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Due sentenze con decisioni apparentemente contrastanti

Due sentenze con decisioni apparentemente contrastanti
Adalberto Biasiotti

Autore: Adalberto Biasiotti

Categoria: Privacy

10/07/2017

Nel 2012 la Cassazione ebbe occasione di pronunciarsi sul fatto che un titolare del trattamento aveva installato telecamere, senza attenersi alle regole vigenti. Nel 2017 la Cassazione è tornata sullo stesso tema, dando però un’interpretazione diversa.


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Ricordiamo brevemente i fatti per i lettori.

Nel 2012 la cassazione affermò che un impianto di videosorveglianza, installato previa raccolta dell’esplicito consenso di tutti i lavoratori che potevano essere coinvolti nelle immagini riprese, era legittimamente installato, anche in assenza di autorizzazione della direzione territoriale del lavoro oppure del consenso dei sindacati.

 

La cassazione è tornata nel 2017 sullo stesso argomento, con un pronunciamento opposto.

Prima di avanzare perplessità su questo diverso atteggiamento della magistratura giurisprudenziale, conviene prendere attenta visione del nuovo regolamento generale sulla protezione dei dati 679/2016, laddove uno spazio non trascurabile è dedicato alle modalità con cui deve essere raccolto il consenso.

 

Una affermazione fondamentale del nuovo regolamento è che il consenso deve essere libero. A questo tema è dedicato in particolare l’articolo 7, che illustra appunto le condizioni per il consenso.

 

Il working party articolo 29 ha dedicato un pregevole documento all’analisi del trattamento dei dati nell’ambito dell’attività lavorativa.

 

Questo gruppo di lavoro ha più volte sottolineato il fatto che può essere ingannevole supporre che un trattamento, svolto dal datore di lavoro, possa essere reso legittimo dal fatto che i dipendenti hanno espresso il loro consenso.

 

Appare infatti evidente che laddove potrebbe nascere il legittimo sospetto che la mancata concessione del consenso potrebbe creare delle reazioni non positive da parte del datore di lavoro, non si ravvedono gli estremi perché il consenso sia valido e liberamente dato. Ecco la ragione per la quale, nella maggioranza dei casi, nei trattamenti dei dati da parte dei datori di lavoro, quindi dei titolari, la base legale per questo trattamento non può e non deve essere basata sul consenso espresso da dipendente, ma su una base legale differente.

 

Appare altrettanto evidente che la seconda sentenza sopra illustrata ha fatto proprio riferimento a questo fatto, ricordando che la installazione di un impianto di videosorveglianza, che possa non occasionalmente riprendere dei lavoratori, può avvenire solamente a seguito di una autorizzazione rilasciata dalla direzione provinciale del lavoro o da un accordo con i sindacati che rappresentano i lavoratori coinvolti.

 

Il solo consenso rilasciato dai lavoratori, per i motivi sopra illustrati, potrebbe non raggiungere quel livello di libertà di espressione, che il regolamento impone, in quanto condizionato dal rapporto tra il dipendente ed il datore di lavoro.

 

Una spassionata analisi della situazione oggettiva dimostra che i dipendenti non sono praticamente mai nella posizione di poter dare liberamente un consenso, rifiutarlo o ritirarlo, proprio per il rapporto di dipendenza che li lega al titolare del trattamento.

 

In vista di questa squilibrio di poterei, è accettabile il consenso espresso dai dipendenti a particolari trattamenti, solo in circostanze eccezionali, quando vi sia piena garanzia che nessuna conseguenza negativa, effettivo o potenziale, possa scaturire dal rilascio o rifiuto del consenso.

 

Adalberto Biasiotti

 

La sentenza n. 22148 del 31 gennaio 2017 (pdf)

La sentenza n. 22611 del 17 aprile 2012 (pdf)

 

 

 

 

 



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