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L’estinzione di una sanzione ex D. Lgs. n. 231 per fallimento
Commento a cura di G. Porreca.
Bari, 21 Gen - Un’altra sentenza della Corte di Cassazione sull’applicazione del D. Lgs. 8/6/2001 n. 231 sulla responsabilità amministrativa degli enti abbastanza interessante per le conclusioni alle quali è pervenuta la suprema Corte anche se i reati oggetto della sentenza non hanno riguardato direttamente il delitto di omicidio colposo o di lesioni gravi e gravissime connessi a violazioni di norme sulla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Il fallimento di una società, secondo la Corte di Cassazione, non è equiparabile alla morte del reo e quindi non determina l’estinzione della sanzione amministrativa prevista dal D. Lgs. n. 231/01. In base a questo principio la Corte suprema ha annullata la sentenza emessa da un Tribunale che aveva dichiarato il non luogo a procedere nei confronti di una società in ordine ai reati alla stessa ascritti essendo stato ritenuto l’illecito amministrativo estinto per sopravvenuto fallimento della società medesima.
Il caso e la sentenza del Tribunale
Una società in fallimento è stata imputata degli illeciti amministrativi previsti dagli articoli 5 e 25-ter lett. S del D. Lgs. 08/06/2001 n. 231, in relazione alla commissione di alcuni delitti commessi nell'interesse ed a vantaggio della società da una persona che, al momento del fatto, rivestiva le funzioni di rappresentanza della società, quale amministratore di diritto. Il giudice per l'udienza preliminare del Tribunale aveva dichiarato il non luogo a procedere nei confronti della società in ordine ai reati alla stessa ascritti perché l'illecito amministrativo sarebbe stato considerato estinto per sopravvenuto fallimento della società stessa. Lo stesso Gup, con approfondite motivazioni, aveva ritenuto che il fallimento della società fosse in qualche modo assimilabile alla morte del reo e dunque comportasse l'estinzione del reato in quanto, privando la dichiarazione di fallimento il soggetto fallito di ogni potere in relazione al suo patrimonio, la società entra in una fase di pressoché definitiva inattività, equiparabile, quanto agli effetti, alla morte della persona fisica. Il Gup aveva inoltre osservato che il curatore fallimentare è un soggetto terzo rispetto alla società e sarebbe stato irragionevole comminare una sanzione ad un soggetto diverso rispetto a quello nel cui interesse o vantaggio era stato commesso il reato presupposto della responsabilità amministrativa.
Il ricorso alla Corte di Cassazione e le motivazioni
Contro la sentenza del GUP hanno proposto ricorso per cassazione i pubblici ministeri del Tribunale per violazione di legge nonché per contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Gli stessi pubblici ministeri hanno fatto osservare che la società commerciale non si estingue con la dichiarazione di fallimento, determinando la stessa esclusivamente lo scioglimento della società, e che gli organi societari permangono durante la procedura concorsuale e conservano alcune funzioni pur privati dei poteri amministrativi. Gli stessi hanno sostenuto ancora che l'estinzione della società consegue esclusivamente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, che il curatore ha l'onere di richiedere solo in caso di chiusura per riparto finale o per insufficienza dell'attivo e che è necessario, inoltre, tenere conto del fatto che la società è una persona giuridica e che la sanzione è irrogata nei confronti dell'ente e non nei confronti del soggetto che la rappresenta e quindi, una volta irrogata la sanzione pecuniaria, ben si potrà pretendere il pagamento della stessa insinuandosi allo stato passivo.
Il curatore fallimentare, da parte sua, ha depositato una memoria con la quale ha chiesto il rigetto del ricorso presentato dai pubblici ministeri del Tribunale e nella quale ha sostenuto che sarebbe del tutto inspiegabile applicare una sanzione pecuniaria od interdittiva nei confronti di una società non più operativa e che comunque, trattandosi di una sanzione amministrativa non vi sarebbe trasmissione agli eredi dell'obbligo di pagamento ai sensi dell'art. 7 l del D. Lgs. n. 689/81, facendo rilevare altresì che l'applicazione della sanzione al curatore fallimentare non avrebbe colpito il soggetto autore dell'illecito, ma un soggetto terzo incolpevole. Inoltre il curatore ha fatto osservare di essere dinnanzi nel D. Lgs. n. 231/2001 ad una lacuna legislativa non essendo nello stesso prevista l’ipotesi del fallimento di una società.
Le decisioni della suprema Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso dei pubblici ministeri e per l’occasione ha esaminato la questione relativa alla ritenuta equiparazione da parte del Tribunale del fallimento di una società con la morte di una persona fisica. La Sez. V, in merito a quanto sostenuto dal Tribunale circa la configurazione nel fallimento di una società di una ipotesi di estinzione degli illeciti contestati, ha posto in evidenza come una simile causa di estinzione non sia prevista dalla D. Lgs. n. 231/2001 che invece indica espressamente come causa di estinzione della responsabilità dell'ente la prescrizione per decorso del termine di legge e prevede altresì la improcedibilità nei confronti dell'ente quando sia intervenuta amnistia in relazione al reato presupposto. In linea con quanto sostenuto dai ricorrenti, inoltre, la suprema Corte ha messo in evidenza che solo quando la cessazione della attività commerciale sia formalizzata con la cancellazione dal registro delle imprese possono ritenersi cessati gli obblighi di legge a carico dell'ente e che in caso di fallimento, rimanendo nella sua disponibilità, la società resta titolare dei suoi beni fino al momento della vendita fallimentare.
In merito alla sostanziale difformità tra il fallimento di una società e la morte di una persona fisica la suprema Corte ha espresse, altresì, delle considerazioni generali paragonando, per semplificare, il fallimento di una impresa ad un malato grave, la cui morte è altamente probabile, ma non certa nel se e nel quando per cui, fino al momento della morte effettiva del soggetto, non è possibile dichiarare l'estinzione del reato solo perché il decesso è, in un futuro non lontano, altamente probabile. Solo la morte effettiva della persona fisica comporta l'estinzione del reato e dunque solo l'estinzione definitiva dell'ente può eventualmente determinare gli stessi effetti sulla sanzione di cui al giudizio.
“A seguito del fallimento”, ha ancora aggiunto la Sez. V, “la società non cambia, ma viene esclusivamente sottoposta a una liquidazione di tipo concorsuale ad opera di un pubblico ufficiale e sotto il controllo dell'autorità giudiziaria. Non è legittima, pertanto, una interpretazione a contrario, che ritiene di desumere dalla mancata contemplazione del fallimento negli articoli suddetti la sua esclusione dalla punibilità” ed ha sostenuto inoltre che “il giudice non può certo disapplicare la norma punitiva solo perché in concreto pregiudizievole per gli interessi dei creditori” e che “d'altronde, una volta irrogata la sanzione lo Stato diventa egli stesso un legittimo creditore concorrente, al pari degli altri (anzi, come si è visto, un concorrente privilegiato)”.
In merito poi alle considerazioni relative alla mancata trasmissibilità agli eredi dell'obbligo di pagamento della sanzione amministrativa, ai sensi dell'art. 7 della legge 689/1981 la suprema Corte ha sostenuto che il fallimento non determina alcuna successione e non ha personalità giuridica propria e cioè non è un soggetto che succede all'impresa societaria ma è solo una procedura che assume la gestione liquidatoria dell'ente per il tempo strettamente necessario alla soddisfazione concorsuale dei creditori. Non c'è quindi alcuna successione, tanto che per le sanzioni amministrative irrogate nei confronti dell'ente è più che legittima l'insinuazione al passivo, né risulta che sia mai stata dichiarata in passato l'estinzione dell'obbligo di pagamento della sanzione amministrativa in caso di fallimento.
La Corte di Cassazione, in conclusione, ha accolto il ricorso dei pubblici ministeri del Tribunale ed ha annullata di conseguenza la sentenza impugnata disponendo il rinvio al giudice di primo grado (ufficio GUP) per una nuova valutazione in ordine al rinvio a giudizio con la raccomandazione di attenersi al principio di diritto in base al quale “il fallimento della società non è equiparabile alla morte del reo e quindi non determina l'estinzione della sanzione amministrativa prevista dal decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231".
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