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La culpa in eligendo tra attribuzione dei compiti e idoneità sanitaria
Come noto, l’art.18 c.1 lett.c) del D.Lgs.81/08 prevede che il datore di lavoro e il dirigente, “nell’affidare i compiti ai lavoratori”, debbano - a pena di sanzione - “tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza”.
Spesso, quando nelle aule di formazione sollecito i partecipanti a condividere insieme in cosa consista e si concretizzi questo obbligo, mi viene risposto suppergiù che tale disposizione prevede che prima di adibire i lavoratori alle mansioni si deve tener conto dei giudizi del medico competente in ordine all’idoneità sanitaria dei lavoratori.
Questa risposta - che in sé e per sé non è scorretta - è però parziale.
Al di là del fatto che non tutti i lavoratori di una qualsiasi azienda sono sempre e comunque soggetti alla sorveglianza sanitaria e che quindi l’art.18 c.1 lett.c) del D.Lgs.81/08 conosce un’applicazione assai più generalizzata di quella, volendo tuttavia qui prendere a riferimento i casi in cui i lavoratori siano soggetti a tale regime, va detto che il rispetto dei giudizi di idoneità alla mansione emanati dal medico competente non garantisce al datore di lavoro e al dirigente l’adempimento dell’intero obbligo contenuto in tale disposizione.
Ciò in quanto il rapporto tra l’art.18 c.1 lett.c) del D.Lgs.81/08 su riportato e l’art.18 c.1 lett.bb) del medesimo decreto, che prevede che il datore di lavoro e il dirigente debbano “vigilare affinché i lavoratori per i quali vige l’obbligo di sorveglianza sanitaria non siano adibiti alla mansione lavorativa specifica senza il prescritto giudizio di idoneità”, è un rapporto rispettivamente di norma generale-norma speciale.
Detto in maniera più chiara, il tener conto degli esiti della sorveglianza sanitaria (per i lavoratori ad essa sottoposti) è solo uno dei vari presupposti che devono sussistere ai fini dell’adempimento dell’obbligo di affidare i compiti ai lavoratori tenendo conto delle loro capacità e condizioni di salute e sicurezza.
La norma generale contenuta nell’art.18 c.1 lett.c) del D.Lgs.81/08 - che peraltro fa riferimento ai “compiti” e non alle “mansioni” - ha infatti ad oggetto tutte le capacità e le condizioni dei lavoratori in rapporto alla loro salute e sicurezza, tra le quali rientrano, oltre all’idoneità alla mansione specifica, anche l’esperienza, l’età, la formazione, l’addestramento, l’affidabilità, la mancata evidenza di uno stato alterato del lavoratore percepibile ictu oculi etc., nonché, come affermato dalla Cassazione quest’estate in una sentenza che tra poco esamineremo nel dettaglio, “le conoscenze, le abilità e la condizione fisica e mentale necessarie per eseguire i compiti assegnati in modo sicuro.”
Peraltro, la Suprema Corte già in tempi risalenti aveva osservato che “l’interesse dello Stato alla effettiva assunzione delle misure di salvaguardia della salute del lavoratore non è limitato alla fase che precede l’assegnazione dei compiti ma perdura per l’intero rapporto” e, dunque, che “quest’ultima disposizione (art.4, comma 5, lett.c) [ora art.18 c.1 lett.c) del D.Lgs.81/08, n.d.r.] contempla senza limitazione temporale alcuna l’obbligo per il datore di lavoro di affidare i compiti ai lavoratori tenendo conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza” ( Cassazione Penale, Sez.III, 2 luglio 2008 n.26539).
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Inoltre, pochi anni fa è stato ribadito dalla Corte “l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di infortuni sul lavoro, la circostanza che il lavoratore possa trovarsi, in via contingente, in condizioni psico-fisiche tali da non renderlo idoneo a svolgere i compiti assegnati è evenienza prevedibile, che come tale non elide il nesso causale tra la condotta antidoverosa del datore di lavoro e l’infortunio (Sez.4, n.38129 del 13/06/2013, Rv.256417) e secondo cui le misure antinfortunistiche servono anche a salvaguardare i lavoratori distratti o poco attenti per familiarità con il pericolo o poco capaci o, comunque, esposti per un fatto eccezionale ed imprevedibile ad un rischio inerente al tipo di attività cui sono destinati, sicché anche una caduta accidentale, un malore o simili non escludono il nesso causale tra la condotta antidoverosa del datore di lavoro, per mancata predisposizione di misure di prevenzione, e l’evento” ( Cassazione Penale, Sez.IV, 14 gennaio 2019 n.1465).
Ciò è stato ben spiegato dalla Suprema Corte - dieci anni fa circa - in un’altra sentenza avente ad oggetto il tema della condizione di ubriachezza del lavoratore, allorché essa ha chiarito che “l’art.18 lett.c) d.lgs.n.81/2008 [come in precedenza già l’art.4 co.5 lett.c) d.lgs.n.626/1994] dispone che il datore di lavoro ed il dirigente “nell’affidare i compiti ai lavoratori” deve “tenere conto della capacita e delle condizioni degli stessi, in rapporto alla loro salute e alla sicurezza”.
Si tratta di previsione che guarda in primo luogo alla assegnazione delle mansioni in via preventiva e generale, ma alla quale non sfugge anche la quotidiana replica del conferimento di compiti al lavoratore da parte del datore di lavoro.
Diverse le ipotizzabili modalità di adempimento degli obblighi ma comune l’obiettivo di assicurare che il lavoratore sia in condizioni che permettano lo svolgimento in sicurezza dell’attività lavorativa” ( Cassazione Penale, Sez.IV, 17 settembre 2013 n.38129).
Questo fondamentale principio giurisprudenziale è stato espresso, nella fattispecie, con riferimento ad un caso in cui la Corte ha confermato la condanna del datore di lavoro di una cooperativa sociale per il reato di omicidio colposo in danno di un lavoratore stagionale che era caduto all’interno di una vasca contenente mosto e che, a seguito di ciò, era deceduto per “insufficienza respiratoria acuta determinata da permanenza in ambiente privo di ossigeno e ricco di CO2, anidride solforosa ad altri gas.”
In occasione degli accertamenti svolti, “nel sangue della vittima era stato trovato un tasso alcolemico compatibile con uno stato di ubriachezza patologica.”
Secondo la Corte, “la condizione di ubriachezza del lavoratore sul luogo di lavoro non è circostanza eccezionale e quindi non prevedibile dal datore di lavoro, con l’ulteriore effetto della riconducibilità al medesimo dell’infortunio occorso, pur in presenza di uno stato di ebbrezza alcolica del lavoratore rimasto vittima del sinistro, essendo indiscutibile - nel caso che occupa - che la mancata chiusura della botola con la griglia in dotazione è essa stessa connessa allo svolgimento delle mansioni affidate al [lavoratore].”
Come anticipato, prendiamo a questo punto in esame una interessante sentenza della Cassazione Penale emanata due mesi fa, che ha applicato i principi che abbiamo finora preso in esame aventi ad oggetto il contenuto e il perimetro dell’obbligo del datore di lavoro e del dirigente di affidare i compiti ai lavoratori tenendo conto delle condizioni e capacità di salute e sicurezza.
Con Cassazione Penale, Sez.IV, 21 luglio 2025 n.26600, la Suprema Corte si è pronunciata sulle responsabilità legate al decesso del lavoratore D., “dipendente dell’azienda bufalina di cui è titolare l’imputato”, il quale “intervenne per cercare di arginare la fuga di circa 50 bufale dagli stalli, ma fu colto da un malore e perse la vita.”
In particolare, la notte dell’infortunio era accaduto che il D., “portatosi nei pressi dei paddock per un giro di ricognizione, si accorse del fatto che una cinquantina di bufale erano scappate, e che altre stavano scappando; quindi, insieme al figlio, ad altro dipendente ed allo stesso datore, intervenne per cercare di arginare l’improvvisa fuga degli animali dagli stalli (difettosi per omessa manutenzione).”
Si tenga presente che “l’intervento fu ulteriormente complicato dal fatto che la zona era completamente al buio, in quanto l’impianto di illuminazione non era funzionante, poiché danneggiato da un temporale.”
Così, “ad un certo punto il figlio si sentì chiamare dal padre con voce impaurita e, appena lo raggiunse, lo trovò riverso per terra con la faccia nel terreno e circondato da una decina di bufale.”
Nel giudizio di primo grado, la causa della morte è stata individuata dal consulente del Pubblico Ministero in una “insufficienza cardiocircolatoria acuta da tachiaritmia ventricolare, in un soggetto affetto da una severa coronopatia trivasale, fino a quel momento ignota, e la cui diagnosi non avrebbe consentito il giudizio di idoneità allo svolgimento di quelle mansioni.”
Nello specifico, “le condizioni di lavoro in cui si trovò ad operare D. lo esposero ad un fortissimo stress psico-fisico, da considerarsi quale antecedente causale della insufficienza cardiocircolatoria che ne determinò il decesso.”
Infatti, “il particolare stress psicofisico cui fu sottoposto il dipendente fu determinato, sempre secondo il Tribunale, anche dalle condizioni di lavoro in cui si trovò ad operare, caratterizzate da plurime violazioni del D.Lgs.9 aprile 2008, n.81, in quanto: 1) non era stato valutato il rischio derivante dalla movimentazione degli animali, né erano state individuate le misure da adottare in caso di malfunzionamento dell’impianto di illuminazione (artt.17 e 28); 2) i lavoratori non avevano ricevuto una sufficiente formazione in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro (art.37, comma 1); 3) non era stata effettuata la manutenzione dei cancelli dove sostavano le bufale (art.64, comma 1), che risultavano invece assicurati in modo precario.”
Nel successivo grado di giudizio, “la Corte di appello, invece, ha ritenuto che della morte del dipendente non potesse essere ritenuto responsabile l’imputato, poiché l’evento non è stato conseguenza immediata e diretta delle pur accertate violazioni della normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro.”
Ciò in quanto il D., “dichiarato idoneo, per il periodo dal 2013 al 2019, allo svolgimento delle mansioni cui era adibito, è risultato in realtà affetto da una grave patologia cardiaca, ignota fino al momento dell’incidente, ed accertata durante l’esame autoptico”; una “condizione che, ove accertata dal medico competente, avrebbe impedito il giudizio di idoneità alle mansioni espletate, che per loro natura richiedevano un significativo sforzo fisico.”
Avverso la sentenza di assoluzione hanno proposto ricorso per Cassazione il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello e le parti civili.
La Suprema Corte ha rigettato tali ricorsi, ritenendo il datore di lavoro non responsabile per il decesso del lavoratore D.
La Cassazione premette che “il rischio dell’attribuzione al lavoratore di mansioni per le quali non è idoneo è […] preso in considerazione ed è gestito dal datore di lavoro, che si avvale dell’ausilio del medico competente, in ragione di una nutrita serie di disposizioni (la cui inosservanza è sanzionata dall’art.55 D.Lgs.9 aprile 2008, n.81) che consentono di identificare nella valutazione dell’idoneità alla mansione e nella sorveglianza sanitaria gli strumenti per garantire che le condizioni di salute del lavoratore siano compatibili con le mansioni assegnate.”
Sotto questo profilo, “il datore di lavoro, infatti, è tenuto non solo a nominare il medico competente per l’effettuazione della sorveglianza sanitaria nei casi previsti ma, anche al di fuori di tali ipotesi, e tenuto ad assegnare i compiti ai lavoratori tenendo conto delle loro capacità e condizioni, in rapporto alla loro salute ed alla sicurezza (art.18 D.Lgs.9 aprile 2008, n.81).”
Dunque, “ciò implica che il datore di lavoro deve assicurarsi che i lavoratori possiedano le conoscenze, le abilità e la condizione fisica e mentale necessarie per eseguire i compiti assegnati in modo sicuro.”
La Cassazione prosegue: “a tal fine, un importante elemento di valutazione è rappresentato dalle visite mediche, che caratterizzano lo svolgimento del rapporto di lavoro sia nella fase iniziale (visite preventive), sia nel suo concreto svolgimento (visite periodiche, in occasione del cambio di mansione e su richiesta del lavoratore), sia nella fase finale, ovvero all’atto della sua cessazione.”
Come noto, poi, “all’esito di tali controlli, il medico competente esprime un giudizio che può essere di idoneità, di idoneità parziale (temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni), oppure di inidoneità, temporanea o permanente; giudizio comunicato, per iscritto, al datore ed al lavoratore.”
Tutto “ciò evidentemente, per quanto di interesse in questa sede, al fine di porre il datore di lavoro in condizione di valutare i rischi ed organizzare le attività in modo da evitare che i lavoratori siano adibiti ad una mansione senza il giudizio di idoneità; aspetto, questo, espressamente preso in considerazione dal legislatore, che lo annovera tra gli obblighi del datore di lavoro (art.18, comma 1, lett.aa [bb, n.d.r.], D.Lgs.9 aprile 2008, n.81), che per la sua portata generale sussiste anche al di fuori dei casi in cui deve essere effettuata la sorveglianza sanitaria.”
Pertanto, nel caso di specie, la Suprema Corte ha dato ragione alla Corte d’Appello, la quale ha “escluso che il datore, pur in presenza del giudizio di idoneità, fosse comunque a conoscenza delle effettive condizioni di salute del lavoratore (accertate solo in sede autoptica); circostanza, questa, che lo avrebbe reso inosservante rispetto alla previsione di cui al menzionato art.18.”
Di conseguenza “il datore di lavoro è stato messo in condizione di condurre la valutazione del rischio, in rapporto alla movimentazione degli animali ed al connesso pericolo di fuga, potendo far leva sulla (positiva) verifica delle condizioni psicofisiche del lavoratore, e sul conseguente giudizio di piena idoneità.”
Ciò - secondo la Cassazione - è confermato dalla sentenza della Corte d’Appello, “nel passaggio in cui ha sottolineato che lo stress psicofisico legato a quella particolare contingenza non avrebbe determinato la morte di un soggetto sano, e quindi idoneo allo svolgimento di quelle specifiche mansioni”.
Anna Guardavilla
Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro
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Pubblica un commento
| Rispondi Autore: Giovanni Bersani | 18/09/2025 (19:39:19) |
| Sempre utili questi articoli...grazie. E che ogni tanto qualche sentenza giudichi non colpevole il datore di lavoro...e anche dopo un primo giudizio in senso opposto, fa anche piacere ed è un approfondimento doppiamente interessante. Saluti | |
