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Semplificazione in materia di sicurezza: come procedere?

Semplificazione in materia di sicurezza: come procedere?

Autore: Alessandro Mazzeranghi

Categoria: Normativa

20/11/2014

Con riferimento alle deleghe del Jobs Act in materia di sicurezza, alcune riflessioni su come dovrebbe essere una legge sulla sicurezza e sulla salute sul lavoro. I principi generali. Cosa e come semplificare? A cura di Alessandro Mazzeranghi.

 
Viareggio, 20 Nov – Su queste pagine alcuni giorni orsono si osservava (giustamente) come si voglia attribuire al governo una delega in materia di sicurezza e salute sul lavoro che è praticamente una delega del tutto in bianco, senza né indirizzi né vincoli.
Francamente mi pare un atteggiamento eccessivo, o forse semplicemente incosciente, o, ancora, dettato da una combinazione di fretta e incompetenza. Comunque sono preoccupato: se il tutto si riducesse in un nulla di fatto sarebbe un grosso danno per tutti, se si dovesse operare con superficialità si rischierebbe una riduzione delle tutele concrete; è importante che prima dei dettagli si ragioni su quella che dovrebbe essere la strategia.
 
La situazione
Come noto i dettati di legge sono obblighi non negoziabili. Detto questo, se prendiamo il D.Lgs. 81/2008, con i suoi allegati in gran parte prescrittivi, ci troviamo di fronte a un corpus estremamente complesso, sia sotto il profilo tecnico che sotto quello delle sanzioni che possono conseguire qualora venga rilevata l’inosservanza di una prescrizione. Da specialista della materia assicuro che in molti casi non è facile navigare nel decreto, sebbene si debba riconoscere che lo sforzo di unificazione ha dato consistenti benefici in termini di chiarezza e fruibilità delle prescrizioni.
 
Ma questa Europa della burocrazia tende davvero ad esagerare con lacci e lacciuoli che rendono davvero difficile l’operare delle aziende continentali, già per loro conto incamminate verso una lenta agonia o un sostanzioso ridimensionamento. Il fatto che poi noi italiani, nei vari recepimenti delle direttive (sociali) comunitarie, siamo capaci di inserire ulteriori complicazioni e pene talvolta spropositate, ebbene questo è solo un ulteriore problema.
 
Le aziende che vogliono sopravvivere all’interno del territorio della Unione Europea devono ridurre i costi, cioè semplificare i processi di conduzione aziendale, ridurre le persone impiegate, eliminare gli impianti obsoleti ecc. Evidentemente un eccesso di prescrizioni e di adempimenti spinge in direzione opposta e non fa che alimentare il processo di deindustrializzazione. Senza che nessun cittadino europeo abbia scelto la deindustrializzazione nell’ambito di una legittima elezione politica, o tramite strumenti equivalenti.
 
Sia la Unione che i singoli stati dovrebbero quindi riesaminare il mandato che i cittadini hanno dato alla politica per capire se questa infinita crescita della burocrazia risponde davvero al desiderio degli elettori!
In Italia finalmente qualcuno ha capito in quale ginepraio siano finite le aziende, per colpe derivanti dalla conduzione della cosa pubblica: ora la politica si propone di rimediare. Ma sarà così semplice?
 


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Una legge sulla sicurezza e sulla salute sul lavoro: i requisiti in un mondo ideale
È premessa obbligatoria e universalmente condivisa, che una tale legge debba garantire un maggior livello di tutela per i lavoratori, rispetto a quello di cui godono i normali cittadini nell’espletamento di attività non lavorative. Questo partendo dal presupposto che il lavoro non è un piacere ma una necessità, e che quindi è giusto che chi è sul posto di lavoro quanto meno non subisca danni al fisico (e non solo).
 
Si devono quindi applicare dei principi di prevenzione (quelli che il D.Lgs. 81/2008 definisce “principi generali di prevenzione”), che permettano di raggiungere tale obiettivo secondo un itinerario logico semplice e razionale. E ovviamente, essendo l’azienda, come entità, quella che deve garantire la maggior tutela dei propri lavoratori, proprio perché è l’azienda stessa che trae beneficio dal lavoro degli stessi, l’azienda dovrà darsi una organizzazione funzionale a tale obiettivo. Organizzazione giustamente delineata dal medesimo decreto che definisce i ruoli e le responsabilità delle varie figure della organizzazione aziendale, dal datore di lavoro, al medico competente, al preposto, al singolo lavoratore, e anche ai vari soggetti che svolgono comunque funzioni di garanzia a favore della sicurezza e della salute dei colleghi. Infine il decreto parla anche di strumenti, evidenziando la assoluta centralità della valutazione dei rischi quale punto di partenza di ogni attività di miglioramento delle condizioni di sicurezza e salute sul luogo di lavoro.
 
Questo insieme è (quasi, detto solo per prudenza) perfetto! Costituito da tre elementi (che voglio ripetere) che si integrano perfettamente in un quadro evolutivo bilanciato:
- Principi generali
- Organizzazione aziendale per sicurezza e salute
- Strumento operativo da applicare sempre (la valutazione dei rischi, che giusto per chiarezza deve essere intesa come valutazione di tutti i rischi, di quelli normati ma anche di quelli non normati).
Quindi perché parlare di semplificazione? Perché da qui in poi arrivano le difficoltà.
 
Quello che non funziona
Se fossimo capaci di misurare e definire un valore di sicurezza obiettivo per le aziende, insomma il valore di sicurezza minimo che deve essere assolutamente raggiunto da tutti, avremmo praticamente finito di scrivere la nostra legge ideale in materia di sicurezza e salute sul luogo di lavoro, e spetterebbe poi alle aziende operare secondo legge, raggiungendo come minimo il livello indicato, e dimostrandolo attraverso il proprio lavoro interno di analisi (che poi sarebbe ancora la valutazione dei rischi, che altro?).
 
Ma non ci siamo riusciti, e diciamo la verità, a livello legislativo nessuno ci ha davvero provato. Non che sia facile, ci mancherebbe, non vorrei mai dare l’impressione di affermare questo! Capisco la enorme difficoltà di ragionare in questo modo, che spiega la scelta fatta dal legislatore (europeo e nazionale) ma non la giustifica!
 
La scelta è presto detta: non riuscendo ad esprimere principi generali, il legislatore ha scelto di istituire regole per una miriade di casi specifici. E badate che le regole non sono state dette una volta per tutte nel 2008! Le regole crescono, si integrano, si modificano nel corso degli anni, in un contesto di burocratiche ottime intenzioni che però sono assolutamente avulse dalla concreta realtà industriale. Ovviamente è un approccio che, in primis, produce quasi per partenogenesi una infinità di regole che risucchiano, ognuna che sia applicabile, energie alle aziende che sono costrette a verificare di essere in linea, e che in secundis talvolta genera regole (legislative, quindi obbligatorie) di fatto inapplicabili. Per fare le regole per l’industria (che è il settore che più sente il peso concreto e paralizzante della legislazione di cui stiamo parlando), bisogna conoscere l’industria. Certo le regole non le possono fare (solo) gli industriali, che avrebbero un bel conflitto di interessi, ma le devono proporre (quanto meno) persone che sanno come gira una azienda industriale, altrimenti ogni intervento è un danno.
 
Cosa e come semplificare?
Credo che il primo punto potrebbe essere una sana riscrittura del titolo I, che già comprende tutti i punti importanti, per dare ancora più enfasi a come debbano essere organizzate le aziende in materia di sicurezza e salute. In particolare si potrebbero evidenziare e “sponsorizzare” i seguenti aspetti:
- la centralità di una organizzazione chiara e definita che distribuisca all’interno della azienda tutti i compiti (e le responsabilità) necessari per gestire correttamente e completamente gli aspetti di garanzia della sicurezza e della salute,
- la necessità di applicare realmente i principi del miglioramento continuo degli aspetti concreti di prevenzione, e della programmazione e gestione ordinata del miglioramento stesso,
- l’importanza del documento di valutazione dei rischi non come un qualcosa di obbligatorio da mostrare all’ispettore dell’ASL o al magistrato, ma come principale strumento di lavoro, sia per innescare il miglioramento della sicurezza, che per mostrare concretamente quale è l’impegno della azienda su tale materia.
 
Agli aspetti chiave definiti dal titolo I, che non sono collegati ad uno specifico rischio ma a tutti i rischi, si potrebbero associare le sanzioni; infatti ad avviso di chi scrive più che sanzionare sulla base della specifica gravità di un determinato rischio per il quale l’azienda non adotti sufficienti contromisure, sarebbe da sanzionare il cattivo funzionamento della organizzazione aziendale che ha portato ad omettere tali contromisure. Si perderebbe quindi il legame con una famiglia di rischio specifica, ovvero con quelle famiglie che vengono regolamentate nel dettaglio ai titoli e capi che troviamo dal titolo II in poi.
 
Ebbene, detto questo, e gli altri titoli? Gli altri titoli sono una possibile fotografia dello stato dell’arte, ma non certo l’unica. Quindi è ovvio che i contenuti tecnici del D.Lgs. 81/2008 non devono assolutamente andare persi, ma io ritengo che debbano per la gran parte essere gestiti come suggerimenti, e solo in pochi casi come prescrizioni. Istituendo piuttosto anche in questo contesto legislativo una sorta di principio di presunzione di conformità, simile a quello che troviamo nelle direttive di prodotto.
 
E gli adempimenti burocratici? Io credo che vadano per la gran parte eliminati, eventualmente rafforzando il concetto che molte registrazioni aziendali dovranno essere assoggettate a data certa (perché oggi si applica la data certa solo alle deleghe di funzione e alla valutazione dei rischi?), così da avere una tracciabilità “dimostrabile” della storia aziendale in materia di sicurezza e salute.
 
Come garantire la applicazione della legge?
Gli strumenti esistono già: non sono certo le prescrizioni e le sanzioni pecuniarie ad esse accessorie che possono indurre una azienda a cambiare atteggiamento in materia di sicurezza e salute, quindi ometto di ragionarne in questa sede.
 
Quindi, dicevo, esistono due fronti di pene per l’azienda e per le persone, rispettivamente, che sicuramente elevano il livello di attenzione delle aziende; si tratta, ovviamente, delle conseguenze che si possono verificare a carico della azienda (vedi D.Lgs. 231/2001 per i reati di cui all’articolo 25 septies) e delle persone (vedi codice di procedura penale, articoli 598 e 590) in caso di infortuni e/o malattie professionali. E queste pene (tutt’altro che trascurabili) dovrebbero spingere le aziende e le persone responsabili ad adottare tutte le misure di protezione o controllo dei rischi ragionevolmente possibili e utili ad abbassare la soglia di rischi ad un livello che si conviene essere accettabile. Unica pecca, si tratta di pene che si applicano dopo il fatto dannoso, quindi si potrebbe dire che non hanno forza preventiva (non sono d’accordo) e forza educativa (che assolutamente manca).
 
Esiste però un altro istituto, assai poco usato, che avrebbe assai maggiore peso di qualunque prescrizione: ilsequestro cautelativo di ciò che è pericoloso, sino a che non si applicano misure che eliminino il pericolo o riducano il rischio a un livello accettabile. Certo una misura che applicata con omogeneità sul territorio nazionale, e secondo regole ben chiare a tutti, avrebbe un grande effetto “educativo” sulle aziende che hanno deciso di non intraprendere un serio cammino a garanzia della sicurezza e della salute dei lavoratori.
 
Come credo si evinca da quanto detto, mi pare decisamente inutile che ad ogni minuscola indicazione tecnica presente nella legge venga associato un obbligo inderogabile, e ad esso una pena specifica. Le aziende non devono essere trattate come cani da addestrare, secondo i ben noti concetti Pavoloviani del comportamentismo! I tempi della contrapposizione pregiudiziale fra capitale e forza lavoro sono passati da un pezzo, se oggi in azienda non c’è chiarezza di obiettivi comuni e collaborazione, beh, allora la strada della chiusura è imboccata, ineluttabilmente imboccata! E della collaborazione un elemento fondante (la base di tutto) è la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori da parte della azienda; chi di noi collaborerebbe (veramente) con un soggetto che se ne frega della nostra sicurezza e della nostra salute?
 
È un sogno?
Mi viene spontanea questa domanda: il mio, il nostro, quello di tanti che la pensano come me, è forse un sogno?
 
Io rispondo che no, non è un sogno, questo è il futuro; siamo oggi abbastanza maturi, tutti, imprenditori, lavoratori, manager, consulenti, medici del lavoro ecc., per affrontare concretamente una sfida del genere? Non credo, ma da qualche parte dobbiamo partire, e dobbiamo partire subito perché la congiuntura internazionale non ci permette di aspettare.
Se la semplificazione sarà questa, o qualcosa di simile, ci aspettano sfide impegnative, dovremo fare un salto culturale, ma potremo sopravvivere come paese industriale. Se non faremo nulla, o se le correzioni saranno solo di facciata, rassegnamoci alla progressiva deindustrializzazione del nostro paese.
 
Un auspicio
Grandi nomi dovranno dare l’impostazione di fondo a questo sforzo di semplificazione, dettandone la filosofia e i principi fondanti: dalla politica, in primis il premier Matteo Renzi, alle associazioni imprenditoriali come Confindustria, prima di tutto tramite il presidente Giorgio Squinzi, alle forze sindacali in rappresentanza dei lavoratori, a chi effettua il controllo sulla applicazione della legge nelle aziende.
 
Ma fatto questo sarebbe importante che a sviluppare la semplificazione siano soggetti non solo competenti tecnicamente, ma anche ben a conoscenza delle dinamiche interne alle aziende. Altrimenti tutte le buone intenzioni potrebbero confluire in interventi di modifica dell’attuale legislazione, apparentemente perfetti ma avulsi dalla realtà.
 
Il paese ha davanti una grande opportunità e una dura sfida intellettuale: non possiamo che auspicare tutti che alla fine si ottenga un grande risultato, sia sotto il profilo dell’aumentata efficienza aziendale, sia sotto quello della concreta tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori.
 
 
Alessandro Mazzeranghi
 



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Rispondi Autore: Massimo Tedone - likes: 0
20/11/2014 (09:40:40)
No, Dott. Mazzeranghi, non è un sogno, ma la realtà dice esattamente una cosa diversa. Il problema principale è che il legislatore definendo i ruoli - Titolo I - è rimasto molto vago portando avanti la convinzione (tutta italica) che è sufficiente adottare il classico scarica-barile per risolvere i propri problemi e le proprie responsabilità. Questa mia affermazione è che il T.U. sarebbe dovuto essere un "misto" tecnico-normativo che puntasse, innanzittutto all'apprendimento della vera cultura per la sicurezza. A mio modestissimo parere ad esempio, l'RSPP non è un burocrate a supporto del D.L. ma deve essere soprattutto un "tecnico" capace di studiare e capire le varie attività che vengono svolte in un'azienda, non è sufficiente la conoscenza di base dell'ambiente di lavoro e dei processi produttivi oltre alle principali tematiche sulla safety. Questo ragionamento doveva essere valido per tutti i componenti di un'azienda anche se in diverso e specifico modo. Sembra quasi che il legislatore si preoccupi unicamente degli obblighi sanzionabili piuttosto che di quello che potrebbe succedere. Faccio un esempio, il ripetere più volte e dare ampio risalto al tesserino di riconoscimento (artt. 18-20 e 26) come fosse un principio basilare è sbagliato oltrechè inutile e non garantisce la sicurezza così intesa. Secondo il mio modestissimo parere, si sarebbe dovuto specificare che il tesserino è utile per due motivi:
1 - security, ovvero sapere chi entra in azienda e a quale titolo (guardianaggio)
2 - safety, ovvero sapere esattamente chi è presente qualora ci fosse una emergenza (incendio, crollo, ecc.)
... e invece no, il tesserino è inteso dai più come uno dei principali presupposti a garanzia del "lavoro sicuro". mah!
Se posso, concludo stendendo un velo pietosissimo sulla vicenda Eternit. Non sapevo che una strage potesse andare in prescrizione; allora sporge spontanea una domanda: Perchè ricercato, arrestano o uccidono terroristi, mafiosi, e chi più ne ha più ne metta?
Rispondi Autore: pietro ferrari - likes: 0
20/11/2014 (10:24:06)
E' senz'altro apprezzabile lo sforzo ragionativo dell'autore circa la necessità di una semplificazione che muova da uno sguardo strategico, risolvendosi in un "itinerario logico, semplice e razionale". E condivisibili sono le preoccupazioni espresse.
Quello che non (mi) convince è il voler stabilire una connessione stretta tra l'eventuale fallimento del tentativo di semplificazione (nella materia di SSL) con kla progressiva "deindustrializzazione del nostro paese".
..purtroppo, ben più complesse sono le ragioni e le responsabilità di quella deriva.
cordialmente, ferrari
Rispondi Autore: Filippo Pataoner - likes: 0
20/11/2014 (18:21:55)
"Certo le regole non le possono fare (solo) gli industriali, che avrebbero un bel conflitto di interessi, ma le devono proporre (quanto meno) persone che sanno come gira una azienda industriale, altrimenti ogni intervento è un danno".

Abbiamo politici (ogni riferimento è puramente casuale) che hanno lavorato 6 mesi nella loro vita. Quindi direi che il problema è a monte!

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