Storie di infortunio: la regola dell’equilibrio
Il Centro regionale di Documentazione per la Promozione della Salute della Regione Piemonte ( Dors) raccoglie storie d'infortunio rielaborate dagli operatori dei Servizi PreSAL delle SL piemontesi a partire dalle inchieste di infortunio, con la convinzione che conoscere come e perché è accaduto sia una condizione indispensabile per proporre soluzioni efficaci per la prevenzione.
Questa storia, dal titolo “La regola dell’equilibrio” (a cura di Nicoletta Benzi, Piero Groia, Stefano Nava, Servizio Pre.S.A.L. della Asl T054 e della Asl CNZ), presenta un infortunio avvenuto sul tetto di un edificio in ristrutturazione, dove un lavoratore sta rifilando il profilo metallico del colmo ripiegandolo sulle greche del pannello.
Il lavoratore improvvisamente scivola dal tetto spiovente e viscido e tenta di aggrapparsi ai bulloni di ancoraggio sporgenti, ma invano. Dopo una caduta nel vuoto di 5 metri, precipita dapprima contro il bordo della copertura sottostante perdendo i sensi e, dopo un salto di altri 5 metri, muore sbattendo contro la pavimentazione in cemento.
La caduta mortale è avvenuta poiché il ponteggio era stato installato rispettando una normativa non più allineata alle conoscenze tecniche. L’accaduto viene ripreso dai quotidiani locali, anche a seguito dell’impulso dato dalla moglie della vittima, e solleva una discussione al tavolo del gruppo nazionale edilizia a cui partecipano rappresentanti delle regioni e del Ministero del lavoro.
Una tragica storia di infortunio diventa un caso in cui lo specifico contributo di soggetti che costituiscono il livello istituzionale di conoscenza tecnico/scientifica dell’ambiente di lavoro, diviene informazione utile ed efficace per produrre un miglioramento nella tecnica di prevenzione e non resta accumulo burocratico di sapere inutilizzato.
La regola dell’equilibrio
[…]
Ricostruzione dell’infortunio
Siamo tornati più volte nel cantiere nel corso dell’inchiesta anche con il perito di parte nominato dal tribunale e, attraverso rilievi e misurazioni, abbiamo ricostruito la dinamica dell’infortunio.
La prima cosa che abbiamo considerato e stata l’umidità che aveva reso la superficie del tetto ancora più scivolosa che, insieme alla forte inclinazione del tetto, ha favorito la velocità di scivolamento. Abbiamo quindi cominciato a disegnare e abbiamo visto che la freccia di proiezione andava a impattare esattamente nella zona dove c’era la tavola.
Analizzando i progetti abbiamo potuto rilevare che:
-la pendenza del tetto era elevata (quasi 50%) il che implicava rischio di caduta;
-il colmo del tetto si trovava a 2,05 metri rispetto al piano di calpestio del ponteggio;
-il corpo durante la caduta ha acquisito una energia legata alla velocità che, nell’impatto contro il parapetto, e stata quasi completamente trasferita al parapetto costituito dalla tavola fermapiede; tale energia corrisponde ad una forza equivalente pari ad almeno 200 kg e dipende da tre parametri: peso del corpo, pendenza del tetto e distanza tra il colmo e il punto di impatto.
Abbiamo così ricostruito la dinamica.
Probabilmente Sergio era a cavalcioni del colmo del tetto, con in mano le forbici e altri attrezzi; infatti abbiamo trovato anche dei ritagli di lamiera sparsi, perché non si doveva solo ripiegare la lamiera, ma c’erano degli angoli che si dovevano rifilare. II colmo era stretto e bastava poco per perdere l’equilibrio.
Sergio non era ancorato con nessuna cintura di sicurezza come ha confermato il collega:
“la ditta ha in dotazione le cinture di sicurezza e i caschi ma quel giorno non li avevamo portati in cantiere e li avevamo lasciati nel nostro magazzino”
Dopo aver ripiegato alcuni metri di lamiera, probabilmente nello spostarsi sul colmo, ha perso l’equilibrio ed e scivolato lungo la falda.
È scivolato, probabilmente senza perdere i sensi, perché aveva dei tagli sulle mani, che facevano pensare al fatto che avesse tentato di aggrapparsi ai bulloni di ancoraggio che sporgevano dal tetto. Dopo un salto nel vuoto di 5 metri, e precipitato dapprima contro il bordo della copertura sottostante perdendo i sensi e poi, dopo un salto di altri 5 metri, e andato a sbattere contro la pavimentazione in cemento antistante l’entrata dell’edificio dove abbiamo ritrovato il corpo.
L’inchiesta
Ci siamo chiesti se quel ponteggio che, a prima vista sembrava ben fatto, fosse adeguato per proteggere chi lavorava sul tetto. Dalla lettura del POS (Piano Operativo di Sicurezza) e della documentazione allegata abbiamo scoperto che l’ultimo piano del ponteggio serviva a protezione delle persone che lavoravano sul tavolato e non per quelli che lavoravano sul tetto e potevano scivolare.
Infatti, nel documento si leggeva: “il presente sistema di protezione collettiva contro le cadute deve intendersi destinato a servizio esclusivo dell’ultimo piano praticabile del ponteggio. Pertanto e espressamente vietato l’impiego di tale sistema a protezione di posti di lavoro diversi dal predetto piano”.
Quindi:
- i parapetti del ponteggio erano una misura di protezione delle cadute solamente dei posti di lavoro situati al piano dei tavolati del ponteggio e non di altri posti di lavoro dove le forze esercitate erano superiori a quelle previste dall’autorizzazione ministeriale;
- il piano terminale del ponteggio si trovava mezzo metro al di sotto della gronda del tetto;
- il ponteggio, così come realizzato, non era dunque idoneo a reggere i carichi orizzontali, ma solo quelli gravanti sul piano di calpestio.
Un’altra inosservanza, forse la principale, e che nel cantiere non era stato nominato il coordinatore per la sicurezza né in fase di progettazione, né di esecuzione. Infatti, un coordinatore, avrebbe potuto: rilevare il pericolo dovuto alla pendenza e al materiale utilizzato per la copertura, valutare che il ponteggio non era sufficiente e quindi prescrivere misure aggiuntive a protezione della caduta dall’alto. Inoltre, avrebbe esercitato un ruolo di raccordo tra le tre imprese sulla sicurezza, anche se formalmente non si sarebbero dovute sovrapporre nelle lavorazioni.
Non sarebbe successo se...
Abbiamo identificato tre elementi che, verosimilmente, avrebbero ridotto la probabilità di accadimento di questo infortunio; in ordine di priorità:
1. la nomina del coordinatore per la sicurezza: egli avrebbe dovuto predisporre il PSC (Piano di Sicurezza e Coordinamento) valutando i rischi legati alle diverse fasi di lavorazione del cantiere e progettando di conseguenza i sistemi di protezione collettivi (ponteggio) e individuali (linea vita e cinture di sicurezza) più adeguati.
2. in ogni caso, la ditta incaricata di montare il ponteggio avrebbe dovuto considerare i rischi legati alle diverse lavorazioni comprese quelle effettuate sul tetto.
3. e infine, la ditta che ha realizzato la copertura, in cui lavorava Sergio, avrebbe dovuto valutare il sistema di sicurezza del cantiere considerando le lavorazioni da effettuare sul tetto, alzando e rinforzando il ponteggio o, in alternativa, predisponendo una linea vita con le cinture di sicurezza.
Abbiamo concluso l’inchiesta e consegnato il verbale alla Procura il 30 luglio di quell’anno.
Ma non finisce qui
Qualche tempo dopo, siamo stati contattati da un sindacalista del biellese, Tommaso, che ci ha portato alcuni ritagli di giornali locali relativi all’infortunio. Negli articoli emergeva in particolare l’impegno di Lisa, moglie di Sergio, che voleva capire come poteva essere accaduto l’infortunio.
La incontrammo a una conferenza sulla sicurezza negli ambienti di lavoro in cui era stata allestita la mostra fotografica itinerante sul rogo della Thyssen. La serata era divisa in due momenti: nel primo si presentavano alcune storie di infortunio con la discussione sui casi, nel secondo si proiettava un filmato. C’erano anche dei parenti di infortunati. Non so se Lisa fosse stata invitata da qualcuno, probabilmente dal sindacalista, ma a un certo punto e salita sul palco e ha letto una lettera commovente nella quale raccontava come i bambini cercassero sempre il papà. Poi ci saremmo dovuti spostare per vedere il filmato, ma non abbiamo potuto vederlo perché Lisa, quando ha saputo che noi avevano seguito l’inchiesta di suo marito, ci ha raggiunto dicendoci:
“sono la moglie di Sergio, vorrei parlare con voi di quello che è successo a mio marito”
Ha voluto sapere tutto: com’era caduto, se secondo noi aveva sofferto.
A me e rimasta impressa perché e una donna minuta ma molto tenace. Ci ha colpito molto e abbiamo cercato di fornirle tutte le informazioni che potevamo considerando che il dibattimento non era ancora avvenuto.
Ci ha raccontato che, dopo la morte del suo Sergio, aveva visitato alcuni cantieri edili per capire come mai, un uomo sportivo, alpinista scalatore, paracadutista alpino, potesse essere precipitato in quel modo. Si era anche recata sul luogo dell’infortunio, aveva parlato a lungo con i colleghi del marito facendosi spiegare tutto nei minimi dettagli.
Una contingenza ci conduce alla testimonianza di Stefano Nava, membro del gruppo nazionale edilizia
Un giorno mi telefonò un sindacalista del biellese, Tommaso, e tra gli altri argomenti su cui discutere, mi sottopose il caso di un infortunio mortale di cui avevano trattato molti giornali locali. Un giovane lavoratore di 32 anni era caduto da un tetto in costruzione e sua moglie stava cercando di capirne il perché. Si trattava di un infortunio in cui l’opera provvisionale utilizzata, un ponteggio posto sul perimetro della copertura, non aveva impedito la caduta al suolo dell’infortunato. Dopo quella telefonata, Tommaso mi inviò maggiori informazioni sull’accaduto, compresi gli articoli apparsi sulla stampa locale.
Non era un caso che Tommaso si fosse rivolto a me: infatti, in quel periodo facevo parte del gruppo di lavoro tematico “cantieri” istituito per la redazione del testo unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro presso il Ministero del Lavoro. In particolare, il testo era già stato pubblicato nella sua prima versione e si lavorava alle modifiche da introdurre al testo di norma per poterlo migliorare. Mario, il coordinatore del gruppo, era anche il funzionario che coordinava la commissione ministeriale per il rilascio delle autorizzazioni ai costruttori di ponteggi.
Presi a cuore la storia di Lisa e mi apparve doveroso sottoporre all’attenzione del gruppo di lavoro quel disgraziato caso di infortunio e la tragedia familiare che aveva generato.
All’interno del gruppo si aprì una discussione piuttosto accesa per capire se vi fosse una lacuna nella norma ed eventualmente come poterla correggere. Alcuni colleghi del gruppo di lavoro erano preoccupati che una modifica della norma avrebbe comportato l’utilizzo in cantiere di sistemi alternativi al ponteggio, che avrebbero potuto rivelarsi altrettanto inefficaci e forse ancora più pericolosi quali, ad esempio, parapetti prefabbricati di classe non adeguata.
In effetti, il ponteggio come protezione per i lavori in copertura era stato utilizzato per decenni. La norma vigente al momento dell’infortunio risaliva al 1956 quando i ponteggi erano ancora in legno e imponeva che i montanti del parapetto superassero di almeno 1,20 metri l’ultimo impalcato o il “piano di gronda”. Quella disposizione, così come era stata scritta più di mezzo secolo prima, lasciava intendere che il ponteggio poteva essere utilizzato a protezione di chi si trovava a operare sulla copertura, poiché conteneva quel riferimento al “piano di gronda”.
Come spesso accade, la tecnica e il progresso superano la norma stessa. Difatti i costruttori di ponteggi metallici sui loro libretti contenenti l’autorizzazione ministeriale, da tempo avevano introdotto l’avvertenza che i parapetti di sommità erano destinati a proteggere solo l’ultimo piano di impalcato e non certo l’operatore che si trovava su un piano diverso quale ad esempio la copertura, proprio come aveva fatto il costruttore del ponteggio oggetto dell’infortunio. Tecnicamente voleva dire che i costruttori certificavano la resistenza del parapetto di sommità, in tutte le sue parti compresa la tavola fermapiede, solo ai cosiddetti carichi statici, mentre non potevano certificare la resistenza ai carichi dinamici ovvero a quell’energia prodotta da un corpo in caduta da una superficie inclinata cha va a impattare sul parapetto di sommità e sull’ultimo impalcato.
L’energia in questi casi e molto più alta e dipende da molti fattori non prevedibili dal costruttore del ponteggio: massa del corpo, inclinazione della copertura, distanza dal punto di caduta al punto di impatto, velocità di caduta dovuta anche all’attrito e quindi alla scivolosità della copertura, ecc.
Al termine della discussione all’interno del gruppo di lavoro, era chiaro a tutti che la norma andava corretta perché ormai non più allineata alle conoscenze tecniche.
Nel caso ad esempio dell’allestimento dei parapetti prefabbricati da utilizzare ai bordi delle coperture, le specifiche tecniche avevano messo in evidenza che l’elemento fermapiede era quello più debole in caso di caduta da una superficie inclinata, proprio come successo nell’infortunio di Sergio. Di conseguenza, erano stati previsti valori di resistenza a carico dinamico nella zona del fermapiede molto più elevati rispetto a quelli delle parti superiori.
II risultato fu che la norma riguardante i ponteggi venne modificata, eliminando il riferimento al “piano di gronda” e precisando che il parapetto del ponteggio in tutti i suoi elementi deve proteggere dal rischio di caduta dall’alto, esclusivamente i lavoratori che operano sull’ultimo impalcato del ponteggio.
Ma non basta ancora!
Considerato l’uso che negli anni in cantiere si era fatto dei ponteggi, una volta corretta la norma, si trattava di dare indicazioni su come fare a utilizzare in sicurezza il ponteggio per i lavoratori che svolgono la loro attività sulle coperture, e quindi anche in posizione diversa dall’ultimo impalcato del ponteggio.
Circa un anno dopo la modifica al testo unico di sicurezza, il Ministero del Lavoro pubblicò una circolare (Allegato l) che chiariva innanzitutto che era possibile utilizzare il ponteggio come protezione collettiva dei lavoratori posti sulla copertura e quindi anche in posizione diversa dall’ultimo impalcato del ponteggio, ma solo a determinate condizioni.
La condizione necessaria e che per ogni singola realizzazione e a seguito di adeguata valutazione dei rischi venga eseguito uno specifico progetto del ponteggio. Da tale progetto, a firma di ingegnere o architetto abilitato, deve risultare quanto occorre per definire lo specifico schema del ponteggio nei riguardi “dei carichi, delle sollecitazioni e dell’esecuzione”.
Si richiede cioè di verificare proprio quelle condizioni sconosciute ai produttori di ponteggi, che caratterizzano il singolo cantiere, a partire da: una attenta valutazione della tipologia di copertura e la sua geometria (inclinazione e altezza di caduta), le distanze del parapetto di sommità e dell’ultimo impalcato dal filo di gronda, le lavorazioni da effettuare e i conseguenti rischi. II progetto del ponteggio, comprendente il calcolo di resistenza e stabilità e il relativo disegno esecutivo, definisce le misure di sicurezza necessarie a trattenere la eventuale caduta del lavoratore che opera in copertura quali ad esempio:
- corrette dimensioni degli spazi fra gli elementi del parapetto (aggiunta di correnti o reti di sicurezza);
- idonea resistenza degli elementi costituenti il parapetto e dell’impalcato alle azioni indotte dalla caduta (raddoppio dei montanti, raddoppio dell’impalcato, aumentare lo spessore della tavola fermapiede e degli attacchi per il suo fissaggio al montante, ecc..);
- modifica della struttura per renderla adatta a resistere alle nuove azioni (aumento del numero di ancoraggi).
La pubblicazione di questi due provvedimenti normativi ha acceso un riflettore su un problema esistente da tempo. Pur non avendo a disposizione elementi oggettivi di valutazione sul miglioramento delle condizioni di sicurezza riguardo ai ponteggi avvenuti a seguito della pubblicazione degli interventi normativi, si può ragionevolmente sostenere che essi abbiano aumentato l’attenzione e la sensibilità dei diversi soggetti che operano sulla sicurezza nei cantieri (imprese, coordinatori, organi di vigilanza) e conseguentemente abbiano migliorato le condizioni di uso del ponteggio per chi lavora in copertura.
Insomma la caparbietà di quella giovane moglie disperata aveva messo in movimento un meccanismo, che sia pure per una combinazione casuale di fattori, aveva portato a modificare e a migliorare la normativa specifica contribuendo forse a evitare in futuro quello che era accaduto al marito Sergio.
Leggi la storia completa - La regola dell’equilibrio (formato pdf, 2.7 MB).
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Rispondi Autore: Fausto Pane - likes: 0 | 10/11/2016 (22:16:34) |
"2. in ogni caso, la ditta incaricata di montare il ponteggio avrebbe dovuto considerare i rischi legati alle diverse lavorazioni comprese quelle effettuate sul tetto" Come dire: in assenza delle nomine dei coordinatori da parte del committente, scegliamo un'impresa a caso per per risarcire i parenti in caso di infortunio. Scusate il cinismo, E RIPETO, SCUSATE IL CINISMO, ma è da un paio d'anni che tra sentenze, interpelli, norme tecniche, direttive di ASL, DPL ed altri soloni, si sta veramente sclerando: si sostiene tutto ed il suo contrario. Ma dove si è mai scritto che le imprese devono controllarsi vicendevolmente. Scusate, dopo aver appreso che in Spagna il giudice ha archiviato il fascicolo per la morte di 17 ragazze a causa del colpo di sonno dell'autista del pullman (...l'ha detto lui 'mi sono addormentato'), mi sento un po' demoralizzato. Fausto Pane |