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Silice libera cristallina: perché valutare il rischio

Silice libera cristallina: perché valutare il rischio

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Categoria: Rischio cancerogeno, mutageno

13/07/2016

Alcune linee d’intervento in merito alle esposizioni a silice libera cristallina: la prevenzione ed emersione dei tumori professionali.

 

La Regione Toscana ha pubblicato l’aggiornamento delle “ Linee guida di prevenzione oncologica. Cancerogeni occupazionali: prevenzione ed emersione dei tumori professionali”, un’edizione che offre un contributo più ampio al tema della prevenzione e all'emersione dei  tumori professionali e che è stato elaborato da un gruppo di lavoro coordinato da Lucia Miligi (SS di Epidemiologia ambientale e occupazionale, Istituto per lo studio e la prevenzione oncologica, Firenze).

Ne riportiamo un brano che presenta le linee d’intervento in merito alle esposizioni a silice libera cristallina.

 

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Linee d’intervento in merito alle esposizioni a silice libera cristallina

Fra i cancerogeni, la silice ha la caratteristica di essere da sempre e tuttora al centro di un confronto, talvolta aspro, sul significato della classificazione di cancerogenicità, con ricadute anche sull’applicazione delle normative di tutela dei lavoratori esposti.

Nel 1997 IARC classifica la silice libera cristallina (SLC) inalata in forma di quarzo o cristobalite

proveniente da sorgenti a carattere occupazionale, come cancerogena per l’uomo (gruppo 1), per il polmone. Nel 2002, anche il NIOSH raccomanda, come già aveva fatto nel 1988, di considerare la SLC potenziale cancerogeno dell’ambiente di lavoro. Nel 2009, IARC, nella monografia 100, conferma e rafforza il precedente giudizio, mentre, nel frattempo, ulteriori conferme vengono da CCTN (Commissione consultiva tossicologica nazionale), US NTP (National Toxicology Program), DFG (Ente tedesco per la normazione).

Nella monografia del 1997, il gruppo di lavoro IARC aveva annotato che la cancerogenicità della SLC non si manifestava in tutte le circostanze di lavoro studiate, ma era più evidente in

lavoratori di cave e miniere, impianti di frantumazione delle pietre, materiali lapidei, industria

delle terre di diatomee, materiali refrattari e ceramica, oltre a essere particolarmente evidente

in coorti di lavoratori silicotici.

Nella successiva monografia 100, IARC ha rilevato come la cancerogenicità della silice (e, più in generale, l’interazione fra SLC e tessuti biologici) sia legata alle caratteristiche chimico-fisiche e morfologiche della polvere silicea determinate da tecniche di lavorazione e presenza di contaminanti (per esempio, modalità estrattive, di comminuzione, esposizione a temperature elevate).

Attorno a questi elementi di conoscenza, si è sviluppato un dibattito fra chi ammette l’esistenza

di prove sperimentali della cancerogenicità diretta della SLC che, per le sue proprietà di superficie, è in grado di legarsi al DNA e di causarne rotture e di indurre trasformazione neoplastica di cellule epiteliali polmonari in cultura (Saffiotti 2005) e chi, invece, nega questo effetto cancerogeno diretto, ritenendo la silicosi condizione necessaria per indurre l’aumento d’incidenza del cancro polmonare. Anche i più scettici circa l’intrinseca carcinogenicità della silice, ammettono, infatti, l’associazione silicosi/cancro del polmone (consensus document della SIMLII 2011).

Sebbene l’associazione fra SLC e tumore polmonare sia in genere più forte tra i silicotici che tra i non silicotici, non è chiaro se ciò sia causato dalla patologia silicotica in sé o se sia dovuto al fatto che i livelli d’esposizione a SLC dei silicotici siano in genere più alti di quelli degli altri lavoratori (Merletti 2005) o che quelle stesse caratteristiche fisico chimiche e morfologiche che aumentano l’interazione fra SLC e tessuti biologici siano responsabili tanto della patologia silicotica quanto di quella neoplastica. La conseguenza pratica di questo dibattito è che se si ritiene la silicosi un passaggio obbligato verso lo sviluppo del cancro, i limiti d’esposizione per

prevenire la silicosi coincidono con quelli di un’adeguata protezione dal rischio cancerogeno.

Se questo è lo stato dell’arte del dibattito scientifico, altrettanta incertezza esiste sul versante normativo e applicativo. L’Unione europea non ha incluso la SLC tra gli agenti cancerogeni, né ha accolto le indicazioni dello Scientific Committee for Occupational Exposure Limits (SCOEL) che aveva proposto un TLV [1] pari a 0,05 mg/mc, valore pari o inferiore a quello attualmente in vigore nella maggior parte dei paesi industrializzati (con molte eccezioni peggiorative) (vedi tabella 9), ma doppio rispetto a quello che ACGIH considera in grado di proteggere tutti i lavoratori dal rischio di sviluppare silicosi. Vale la pena di ricordare che a 0,05 mg/mc, secondo i dati di letteratura e le valutazioni della stessa ACGIH, è atteso lo sviluppo, dopo 40 anni di esposizione, di silicosi iniziale (fino a 2/1 secondo ILO) in una percentuale pari al 5-7% degli esposti, con possibilità di comparsa dei primi casi dopo 15-20 anni dall’inizio dell’esposizione.

Tabella 9. TLV (Threashold Limit Values) per le forme cristalline della silice nei principali paesi.

Per affrontare questa condizione di impasse che perdura ormai da molti anni, a livello europeo è stato siglato un “accordo tecnico” fra le parti sociali, imprenditoriali e sindacali, raccolte sotto la sigla del NEPSI (European Network on Silica http://www.nepsi.eu/). L’accordo riguarda i criteri per la protezione della salute dei lavoratori attraverso la corretta manipolazione e utilizzo della silice cristallina e dei prodotti che la contengono e ha portato alla definizione di buone pratiche per la riduzione dell’esposizione al più basso livello possibile, in diversi cicli lavorativi.

L’adesione da parte delle imprese su base volontaria ha limitato l’efficacia dell’iniziativa nel migliorare le situazioni più critiche e può essere considerato un caso se alcune importanti categorie, come gli edili, non lo hanno sottoscritto.

Il mancato riconoscimento a livello europeo e nazionale della SLC come cancerogeno certo per l’uomo crea dibattito anche in Italia, dove non vi è concordanza nello stabilire se il rischio di esposizione a SLC debba ricadere fra i rischi tutelati dal titolo IX, al capo I del D.Lgs. 81/08, cioè nell’ambito del rischio da agenti chimici pericolosi o al capo II, cioè fra gli agenti cancerogeni.

 

Sono molte le sostanze che non hanno ancora una classificazione ufficiale, ovvero una classificazione europea armonizzata; tuttavia, il datore di lavoro, qualora sia nota la cancerogenicità, deve considerare la sostanza come cancerogena anche se lungo la catena di approvvigionamento non è stata classificata così.

Quanto descritto non è di facile applicabilità, perché neppure la IARC definisce i cancerogeni certi e probabili per l’uomo (classe 1 e 2A) applicando criteri del tutto equivalenti a quelli previsti nel regolamento CLP (classe 1A e 1B).

Non resta che notare come la differenza di gestione del rischio nei due differenti casi forse non ha ricadute così rilevanti in termini di tutela, limitandosi di fatto all’adozione o meno del registro degli esposti a cancerogeni e all’obbligo di monitoraggio delle esposizioni, iniziative che non sempre sono indispensabili alla corretta gestione del rischio silice. In ogni caso, il datore di lavoro e i suoi consulenti devono porsi l’obbiettivo di prevenire gli effetti della SLC sulla base di conoscenze tecnico-scientifiche aggiornate sul fattore di rischio e sulle misure più efficaci per eliminarlo o ridurlo, come raccomandato dal codice ICOH, richiamato anche dal dlgs 81/08. E’ certo che il giudizio IARC, ma anche i pareri di OSHA, NIOSH, ACGIH e la valutazione della Commissione tossicologica nazionale devono comparire nelle schede di sicurezza che accompagnano i prodotti contenenti SLC.

Maggiori problemi si pongono nel caso dei materiali compatti che emettono polveri silicee quando sottoposti a lavorazione, come i materiali lapidei naturali o le lastre di pietra sintetica, queste ultime definite “articoli” dal regolamento REACH (art. 3.3), cioè oggetti composti da una o più sostanze o preparati a cui sono dati durante la produzione una forma, una superficie o un disegno particolari che ne determinano la funzione d’uso finale in misura maggiore della sua composizione chimica. In assenza di una classificazione armonizzata della SLC, questi materiali possono viaggiare e, di fatto, viaggiano, senza adeguate indicazioni sui rischi derivanti dalla loro lavorazione, ma ciò non esime il datore di lavoro e i suoi consulenti dal conoscerne e gestirne i rischi.

Infine, la mancata definizione normativa di un valore limite d’esposizione nazionale, impone al datore di lavoro di adottare quello più appropriato alla gestione del rischio sulla base di considerazioni tecnico scientifiche aggiornate sul significato sanitario dei diversi TLV, senza dimenticare che le principali società scientifiche e le parti sociali condividono l’obbiettivo di assicurare i più bassi livelli di esposizione praticabili nei diversi comparti. Per questo motivo, molto impegno è stato dedicato alla predisposizione di documenti di buone prassi, sia a livello europeo (NEPSI) sia a livello nazionale, dove le buone prassi del NIS sono attualmente presentate e disponibili sul portale INAIL “Conoscere il rischio”.



[1] I TLV (Threshold Limit Values) rappresentano le concentrazioni limite alle quali la quasi totalità dei lavoratori può essere esposta ripetutamente, senza andare incontro a effetti nocivi per la salute.




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Rispondi Autore: MB - likes: 0
13/07/2016 (08:44:37)
"Sono molte le sostanze che non hanno ancora una classificazione ufficiale, ovvero una classificazione europea armonizzata; tuttavia, il datore di lavoro, qualora sia nota la cancerogenicità, deve considerare la sostanza come cancerogena anche se lungo la catena di approvvigionamento non è stata classificata così." ...affermazione che meriterebbe almeno un tentativo di giustificazione normativa
Rispondi Autore: Massimo Merlo - likes: 0
13/07/2016 (10:19:25)
Direi che la giustificazione normativa è facile a trovarsi... art. 15 del DLgs. 81/08, comma 1 lettera c) "l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico" e il Codice Civile, che esprime lo stesso concetto all'art. 2087 dice "L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".
In entrambi i casi si parla chiaramente di "conoscenze acquisite", "progresso tecnico", "esperienza" e "tecnica". Ovvero, anche in assenza di classificazione di legge, la conoscenza (consolidata) della pericolosità della sostanza obbliga il Datore di Lavoro ad agire di conseguenza. A tutela del lavoratore. Principio valido, ovviamente, su qualsiasi tipologia di rischio.

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