non coordinato e partecipato sistema di gestione di un rischio interferenziale come quello che, pacificamente, ebbe a determinare la caduta dell'operaio all'interno del varco costituito da un lucernario privo di protezione.
La Corte di Appello di Bologna, nel suo giudizio, si è fermata alla verifica sulla inosservanza di una regola cautelare laddove ha ritenuto che, riconosciuta la mancata adozione di dispositivi di protezione individuale, non previsti né nel POS dell’impresa esecutrice dell’infortunato, né contemplati nel PSC in relazione alle lavorazioni di carpenteria della citata impresa, né nelle prescrizioni degli organi ispettivi per le fasi di lavorazione successive all'infortunio (come parrebbe desumersi dalle sentenze di merito), l'evento infortunistico costituisse evenienza del tutto plausibile e conseguente di siffatta omissione.
Peraltro il ragionamento del giudice distrettuale <<ha del tutto trascurato di verificare se il decorso causale che condusse all'infortunio sarebbe stato inertizzato dalla esatta osservanza della regola cautelare che si assume essere stata violata, tenuto conto che la valutazione concernente la capacità salvifica delle linee vita e delle funi di trattenuta è meramente asserita e comunque non è stato neppure accertato se, in relazione ai punti della copertura in cui erano chiamati ad operare i dipendenti della .. omissis .. sarebbe stato possibile collocare presidi di tale natura, a fronte di lavorazioni da eseguire sulle coppelle utilizzando gli spazi espressamente indicati nel POS e i camminamenti pure individuati>>.
Risultano peraltro elementi di incertezza sul punto, offerti dagli atti processo, in quanto, sulla scorta delle testimonianze assunte nel giudizio, è emerso che la prassi di lavoro, successivamente ristabilita a seguito dell'infortunio, prevedesse esclusivamente un distacco temporale tra le lavorazioni delle due ditte e la chiusura dei lucernari da parte della impresa che procedeva a smantellare la copertura.
Pertanto, per la Suprema Corte, sotto questo profilo invero si impone <<una rinnovazione della verifica della prevedibilità in concreto della colpa in capo al datore di lavoro dell’impresa esecutrice dell’infortunato anche in relazione alla esigibilità di un comportamento alternativo lecito>>. L'istruttoria dibattimentale ha evidenziato come la condotta del datore di lavoro si sia inserita nell'ambito di una sequenza lavorativa proceduralizzata <<che non avrebbe dovuto comportare la previsione, da parte dell'imputato, del rischio di cadute verso l'interno, in presenza di precisi vincoli ripristinatori in capo a chi aveva rimosso temporaneamente il sistema di protezione collettivo. Invero la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, uri automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso, risultando nella specie del tutto dubbio che gli obblighi imposti al datore di lavoro dalla specifica disciplina sulla sicurezza del lavoro fossero rivolti a prevenire non tanto il rischio generico di cadute dall'alto e, in specie, verso l'esterno, quanto il rischio di caduta all'interno di un lucernario la cui protezione era stata dismessa da impresa che aveva preceduto la … omissis … sulla copertura del fabbricato>>.
In conclusione, la Suprema Corte ha respinto il ricorso del CSE ed ha annullato la sentenza riguardo il trattamento sanzionatorio sia per il CSP/CSE che per il datore di lavoro. Per quest’ultimo ha annullato la sentenza di condanna ed ha imposto <<un rinnovato giudizio del giudice distrettuale tanto sulla causalità della colpa con riferimento alla idoneità salvifica del comportamento alternativo lecito richiesto al datore di lavoro dell’impresa esecutrice dell’infortunato quanto, e in via preliminare, sulla "concretizzazione del rischio" mediante una valutazione ex ante e in concreto della prevedibilità dell'evento>>, tenuto conto:
- delle caratteristiche del cantiere,
- della natura del rischio interferenziale,
- dell'alternarsi delle lavorazioni sulla copertura e
- della prevedibilità della rimozione di una cautela collettiva da parte dell'altra impresa alternativamente impegnata, così da rendere giustificata la adozione di sistemi di protezione individuali.
Carmelo G. Catanoso
Ingegnere Consulente di Direzione
Corte di Cassazione Penale, Sez. 4 – Sentenza n. 14070 dell’8 aprile 2024 - Caduta dell'operaio interinale all'interno del varco aperto da un'altra ditta sul lucernario. Chi deve gestire il rischio interferenziale?
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Rispondi Autore: Massimo Zucchiatti - likes: 0 | 09/05/2024 (09:40:29) |
Ma non è più semplice dire che in ogni caso è colpevole il CSP/CSE? |
Rispondi Autore: Carmelo Catanoso - likes: 0 | 09/05/2024 (19:24:09) |
Massimo Zucchiatti, in questo caso, se non prevedi e controlli, anche a spot, l'apposizione delle protezioni sui lucernari vista la sequenza delle operazioni delle due imprese...... |
Rispondi Autore: Luca - likes: 0 | 13/05/2024 (15:29:22) |
Viene quasi da pensare che il CSE non sapesse che tra l'attività di rimozione e montaggio parti della copertura ci fosse un'altra impresa proprio nel mezzo delle due lavorazioni.... Ha pensato alle protezioni anticaduta ma solo per la terza fase, quasi come se fosse tutt'una con quella di competenza dell'impresa per la quale lavorava l'infortunato. |
Rispondi Autore: avv. Rolando Dubini - likes: 0 | 15/05/2024 (11:33:10) |
Utile e ben ragionato approfondimento sui compiti del CSE, omessi, e quelli del datore di lavoro, la cui responsabilità invece il giudice di merito non ha approfondito come avrebbe dovuto e potuto fare. Quando il CSE adempie correttamente ai suoi compiti viene sistematicamente assolto, o addirittura neanche indagato, come mi è capitato di verificare più volte come difensore di quelle figure professionali o di altri garanti della sicurezza in cantiere |