Emergenza Coronavirus: la salute circolare e la valutazione dei rischi
Urbino, 17 Apr – I vari saggi pubblicati in queste settimane su “Diritto della sicurezza sul lavoro”, rivista dell'Osservatorio Olympus e pubblicazione semestrale dell' Università degli Studi di Urbino - Dipartimento di Giurisprudenza, ci permettono di andare oltre la singola ordinanza regionale, le specifiche buone prassi per le attività più a rischio di contagio da COVID-19, e di fare qualche utile riflessione. Riflessione che ci aiuta a comprendere come questa emergenza stia cambiando e, ancor più, debba cambiare la nostra idea di prevenzione e di salute nei luoghi di lavoro.
In particolare il saggio “Per un (più) moderno diritto della salute e della sicurezza sul lavoro: primi spunti di riflessione a partire dall’emergenza da Covid-19” - pubblicato sulla rivista n. 1/2020 e a cura di Chiara Lazzari (ricercatrice di Diritto del lavoro e Docente di Laboratorio di diritto sindacale e del lavoro all’Università di Urbino Carlo Bo) - affronta il concetto di “salute circolare”.
Il suo contributo a partire dalla considerazione dell’emergenza da COVID-19, avvalendosi come chiave interpretativa del concetto di “salute circolare”, propone una lettura del rapporto fra organizzazione e ambiente che si traduce anche in una riflessione sulla relazione fra art. 2087 c.c. e obbligo di valutazione dei rischi.
Riguardo al contenuto del saggio l’articolo si sofferma sui seguenti argomenti:
- L’emergenza COVID-19 e la salute circolare
- L’aggiornamento del documento di valutazione dei rischi
- I cerchi concentrici dell’obbligo di sicurezza e della valutazione
L’emergenza COVID-19 e la salute circolare
Il contributo accenna innanzitutto all’idea, propugnata dalla virologa Ilaria Capua, di una «salute circolare», quale “sistema di vasi comunicanti che impone di ricercare un equilibrio migliore fra uomo e ambiente complessivamente considerato”.
Un concetto, indica la ricercatrice, che appare “particolarmente intrigante anche per il giurista uso a occuparsi di sicurezza nei luoghi di lavoro, se non altro perché la normativa fondamentale in materia, ossia il d.lgs. n. 81/2008, accoglie del concetto di «salute» un’accezione molto ampia”, in linea con le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, quale ‘stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità’.
In questo senso si indica che non è casuale che “di recente si sia sviluppato un originale filone di ricerca meritoriamente volto proprio a esplorare le connessioni fra diritto del lavoro e ambiente inteso in senso lato, altresì nella prospettiva della salute e sicurezza”.
E per comprendere l’impatto che un’organizzazione produttiva può avere rispetto al territorio circostante e alla salute della popolazione che lo abita, “basti pensare, per tutti, a Taranto e al caso Ilva”.
Se tuttavia fin qui non ci si discosta “dall’idea, tutto sommato tradizionale, dell’organizzazione potenziale fonte di rischi non solo per i soggetti che nel suo ambito prestano la propria attività, ma altresì per i terzi che abitano l’ambiente nel quale essa è inserita”, l’emergenza da COVID-19 se letta con riferimento al concetto di «salute circolare», sollecita “il compimento di un passo ulteriore, specie in prospettiva”.
Questo concetto implica, infatti, la necessità di “affrontare il problema della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori in un’ottica di tipo bidirezionale”.
In questo senso “la permeabilità fra organizzazione e ambiente in senso ampio” non può non risultare da ambo i lati, “perché l’idea di ‘salute circolare’ comporta che, se si vuole davvero garantire al cittadino lavoratore il pieno godimento del diritto fondamentale di cui all’art. 32 Cost., il cerchio non possa essere percorso solo per metà”.
L’aggiornamento del documento di valutazione dei rischi
Dunque – continua il saggio – “se i rischi professionali, quindi tipici dell’organizzazione, che possono produrre effetti anche sull’ambiente esterno e su chi lo abita, debbono essere oggetto di valutazione, si può fondatamente immaginare un’organizzazione che si disinteressi dei rischi generici i quali, però, penetrando all’interno della stessa, possono essere aggravati dall’occasione di lavoro”?
Detto questo il saggio vuole tuttavia “sgombrare il campo da un possibile equivoco”.
Come vari studi hanno indicato, ad esempio con riferimento a quanto indicato dallo stesso Prof. Paolo Pascucci, “nella situazione di piena emergenza che stiamo vivendo sembra doversi escludere un obbligo generalizzato di aggiornamento del documento di valutazione dei rischi da parte del datore di lavoro, per il fatto che la valutazione del rischio determinato dal nuovo Coronavirus ( SARS-CoV-2), e dalla malattia (Covid-19) che esso causa, risulta operata a monte dallo stesso legislatore, in quanto dotato, nella fase emergenziale in atto, delle competenze tecnico/scientifico necessarie al riguardo”.
Sicché – continua il saggio riguardo al delicato tema della valutazione dei rischi – “solo nelle realtà che già si confrontavano con l’applicazione del Titolo X del d.lgs. n. 81/2008, come quelle dei servizi sanitari, i cui operatori sono esposti agli agenti biologici presenti nei pazienti, o dei laboratori nei quali la manipolazione di tali agenti avviene per scopi di ricerca, il DVR dovrà essere aggiornato. Non a caso, la disciplina contenuta nel Titolo citato si riferisce ‘a tutte le attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad agenti biologici’ (art. 266, comma 1) o a causa di un uso deliberato degli stessi da parte del datore di lavoro o in quanto, pur non essendoci intenzione di operare con essi (art. 271, comma 4), il datore organizzi attività lavorative, quali quelle elencate in via esemplificativa nell’Allegato XLIV al d.lgs. n. 81/2008, che, per le loro modalità di svolgimento, possono implicare un’esposizione agli agenti suddetti”.
Invece “laddove il rischio biologico si configuri, invece, come generico e l’organizzazione, produttiva e del lavoro, costituisca, in virtù dei meccanismi di trasmissione del virus, una delle tante possibili fonti di contagio, non diversamente dagli altri luoghi in cui è ipotizzabile il contatto fra persone, spetterà (non già al datore, ma) alla pubblica autorità procedere alla valutazione del medesimo”.
E questo non implica affatto che il datore di lavoro “possa disinteressarsi dell’adozione di idonee misure di prevenzione, dovendo piuttosto adeguarsi a quelle indicate espressamente dai provvedimenti adottati in ragione del precetto generale di cui all’art. 2087 c.c.”.
I cerchi concentrici dell’obbligo di sicurezza e della valutazione
Si indica poi che è stato sottolineato che «l’obbligo di sicurezza e la valutazione dei rischi rappresentano cerchi concentrici, il secondo più piccolo e interamente racchiuso nel primo» (L.M. PELUSI, Tutela della salute dei lavoratori e COVID-19).
Tuttavia se tale “suggestiva ricostruzione fotografa l’assetto obbligatorio attuale” non è detto che “l’immagine che ci viene restituita sia da considerare un dato necessariamente connaturato al sistema di prevenzione”.
La ricercatrice indica che, a suo parere, l’obbligo di valutazione dei rischi costituisce “il migliore strumento attuativo delle potenzialità preventive insite nell’art. 2087 c.c., la cui vocazione in tal senso è da sempre fuori discussione, ma la cui applicazione pratica è avvenuta soprattutto in sede risarcitoria, ossia ex post”. La legislazione comunitaria, mediata da quella nazionale di recepimento – continua il saggio - fornisce invece “al datore di lavoro la strumentazione per dare concreto e corretto adempimento ex ante, cioè in chiave preventiva, all’obbligo posto dalla norma codicistica. Del resto, come individuare ‘le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro’” (art. 2087 c.c.) “senza il prius logico della valutazione dei rischi, la cui eliminazione/riduzione impone, per l’appunto, l’adozione di quelle misure”?
Ragionando di nuovo in termini di circolarità, se “quello ‘fra norma generale e norme speciali è […] un sistema circolare’” (P. ALBI, La sicurezza sul lavoro e la cultura giuridica italiana fra vecchio e nuovo diritto) e se “tra l’art. 2087 c.c. e la disciplina del d.lgs. n. 81/2008 si è ‘compiutamente realizzata una perfetta fusione valoriale e funzionale’” (L. ANGELINI, La valutazione di tutti i rischi), “legislatore e interprete dovrebbero operare affinché i due ‘cerchi concentrici’ tendano viepiù a sovrapporsi. E ciò anche in un’ottica di maggiore certezza per il datore di lavoro, poiché l’attuazione in chiave procedurale e organizzativa dell’art. 2087 c.c. potrebbe contribuire altresì a sciogliere l’annoso dilemma circa i confini dell’obbligo ivi previsto”.
Rimandiamo, infine, alla lettura integrale del documento che non solo è ricco di indicazioni relative alle fonti bibliografiche, ma che riporta anche alcune proposte emendative del d.lgs. n. 81/2008, in tema, in particolare, di medico competente e rischio biologico.
Scarica il documento da cui è tratto l'articolo:
Università di Urbino Carlo Bo, Osservatorio Olympus, Diritto della sicurezza sul lavoro, “ Per un (più) moderno diritto della salute e della sicurezza sul lavoro: primi spunti di riflessione a partire dall’emergenza da Covid-19”, a cura di Chiara Lazzari, ricercatrice di Diritto del lavoro e Docente di Laboratorio di diritto sindacale e del lavoro all’Università di Urbino Carlo Bo – DSL 1/2020 (formato PDF, 341 kB).
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Rispondi Autore: avv. Rolando Dubini - likes: 0 | 17/04/2020 (14:11:05) |
Per fortuna l'Inail ha un'idea molto chiara sui lavoratori esposti al rischio di infortunio da contagio Covid-19 sul luogo di lavoro: tutti. Tutela infortunistica Inail nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS CoV-2) in occasione di lavoro INAIL Direzione centrale rapporto assicurativo Sovrintendenza sanitaria centrale - Circolare n. 13 Roma, 3 aprile 2020 Tutela infortunistica Inail nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS CoV-2) in occasione di lavoro. L’articolo 42, comma 2, del decreto in oggetto stabilisce che nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’Inail che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni Inail nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti del decreto Interministeriale 27 febbraio 2019. La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati. Ambito della tutela La norma di cui al citato articolo 42, secondo comma, chiarisce alcuni aspetti concernenti la tutela assicurativa nei casi accertati di infezione da nuovo coronavirus (SARS-CoV-2), avvenuti in occasione di lavoro. In via preliminare si precisa che, secondo l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie (Linee-guida per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie di cui alla Circolare Inail 23 novembre 1995, n. 74), l’Inail tutela tali affezioni morbose inquadrandole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro: in questi casi, infatti, la causa virulenta è equiparata a quella violenta. In tale ambito delle affezioni morbose, inquadrate come infortuni sul lavoro, sono ricondotti anche i casi di infezione da nuovo coronavirus occorsi a qualsiasi soggetto assicurato dall’Istituto. La disposizione in esame, confermando tale indirizzo, chiarisce che la tutela assicurativa Inail, spettante nei casi di contrazione di malattie infettive e parassitarie negli ambienti di lavoro e/o nell’esercizio delle attività lavorative, opera anche nei casi di infezione da nuovo coronavirus contratta in occasione di lavoro (nota 6) per tutti i lavoratori assicurati all’Inail. Sono destinatari di tale tutela, quindi, i lavoratori dipendenti e assimilati, in presenza dei requisiti soggettivi previsti dal decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124, nonché gli altri soggetti previsti dal decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38 (lavoratori parasubordinati, sportivi professionisti dipendenti e lavoratori appartenenti all’area dirigenziale) e dalle altre norme speciali in tema di obbligo e tutela assicurativa Inail. Nell’attuale situazione pandemica, l’ambito della tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus. A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza. In via esemplificativa, ma non esaustiva, si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della presunzione semplice valido per gli operatori sanitari. Le predette situazioni non esauriscono, però, come sopra precisato, l’ambito di intervento in quanto residuano quei casi, anch’essi meritevoli di tutela, nei quali manca l’indicazione o la prova di specifici episodi contagianti o comunque di indizi “gravi precisi e concordanti” tali da far scattare ai fini dell’accertamento medico-legale la presunzione semplice. In base alle istruzioni per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, la tutela assicurativa si estende, infatti, anche alle ipotesi in cui l’identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica. Ne discende che, ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, né si può comunque presumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro elemento che in tal senso deponga, l’accertamento medico-legale seguirà l’ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale. |
Rispondi Autore: MB - likes: 0 | 18/04/2020 (08:35:18) |
Buongiorno Avvocato, mi permetto di dissentire dalla sua tesi. Le attuali interpretazioni normative (Vedi ad esempio le recenti Circolari emanate dalla Reg. Veneto e varie indicazioni emanate da ATS nonchè una Circolare interna dell'INL) tendono a classificare il covid come rischi generico e non specifico (tantomeno non generico aggravato allo stato attuale, se poi l' Italia dovesse aprire a macchia di leopardo potrebbe configurarsi come aggravato a mio modo di vedere in quanto non uniforme). In ogni caso, analizzando la frase della Circ. INAIL: Ne discende che, ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, né si può comunque presumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro elemento che in tal senso deponga, l’accertamento medico-legale seguirà .... Se il rischio fosse presente n DVR sarebbe in un qual senso un rischio palese, quindi forse non avrebbe senso questa affermazione. Se infatti dovessi scrivere nel DVR rischio covid presente l' INAIl non dovrebbe fare troppi sforzi di analisi. Premesso che: 1) a livello operativo tra mettere " DVR biologico covid " e " Procedura Covid" non cambia nulla, né a livello di tempo impiegato né a livello di protezione operatori visto che il DPCam ha spiegato e dettagliato le misure da prendere (almeno per le aziende esposte a rischio generale non professionale). 2) gli organi deputati ai controlli guardano nel concreto l' applicazione delle misure di contenimento e non se il documento si chiama Pippo o Pluto. Reputo giuridicamente errato affermare la necessità indiscriminato del DVR Biologico Covid e secondo me l' INAIL conviene. Che poi l' INAIl risarcisca è un altro paio di mani, INAIL risarcisce anche l' incidente in itinere che non è un rischio professionale ma generale o generico. Cordialmente. MB. |
Rispondi Autore: carmelo catanoso - likes: 0 | 18/04/2020 (09:12:09) |
Infatti. E' inutile perché tanto Dubini questi aspetti non li vuole comprendere. Questo copia-incolla relativa alla circolare dell'INAIL, l'ha già fatto almeno altre 4 o 5 volte in ciascuna delle altre 6 discussioni sul Covid-19 a cui partecipa. Gli si fanno domande come quelle sotto e non risponde mai. Prende e fa l'ennesimo inutile copia-incolla di argomenti e pronunce della Cassazione che non hanno nulla a che vedere con l'attuale scenario. Tanto per non perdere l'abitudine, ripropongo le solite tre domande a cui Dubini continua a non rispondere: - Quali devono essere i contenuti di un aggiornamento di un DVR per il COVID-19? "Quale è la differenza tra un aggiornamento di un DVR integrando quello che mi impongono le Autorità Pubbliche (non posso come datore di lavoro attuare misure diverse) e l'applicazione del Protocollo con le stesse misure contestualizzate in funzione dell'attività dell'azienda e delle specificità della stessa?" "Quando un ente di vigilanza andrà in un'azienda cosa verificherà? Se il Protocollo è concretamente applicato oppure il nome dell'evidenza documentale in cui la contestualizzazione del Protocollo è stata descritta? |
Rispondi Autore: avv. Rolando Dubini - likes: 0 | 18/04/2020 (12:35:56) |
Il solito parere aureo di Raffaele Guariniello è di conforto per chi mette al primo posto la tutela dei lavoratori da tutti i rischi presenti durante il lavoro, ai sensi degli articoli 17, 28, 29, 266 e 171 commi 1 e 4 del D. Lgs. n. 81/2008. Proprio l’eccezionalità di questi giorni potrebbe indurre a un appannamento magari velato delle garanzie previste a tutela della sicurezza e salute nei luoghi di lavoro. Non sembra questa la scelta operata dal nostro legislatore, attento a coinvolgere le stesse imprese nelladelicata opera di contenimento del virus, a tutela dei lavoratori e per conseguenza delle stesse popolazioni, anche attraverso le misure di sostegno stabilite nel D.L. n. 18/2020. TUTTI SI STANNO chiedendo se il datore di lavoro debba valutare il rischio coronavirus e individuare le misure di prevenzione contro tale rischio nel documento di valutazione dei rischi. A dare la risposta è, a ben vedere, l’art. 28, comma 2, lett. a), TUSL, ove si usa l’espressione “tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa”. Un’espressione altamente volutamente significativa, in quanto fa intendere che debbono essere valutati tutti rischi che possono profilarsi, non necessariamente a causa dell’attività lavorativa, bensì durante l’attività lavorativa: come appunto il coronavirus. Proprio quel “durante” induce a condividere la linea interpretativa accolta dalla Commissione per gli Interpelli nell’attualissimo Interpello n. 11 del 25 ottobre 2016: “il datore di lavoro deve valutare tutti i rischi, compresi i potenziali e peculiari rischi ambientali legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa dovrà essere svolta, quali a titolo esemplificativo, i rischi legati alle condizioni sanitarie del contesto geografico di riferimento”. Tra le misure anti-coronavirus a tutela della salute nei luoghi di lavoro, ha assunto un particolare rilievo il lavoro agile, anche in deroga agli accordi individuali e agli obblighi informativi. È tutt’altro che agevole coglierne le implicazioni sul terreno della sicurezza sul lavoro. Anzitutto, perché sono rimasti irrisolti i dubbi interpretativi e applicativi sollevati dalla Legge n. 81/2017 sul lavoro agile. E inoltre perché il D.P.C.M. 8 marzo 2020 impone comunque il rispetto dei principi dettati dagli articoli da 18 a 23 di questa legge. E non si pensi che gli obblighi del datore di lavoro siano circoscritti a una mera individuazione dei rischi connessi alla prestazione del lavoro agile, quasi che la predisposizione e l’attuazione delle misure di prevenzione fossero esclusivamente rimesse alla discrezione e alla sapienza del lavoratore agile destinatario dell’informativa sui rischi. P.s. Questo è uno spazio libero al commento. Non rispondo agli anonimi. A chi ripete sempre gli stessi inutili commenti copia e incolla che non conosce il significato dell'obbligo di valutare tutti i rischi durante il lavoro E a chi personalizza la discussione per mancanza di argomenti giuridicamente fondati. E chi invita reiteratamente a violare la legge sanzionata penalmente a carico del datore di lavoro. I consulenti che espongono a rischio penale e giudiziario i datori di lavoro vanno evitati accuratamente perché non sanno quello che fanno |
Rispondi Autore: MB - likes: 0 | 18/04/2020 (12:48:38) |
No avvocato, mi dispiace nuovamente contraddirla ma si sbaglia. Lei ha citato un parere che ha lo stesso valore del parere del Prof. Pascucci. Io applico le Direttive impartite dalla ASL, il suo Parere non ha alcun valore, non è vincolante e non ha potere legislativo, è mio dovere attenersi alle direttive impartite dall' autorità competente. Il suo Parere, oltre a non aver valore di legge, é a mio modo di vedere, anche sbagliato e dimostra di non aver compreso la normativa in materia di sicurezza e salute sul lavoro. |
Rispondi Autore: MORENO CERVELLI - likes: 0 | 18/04/2020 (14:15:08) |
Caro avvocato, non ritiene che sia troppo comodo questo gioco, ormai troppo frequente, di scaricare sempre tutto sui datori di lavoro, sulla loro organizzazione e sui loro budget? Con il razionale che lei utilizza, il datore di lavoro di una azienda di telemarketing dovrebbe valutare tra i rischi biologici anche il rischio influenza, l'ebola e chi più ne ha più ne metta. No aborro questo modo di ragionare che spero non trovi ulteriori proseliti. |
Rispondi Autore: carmelo catanoso - likes: 0 | 19/04/2020 (09:28:51) |
Dubini non fa che riproporre sempre le stesse cose. Se gli fate delle domande, come sto facendo io da due mesi, non vi risponde ma vi incolla il parere di questo o di quello (ovviamente, sempre i soli due o tre pareri che sposano la sua linea) o vi incolla pronunce della cassazione che non hanno nulla a che vedere con le particolarità della situazione che stiamo vivendo. Figuriamoci, poi, se mi copia incolla una delle tante esternazione di un soggetto che per 40 anni ha rappresentato la Pubblica Accusa……. Uno che non ha mai, dico mai, fatto un commento su una pronuncia della cassazione che, invece, accoglieva il ricorso di un RSPP, di un CSE, ecc., coinvolti in un procedimento penale. Quindi, per cortesia, lasciamo perdere certi personaggi e la loro visione. Se io scrivessi articoli dove il 98% dei commenti sconfessa le mie "interpretazioni", mi porrei almeno due domande: 1) scrivo sciocchezze visto che il 98% di chi legge non concorda con quanto ho scritto oppure 2) scrivo su un periodico dove il 98% dei lettori non è in grado di comprendere il mio pensiero. In entrambi i casi, le conseguenze, sarebbero logiche. A proposito di domande, ripropongo le solite tre domande a cui Dubini continua a non rispondere: - Quali devono essere i contenuti di un aggiornamento di un DVR per il COVID-19? "Quale è la differenza tra un aggiornamento di un DVR integrando quello che mi impongono le Autorità Pubbliche (non posso come datore di lavoro attuare misure diverse) e l'applicazione del Protocollo con le stesse misure contestualizzate in funzione dell'attività dell'azienda e delle specificità della stessa?" "Quando un ente di vigilanza andrà in un'azienda cosa verificherà? Se il Protocollo è concretamente applicato oppure il nome dell'evidenza documentale in cui la contestualizzazione del Protocollo è stata descritta? |
Rispondi Autore: Evangelisti Mauro - likes: 0 | 19/04/2020 (20:28:14) |
Buona sera Avvocato, legandomi al suo ragionamento che a mio punto di vista non fa una piega, mi permetto di farle nota di una mia riflessione sull'argomento. A mio parere il legislatore nazionale (se così lo possiamo chiamare in questo caso di specie) nelle varie emanazioni regolamentari e atti amministrativi emessi, quando indica un distanziamento ammissibile anche nei luoghi di lavoro di almeno "un metro", automaticamente sposta completamente la Responsabilità sulla tutela del Lavoratore da potenziali "contatti stretti" con soggetti contagiosi al Datore di Lavoro, che di fatto ha sempre avuto, come da Lei giustamento fatto osservare, infatti l'esito della valutazione del rischio nel caso in cui si aderisse a questa modalità di distanziamento (un metro) allo stato attuale delle cose, non può altro che dare un rischio di infezione da Covid-19 alto e del tutto inaccettabile e incompatibile, se non debitamente compensato con specifici dispositivi di protezione e adeguata formazione addestramento ecc., ma in questi casi Lei mi insegna che dovrebbe essere dimostarta l'impossibilità tecnica di un distanziamento maggiore, almeno oltre i due metri (1,86 per l'esattenzza) cioè oltre la distanza per effetto della quale si ha il c.d. "contatto stretto" con un potenziale soggetto contagioso. Va da se che nei casi di specie i lavoratori vanno fatti lavorare oltre i due metri tra di loro e pertanto non a contatto stretto e i DPI come le altre misure attuate "anti contagio" nel caso di specie fungono da ulteriore mezzo di protezione e di limitazione del rischio di contagio. Solo in questo modo e nell'attuale stato dei fatti dove non sappiamo se in azienda ci sono asintomatici positivi e come tali contagiosi, non abbiamo disponibilità delle mascherine adeguate, nessuno o pochi portano gli occhiali protetivi, ed altro ancora.. possiamo avere un rischio di contagio basso e sicuramente più basso di quello che le persone avrebbero al supermercato o in farmacia o nella vita estra lavorativa fuori dalla propria abitazione, dove tutti in ossequio al disposto normativo (che sarebbe quanto meno discutibile...) sono stati lasciati "a cantatto stretto" con potenziali soggetti contagiosi asintomatici e con DPI di fortuna. In questo caso l'INAIL avrebbe un bel da fare ad attribuire a questo Datore di Lavoro prudente e lungimirante la resposnabilità del contagio. Sarei molto onorato di avere un suo parere in merito A rivederla spero presto in un prossimo convegno Sempre con grande stima cordiali saluti Mauro Evangelisti |