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Lavoro e discriminazione: conoscere per prevenire

Il benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori è uno dei più importanti obiettivi da perseguire per qualsiasi organizzazione. Ad oggi, nonostante i progressi normativi sul tema, risulta sicuramente più facile ed immediato occuparsi di salute e sicurezza fisica, poiché più quantificabili, mentre la tutela del benessere psicologico e sociale rimane ancora un tema nebuloso, senza indicazioni o confini precisi.

 

Qualsiasi insieme di persone, che sia gruppo sociale o di lavoro, genera delle forze “centripete” che spingono i membri allo sviluppo di un’identità sociale, ovvero quel sentimento identitario basato sul forte senso di appartenenza e unione. Non esiste gruppo che non sviluppi quella spinta a conformarsi, ad accettare le modalità di pensiero e di comportamento condivise, cercando di avvicinarsi il più possibile al suo membro prototipico. Ma, d’altra parte, il gruppo produce anche delle forze “centrifughe”, volte ad allontanarsi e allontanare tutto ciò che tradisce o non si conforma alla maggioranza.

 

Una maggiore consapevolezza di tali dinamiche e di come queste si manifestino, assume un’importanza fondamentale per qualsiasi attore organizzativo: la creazione di rapporti di lavoro malsani può incoraggiare un clima teso, difficile, in cui si possono concretizzare comportamenti ostili, aggressivi e persino violenti.

 

Una delle dinamiche lavorative più pericolose in questo senso è il caso del “capro espiatorio”. Questo termine, di origini antichissime, fa riferimento ad un rito ebraico compiuto nel giorno dell’espiazione, quando il sommo sacerdote caricava un capro di tutti i peccati del popolo per poi allontanarlo dalla civiltà, costringendolo a vagare nella desolazione del deserto.


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Si tratta di un meccanismo sociale frequente all’interno di gruppi di lavoro che si trovano a fronteggiare diverse difficoltà: la maggioranza, più o meno consapevolmente, si allea contro una minoranza o una singola persona, proiettando su di essa tutti gli aspetti disfunzionali dell’intero gruppo. In questo modo, si cerca la via più semplice per redimersi dalle colpe condivise e per preservare il gruppo – seppur in modo disfunzionale – individuando una singola causa di tutti i mali. Il bersaglio si trova quindi in condizione di ostracismo e isolamento, dovendo subire frequenti critiche, maldicenze e svalutazioni poiché diventato l’unico elemento di sopravvivenza, stabilità e unione di gruppo.

 

Quando questa dinamica si esaspera e si protrae nel tempo, può degenerare in ciò che la letteratura scientifica indica come mobbing. Dall’inglese to mob (“assalire, attaccare, vessare”), con questo termine si indicano tutte quelle forme di vessazione protratte nel tempo che hanno come scopo l’allontanamento della vittima dal proprio contesto lavorativo.

 

Differentemente da quanto accade con un capro espiatorio, l’azione persecutoria del mobber è sempre consapevole e volontaria. Inoltre, se il primo caso, seppur in modo completamente distorto, ricerca una modalità di difesa del gruppo, l’azione di mobbing sottende sempre la volontà di danneggiare la vittima con lo scopo finale di eliminarla da quell’ambiente.

 

Non sempre è facile riconoscere queste forme discriminatorie: bisognerebbe, infatti, avere informazioni dettagliate del contesto lavorativo, del clima organizzativo, del livello professionale e culturale degli attori coinvolti e dello scopo con cui tali azioni sono state messe in atto. Inoltre, la violenza psicologica può assumere diverse forme, quali:

  • Azioni palesi e violente come aggressioni verbali o fisiche
  • Azioni silenziose e subdole come la graduale esclusione della vittima dal gruppo o l’assegnazione di compiti superiori alle capacità con la speranza che la vittima sbagli
  • Azioni disciplinari come richiami formali ingiustificati
  • Azioni logistiche come il trasferimento della vittima in un’altra sede o il suo demansionamento, senza che queste decisioni siano dettate da reali necessità organizzative

 

La realizzazione di atti e comportamenti discriminatori protratti nel tempo può avere conseguenze devastanti non solo sulla persona perseguitata, ma anche sull’intera organizzazione.

 

In termini di effetti sul singolo, si riscontrano diverse ripercussioni sullo stato psico – fisico della vittima: preoccupazioni costanti, attacchi di panico o crolli nervosi, aumento dei disturbi del sonno, alterazioni del sistema immunitario, sovraccarico del sistema cardiovascolare e, nei casi più gravi, somatizzazioni assimilabili al disturbo da stress post-traumatico. Tali problematiche, che incidono negativamente sulla vita della persona, danneggiando sia la sfera privata che quella lavorativa, si ripercuotono anche sull’organizzazione. In questi casi, infatti, non di rado aumentano i casi di assenteismo, ritardi, burnout, turnover, infortuni e incidenti sul lavoro. Inoltre, un clima lavorativo tossico può incidere negativamente anche sui collaboratori non direttamente coinvolti nel circolo discriminatorio, i quali, assistendo alle ingiustizie, potrebbero perdere fiducia nell’organizzazione. La concentrazione e l’impegno diminuiscono, provocando un calo della produttività e, spesso, una bassa qualità del lavoro svolto.

 

Le conseguenze organizzative riguardano anche la cerchia sociale allargata: un’organizzazione nota per negligenza verso la discriminazione può danneggiare la propria reputazione anche verso l’esterno, creando condizioni sfavorevoli a reclutamenti futuri.

 

È quindi essenziale prendere una forte posizione nei riguardi di tali fenomeni discriminatori, proprio per migliorare le condizioni di vita delle persone e dell’organizzazione stessa. Ma cosa si può fare per cercare di combattere, o ancor meglio prevenire, questi fenomeni? Si segnala:

  • Sviluppare, implementare e comunicare politiche aziendali chiare e intransigenti verso qualsiasi forma discriminazione;
  • Definire chiare procedure di segnalazione che possano facilitare la denuncia di tali comportamenti;
  • Promuovere una cultura organizzativa di responsabilità, rispetto e inclusione attraverso percorsi di formazione a tutti i livelli, eventi, workshop e campagne di sensibilizzazione;
  • Richiedere un impegno costante, a partire dai vertici organizzativi più alti, nel sostenere e promuovere tali politiche.

 

 

Massimo Servadio

Psicoterapeuta Sistemico Relazionale e Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni, Esperto in Psicologia della salute organizzativa





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