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Quali sono i vantaggi dell’integrazione digitale nel mondo del lavoro?

Quali sono i vantaggi dell’integrazione digitale nel mondo del lavoro?
Tiziano Menduto

Autore: Tiziano Menduto

Categoria: Nuove tecnologie

22/03/2022

Qual è il futuro del lavoro agile? Quali errori si sono commessi? Qual è l’impatto della tecnologia e della digitalizzazione sul mondo del lavoro? Ne parliamo con Marco Carlomagno, segretario della FLP.

Brescia, 22 Mar – In questi ultimi anni abbiamo assistito, anche a causa delle sfide connesse alle emergenze pandemica e al tentativo di contenere gli effetti del virus SARS-CoV-2, ad una vera e propria accelerazione nella modernizzazione e digitalizzazione dei processi lavorativi.

 

E che il futuro sarà comunque, anche quando della pandemia rimarrà solo un cattivo ricordo, un futuro digitale, di connessioni, di formazione e lavoro a distanza lo mostrano anche le strategie dell’Unione Europea che, attraverso l'Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro ( EU-OSHA), avvierà nel 2023, una nuova campagna per un futuro digitale sicuro e sano, con particolare attenzione ai rischi psicosociali ed ergonomici emergenti.

 

Riguardo a questo futuro che ci aspetta è importante non solo rilevare le criticità o i rischi, ma anche i vantaggi e le occasioni di sicurezza che la tecnologia, se ben usata e amministrata, può garantire, a partire dai nuovi modelli organizzativi dettati dalla diffusione del lavoro agile, dello smart working.

A questo proposito ricordiamo che il nuovo decreto-legge recante le misure per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza, proroga la possibilità di ricorrere in regime semplificato allo smart working nel settore privato, senza l’accordo individuale datore/lavoratore, al 30 giugno 2022.

 

Per poter parlare delle opportunità che offre la nuova tecnologia e il lavoro agile, per comprendere come la digitalizzazione potrebbe essere applicata al mondo del lavoro, con particolare riferimento al comparto della funzione pubblica, abbiamo intervistato Marco Carlomagno, giornalista, segretario della FLP (Federazione Lavoratori Pubblici e Funzioni Pubbliche), docente e, specialmente, componente del Gruppo di monitoraggio della “Sperimentazione del lavoro agile” della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

 

 

A Marco Carlomagno, che nell’intervista parla di un’innovazione che “non servirà solo a rendere più competitivo il nostro Paese, ma anche a renderlo più sicuro” e della necessità di adottare modelli organizzativi moderniper far fronte alle richieste” che arrivano dalla società e dal mondo esterno, cerchiamo di chiedere quali, a suo parere, siano i vantaggi del lavoro agile e dell’uso delle nuove tecnologie. Anche perché, nella riorganizzazione lavorativa che avverrà dopo le emergenze pandemiche, c’è il rischio di un ritorno al passato, di fermare il salto in avanti del mondo produttivo verso il futuro digitale.

 

Qual è il futuro del lavoro agile? Quali errori si sono commessi o si stanno commettendo riguardo allo sviluppo del lavoro agile?

Qual è l’impatto della tecnologia e della digitalizzazione in materia di salute, sicurezza e formazione? Qual è stato e quale sarà l’impatto del lavoro a distanza nel comparto del pubblico impiego? Quale dovrebbe essere il rapporto del mondo del lavoro con la tecnologia e la digitalizzazione?

 

L’intervista si sofferma sui seguenti argomenti:


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Corso online di formazione sui rischi specifici per lavoratori che operano in attività di ufficio (o attività con rischi analoghi per la sicurezza e salute).

 

Il futuro del lavoro è agile: formidabili occasioni, aspetti positivi ed errori fatti

Lei si è occupato spesso di lavoro agile e la pandemia ha portato ad un enorme sviluppo di questa modalità lavorativa. Cosa pensa di questa forma di modernizzazione del mondo del lavoro? Quali sono gli aspetti positivi, anche dal punto di vista della produttività aziendale?

 

Marco Carlomagno: Il lavoro agile emergenziale, resosi necessario al fine di prevenire il contagio, ancorché più vicino al telelavoro che al lavoro agile previsto dalla Legge 81/2017, ha sicuramente permesso una accelerazione nel campo della modernizzazione dei processi e nella digitalizzazione di molti di essi.

 

Molte Amministrazioni, ma direi anche gran parte del tessuto produttivo del nostro Paese, in questi anni hanno dovuto fare i conti con la necessità di adottare nuovi modelli organizzativi, non solo per una scelta interna, quanto per far fronte alle richieste che provenivano dalla società e dal mondo esterno.

Bisogna dire che se ci sono state da una parte esperienze di innovazione e di capacità di organizzazione e di lavoro più adeguate ai bisogni del Paese, le imprese italiane e le Pubbliche Amministrazioni, che sono tante e diverse sia per complessità organizzativa che per compiti, nel loro complesso segnano ancora grandi difficoltà ad adeguarsi ai nuovi modelli organizzativi e alle modifiche richieste.

 

Ma questa è comunque una necessità ineludibile: il cambio di paradigma è sempre più necessario e la pandemia ha dimostrato, pur nella sua eccezionalità, come la produttività possa aumentare e i servizi possano essere erogati meglio e con maggiore tempestività e fruibilità, con modalità organizzative e tecnologiche diverse rispetto al passato.

 

L’implementazione del lavoro agile è stata una formidabile occasione, pur nei limiti derivanti da un’applicazione improvvisata e da sistemi organizzativi digitali non sempre al passo con i tempi, per dimostrare come i cambiamenti organizzativi, una nuova organizzazione del lavoro più orizzontale e meno gerarchico-piramidale, con la piena responsabilizzazione degli addetti ed il riconoscimento dell’autonomia, sono un valore aggiunto.

La sfida della modernizzazione necessita di ripensare l’assetto burocratico, basato sulla mera proceduralizzazione degli atti e sulla cultura dell’adempimento, privilegiando l’organizzazione per obiettivi e per risultati.

 

Qual è il futuro del lavoro agile? Tornerà ad essere una modalità di lavoro marginale o rimarrà una risorsa importante in ogni ambito lavorativo? Quali errori si sono commessi o si stanno commettendo riguardo allo sviluppo del lavoro agile?

 

M.C.: Il futuro del lavoro è agile, nella sua articolazione prevista dalla L. 81/2017 (organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro), ben differente dal telelavoro o lavoro da casa.

 

Non penso ovviamente che il lavoro agile sia l’unica modalità di svolgimento della prestazione lavorativa per tutte le realtà organizzative e produttive.

È evidente che alcune attività sono ancora tendenzialmente da svolgere in presenza, almeno con gli attuali livelli di digitalizzazione dei processi, o per specifiche lavorazioni.

Ma l’obiettivo a cui tendere è quello di implementare le dotazioni tecnologiche delle amministrazioni pubbliche e delle imprese e rivisitare le lavorazioni, in un’ottica integrata capace di produrre semplificazione amministrativa, velocizzazione delle decisioni e dell’emanazione degli atti, modernizzando tecnologicamente sempre più anche i settori produttivi e del terziario.

 

Penso a regime a modelli organizzativi che coniughino in modo armonico il lavoro agile con quello in presenza, che comunque è utile non solo per fornire servizi non diversamente erogabili, ma anche per permettere momenti di condivisione e di scambio professionale.

 

Quello che contesto è l’approccio pregiudiziale sull’efficienza e la produttività della prestazione lavorativa in modalità agile rispetto a quella in presenza, che costituisce oggettivamente un passo indietro nell’organizzazione del lavoro e dei servizi, oltre che incidere in modo pesante su tutti gli strumenti di conciliazione vita-lavoro.

 

Già nel 2018 una ricerca dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano ribadiva i vantaggi economico-sociali dei modelli di lavoro agile: incremento di produttività del lavoratore (+15%), riduzione del tasso di assenteismo (-20%), miglioramento dell’equilibrio fra lavoro e vita privata (+80%). Valori notevolmente migliorati negli ultimi due anni, come risulta dai report di tante università e istituti di ricerca pubblici e privati.

 

Ritengo inoltre assolutamente sbagliato continuare sulla materia a ipotizzare soluzioni centralistiche, calate dall’alto, uguali per tutti, prevedendo addirittura per legge il numero massimo di giornate autorizzabili in lavoro agile, o imponendo il principio della prevalenza del lavoro in presenza rispetto a quello agile per ogni singolo lavoratore, a prescindere dall’attività che svolge e dalle caratteristiche di quella prestazione lavorativa. In Italia l’eccesso di normazione, primaria o secondaria, non ha risparmiato neanche questo importante fattore di innovazione. Il combinato disposto di tale azione, unitamente alla resistenza di imprese (soprattutto PMI), e delle singole pubbliche amministrazioni a individuare in modo analitico le attività che si possono svolgere a distanza, comporta un oggettivo ostacolo al decollo stabile del lavoro agile nel nostro Paese.

 

La stipula dei nuovi Contratti di lavoro del pubblico impiego, insieme alle migliori esperienze contrattuali definite in questi mesi nel mondo delle aziende e del terziario, costituiscono invece, a mio modo di vedere, la strada da seguire, basata sulla massima flessibilità dello strumento, la piena responsabilizzazione degli attori interessati, la valorizzazione delle autonomie professionali e del senso di responsabilità degli addetti. 

 

La diffusione della digitalizzazione: i ritardi e la necessità di cambiare i processi

L’evoluzione tecnologica sta trasformando il mondo del lavoro. Qual è la sua opinione sulla diffusione della tecnologia e della digitalizzazione in materia di salute e sicurezza e in materia di formazione?

 

M.C.: Preliminarmente bisogna rilevare che siamo ancora in ritardo, molte zone sono ancora alle prese con infrastrutture tecnologiche arcaiche e il “digital divide” spezza in due, se non in tre aree, il nostro Paese.

Il gap infrastrutturale e anche tecnologico deve essere assolutamente colmato nei confronti anche dei nostri competitor internazionali. Basti considerare che l’Italia si posiziona al 25° posto della classifica stilata nell’ultima edizione del Desi ( Digital Economy and Society Index) – l’indice che misura il progresso degli Stati membri dell’UE verso un’economia e una società digitale.

Il PNRR che investe nella digitalizzazione ingenti risorse deve essere l’occasione per cambiare passo.

La digitalizzazione è un fattore non solo per aumentare la produttività, rendere servizi più efficienti e fruibili, ma è soprattutto un importante ausilio a rendere i nostri cicli produttivi più sicuri in un momento in cui le morti sul lavoro sono ancora una triste realtà e scontiamo ancora danni ambientali devastanti causati da decenni di produzioni industriali altamente inquinanti e nocive.

 

L’innovazione non servirà solo a rendere più competitivo il nostro Paese, ma anche a renderlo più sicuro. Il paradigma Industria 4.0 dovrà quindi garantire maggiore competitività, innovazione e diversificazione produttiva, ma anche sicurezza sui posti di lavoro e difesa dell’ambiente.

Per non parlare poi dei benefici e delle ricadute positive di quel pezzo di innovazione digitale che è il lavoro agile e a distanza sulla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sul traffico e le emissioni che asfissiano le nostre aree metropolitane, sui risparmi derivanti dai minori spostamenti per raggiungere fisicamente il posto di lavoro, tanto importanti in un momento in cui la crisi energetica sta portando alle stelle i costi della benzina, del gasolio e delle altre risorse energetiche.

 

È indubbio che la digitalizzazione e l’innovazione tecnologica necessita di un forte e strutturato piano di formazione con procedure diffuse e mirate che siano in grado di poter accompagnare in tutto il percorso lavorativo la crescita professionale e l’acquisizione di nuove competenze del personale. La formazione, invece che essere un mero adempimento formale, come troppo spesso avviene oggi, deve diventare uno dei principali “asset” delle politiche di sviluppo del personale e delle risorse umane; con adeguati finanziamenti, lo scambio di esperienze con il lavoro privato, pubblico e quello dell’Università e della ricerca, tali da creare un interscambio ormai ineludibile per avvicinare mondi separati ma assolutamente interconnessi.

 

Nella riorganizzazione lavorativa che avverrà a conclusione delle emergenze pandemiche non c’è il rischio di un ritorno al passato? Si continueranno a cogliere tutti i benefici offerti dalla società digitale e dalla tecnologia?

 

M.C.: La pandemia ci ha dato modo di realizzare che un cambiamento prima ritenuto impensabile è invece possibile. Le circostanze critiche che stiamo vivendo hanno valorizzato l’uso della tecnologia, anche in rapporto ad alcuni esiti negativi che meritano una riflessione accurata e consapevole.

In linea generale, tuttavia, è caduta l’ipervalutazione della presenza fisica come condizione necessaria al buon esito di un processo decisionale. Ancora una volta, le riunioni rappresentano un terreno d’indagine significativo. Pensiamo all’epoca pre-pandemica e alle sue riunioni di lavoro inutili, interminabili, per cui si muovevano persone da luoghi geograficamente distanti, con un enorme dispendio di risorse in termini di trasporti, tempo investito in spostamenti, consultazione di documenti cartacei difficili da trasportare, consultare, condividere.

 

L’unico modo per rendere strutturale il passaggio alle forme ibride e agili di lavoro, riunioni in testa, è cambiando i processi. Il micropotere manageriale non deve più essere contemplato: questo modello è diventato obsoleto. Alcuni manager hanno ammesso che nei paradigmi gerarchici tradizionali i vertici dirigenziali non avevano chiaro di cosa si occupassero i dipendenti e gli altri membri del team. Ecco perché così spesso indicazioni e decisioni risultavano carenti o inefficaci: l’attenzione era spostata sul controllo del singolo, e non sul risultato delle diverse mansioni e dell’efficacia generale del processo. Rendere il cambiamento strutturale significa passare dall’ottica dell’adempimento a quella degli obiettivi. Il lavoro agile nella sua veste matura richiede formazione, sia nell’utilizzo delle tecnologie sia nel cambiamento di paradigmi culturali, attestati ma non più funzionali.

L’epoca del “si è sempre fatto così” è finita: l’introduzione di nuove tecnologie specificamente dedicate al lavoro agile deve entrare in sinergia con processi orizzontali di governance e di gestione dei team di lavoro. Per questo è necessario affidarsi a professionisti specializzati nella cultura dell’engagement. Servono competenze di project management e di team work. Occorre investire nei giovani, valorizzandone la preparazione e le competenze.

In questo, ci sostiene l'esempio di aziende e amministrazioni pubbliche internazionali forti, con una potente capacità reputazionale. 

 

Le nuove tecnologie nel pubblico impiego: l’impatto, le resistenze e i vantaggi

Qual è l’impatto della diffusione del lavoro a distanza e delle nuove tecnologie nel comparto del pubblico impiego?

 

M.C.: Nel pubblico impiego il lavoro agile è stato adottato soprattutto per fronteggiare la pandemia; in una situazione di assoluta arretratezza previgente su tale istituto, è stato di fatto un lavoro da remoto, svolto in gran parte con le dotazioni delle lavoratrici e dei lavoratori e con modelli organizzativi e lavorativi che nulla hanno a che vedere con le forme di lavoro agile come dovrebbero essere intese a regime.

Numerose sono state comunque le esperienze positive, non solo nella capacità di erogare servizi e prestazioni a cittadini e imprese, quanto anche a limitare l’estendersi della pandemia e a produrre notevoli vantaggi nel campo della conciliazione vita -lavoro.

Pensiamo alle esperienze dell’Agenzia delle Entrate e dello stesso INPS che seppure dopo una fase iniziale di forte difficoltà dovuta all’enorme aggravio aggiuntivo di attività e di servizi da rendere in remoto nei diversi settori relativi alla cassa integrazione in deroga e ai cosiddetti ristori, comunque ha gestito ed evaso milioni di richieste, pur a fronte di procedimenti nuovi che prevedevano il concorso di più Enti (vedi Regioni).

 

In generale, come dimostrano i dati rilevabili dal monitoraggio effettuato dal Ministero per la Pubblica Amministrazione a fine 2020, soprattutto nelle Amministrazioni centrali il lavoro da remoto ha interessato percentuali di personale che complessivamente sfiorano il 70 per cento degli addetti, senza che questo abbia comportato un blocco delle attività e neanche un loro rallentamento.

 

La resistenza più forte verso questo processo che, partendo dall’emergenza sanitaria, ha permesso di poter sperimentare la possibilità di una reale modifica organizzativa e tecnologica delle nostre Amministrazioni è venuta dai settori più arretrati tecnologicamente, che in questi anni non hanno investito in tale direzione, come l’amministrazione della giustizia, sia civile che penale, sia amministrativa che tributaria.

Non a caso le inefficienze del nostro sistema giudiziario trovano la loro radice non solo negli interessi corporativi di alcune parti degli operatori del settore, che hanno costruito rendite di posizione sui ritardi e le inefficienze del sistema, ma anche nella mancata predisposizione di tutti quegli strumenti che pure potevano permettere la digitalizzazione di molti processi lavorativi.

 

Si è fatto comunque molto per modernizzare le PA e, tuttavia, si sarebbe potuto fare di più se non ci fossimo trovati di fronte al brusco dietro front di questi mesi, con il rientro in presenza di tutti i lavoratori pubblici, voluto dall’attuale Ministro per la Pubblica Amministrazione che da sempre si oppone al lavoro agile. Ora tutti i detrattori del lavoro agile, la burocrazia feudale che vuole che nulla cambi, sicuramente avranno una ragione in più per ostacolare e opporsi al cambiamento, frenando su tutte le innovazioni che erano state progettate e in molti casi già attuate nella direzione della digitalizzazione.

Il rischio che le sue azioni rallenteranno nel nostro Paese i processi di modernizzazione e di innovazione purtroppo esiste, perché nel nostro Paese i pregiudizi nei confronti del lavoro pubblico sono ancora radicati e vi è un problema evidente di “vision” della classe dirigente.

Non si può contemporaneamente mettere in campo un piano di digitalizzazione del Paese e allo stesso tempo avallare azioni in netta controtendenza che non tengono conto degli impatti che le politiche di diffusione del lavoro agile hanno sul territorio: impatti in termini di maggiore sostenibilità ambientale, maggiore produttività, maggiore equità e sostenibilità sociale e maggiore sostenibilità istituzionale che sono poi tra quelli promossi nell’ambito dell’Agenda 2030.

 

La digitalizzazione: le opportunità e la necessita di un cambio di paradigma

Nel 2023 la “digitalizzazione” sarà il tema centrale della campagna europea per favorire ambienti di lavoro sani e sicuri. Cosa deve ancora essere realizzato per una rivoluzione digitale? Quale dovrebbe essere il rapporto del mondo del lavoro con la tecnologia e la digitalizzazione?

 

M.C.: Una vera rivoluzione digitale passa per gli interventi infrastrutturali quali quelli della banda larga su tutto il territorio nazionale, le dotazioni informatiche delle Amministrazioni in termini di numero e di qualità, la digitalizzazione dei processi in gran parte ancora cartacei, la creazione e l’interoperabilità delle banche dati.

A questo si deve accompagnare un processo di modifica organizzativa che adegui gli assetti alle nuove tecnologie e alle nuove forme di lavoro.

 

Bisogna accorciare i livelli di responsabilità, diminuire l’eccessiva gerarchizzazione delle strutture, che in questi anni è servita solo a permettere il proliferare di ben remunerate posizioni di vertice aumentando i livelli di burocrazia e la deresponsabilizzazione degli addetti.

Bisogna privilegiare un’organizzazione più orizzontale e meno verticale, in cui aumentino i livelli di responsabilità, il lavoro per team. In cui si premino le innovazioni, le proposte, si valorizzino i tanti talenti presenti.

 

Valorizzare la dirigenza, aumentandone i profili di managerialità e di capacità di gestire processi e dinamiche organizzative, e il lavoro pubblico, mediante un sistema di valutazione basato sui risultati e non sugli adempimenti o sulla mera presenza, riconoscendo il diritto alla carriera, a mettersi in gioco e a migliorare il proprio ruolo nell’organizzazione. Valori oggi del tutto disconosciuti dalla sconsiderata politica di questi decenni basata sulla denigrazione del lavoro pubblico, sul blocco dei salari, delle carriere, dei riconoscimenti professionali.

È necessario anche ridisegnare la mappa dei processi lavorativi e le professionalità necessarie, prevedendo un massiccio inserimento mirato di nuova forza lavoro con la riconversione e la riqualificazione di quella oggi presente, mediante processi di formazione diffusa e permanente.

 

Elemento essenziale, inoltre, per raggiungere una completa integrazione digitale risulta l’adozione di un cambio di paradigma che consenta il superamento dei timori e delle inerzie della direzione aziendale in merito allo sviluppo di organizzazioni digital e green.

 

Lo studio “La nuova era del lavoro da remoto: tendenze della forza lavoro distribuita” condotto da Vanson Bourne, evidenzia come l’adozione del lavoro da remoto non abbia avuto impatti negativi sulla produttività e sui rapporti tra i componenti dei team di lavoro. Il 67% degli intervistati rileva un incremento, o una invarianza, del tasso di produttività; mentre il 76% afferma che i rapporti interpersonali sono migliorati, quantomeno con alcuni dei colleghi ed il 14% sostiene un miglioramento dei rapporti con la totalità dei colleghi.

 

La stessa analisi riporta inoltre come l’adozione del lavoro da remoto stia gradualmente livellando la concorrenza tra imprese, consentendo ad organizzazioni e settori in precedenza svantaggiati di ridurre il distacco e trovare nuove opportunità per innovare e aprirsi ad una maggiore partecipazione. Il 77% degli intervistati afferma infatti che le proprie capacità di lavoro da remoto sono state sottoutilizzate e le organizzazioni aziendali più piccole, che hanno effettuato un passaggio al lavoro da remoto, confermano che le proprie doti di adattabilità consentano di competere maggiormente con le imprese più grandi.

 

L’integrazione digitale fornisce quindi maggiori opportunità di sviluppare servizi e business.

E, come risulta ormai dai principali istituti di ricerca, la possibilità di lavorare da remoto rappresenta per una buona parte degli intervistati, un prerequisito (e non più un benefit) fondamentale per le prossime esperienze lavorative. Questo dato dovrebbe sensibilizzare nuovamente le organizzazioni aziendali ad una modifica dell’obsoleto paradigma lavorativo ancora vigente, affinché, tramite lo sviluppo di modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative da remoto, vi siano maggiori opportunità di attrarre i migliori talenti.

Senza dubbio, sarà necessario non perdere l’occasione di valorizzare le esperienze maturate in questi due anni di crisi epidemiologica, al fine di produrre un cambiamento del paradigma lavorativo, da fondarsi su nuovi e differenti modelli organizzativi e culturali, che consentano di predisporre un lavoro secondo obiettivi comuni e di accrescere sempre più i legami di fiducia e responsabilità tra aziende, amministrazioni pubbliche e lavoratori.  

 

 

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

 

Scarica la normativa di riferimento:

 

Legge 22 maggio 2017, n. 81 - Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato.

 



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