Italia: un sistema prevenzionale da “manutenzione a guasto”?
L’Italia, per quanto riguarda le regole in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro (e non solo), è sicuramente un Paese particolare.
Il nostro sistema prevenzionale è un sistema da manutenzione a guasto perché solo dopo che succede qualcosa di grave, si corre ai ripari.
Sia il D. Lgs. n° 81/2008 (pubblicato dopo i tragici fatti di Torino nel dicembre 2007) che lo stesso D.P.R. n°177/2011 (pubblicato dopo i tragici fatti di Molfetta, Cagliari, Mineo, Capua, ecc.), sono la prova che in Italia si legifera soprattutto sotto spinte emozionali ed emergenziali; quindi, non ci sarà da sorprendersi se, il prossimo intervento riguarderà, dopo i 10 morti di Modugno (BA), le fabbriche di fuochi artificiali.
Comunque, possiamo dire che siamo un Paese che, essenzialmente, legifera solo sotto due tipologie di spinte:
- quelle che arrivano dalla UE sotto forma di regolamenti, direttive europee da recepire, ecc.;
- quelle emozionali-emergenziali, all’accadere di gravi eventi.
Nei casi in cui si legifera sotto spinte emozionali – emergenziali il legislatore italiano dà, da anni, il meglio di sé.
Infatti, quando avvengono tragici eventi in cui perdono la vita anche più lavoratori, l’attenzione a tali avvenimenti, da parte dei mass media, cresce in modo esponenziale con il conseguente impatto sulla pubblica opinione.
I politici che, in genere, sanno poco o nulla di sicurezza sul lavoro ma sono, invece, molto attenti a cosa pensa la pubblica opinione, tendono a sfruttare la situazione, ai fini del mantenimento o incremento del consenso popolare.
Ecco, quindi, che dopo uno di questi tragici eventi si assiste alla solita sequela di dichiarazioni del tipo:
- <<Questi tragici fatti non devono più avvenire!>>
- << Siamo un Paese leader in Europa e quindi non è accettabile che in Italia avvengano episodi del genere!>>
- << Ci vogliono maggiori controlli!>>
- << Ci vogliono nuove leggi perché quelle che abbiano non sono adeguate!>>.
La presunta inadeguatezza delle leggi esistenti, essendo la scelta più facile, porta sempre i politici a spingere verso l’emanazione di nuove leggi proponendole come la soluzione ai problemi esistenti.
A questo punto la palla passa sul campo degli organi tecnici istituzionali attivati dai politici ai fini della ricerca della soluzione.
E qui cominciano i problemi veri.
Quando si legifera sotto spinte emozionali ed emergenziali, la conseguenza è che il prodotto non è mai granché per almeno un paio di motivi:
- si è costretti a lavorare di fretta, dopo i fatti gravi avvenuti, sotto la pressione politica, per dare una risposta all’opinione pubblica;
- non c’è l’abitudine di coinvolgere, al tavolo dove si scrivono le norme, anche gli attori che già operano nel settore che si vuole normare e che , quindi, hanno conoscenza approfondita dal di dentro delle dinamiche organizzative, produttive e relazionali specifiche.
E quando si parla di attori che operano sul campo, non ci si riferisce ai politici della rappresentanza inviati ai tavoli di discussione da associazioni datoriali, sindacali, professionali, ecc., ma si parla di soggetti indipendenti in possesso di provate competenze specifiche, selezionati in modo trasparente nel mondo del lavoro.
Invece capita, molto più spesso di quanto si possa pensare, che gli organi tecnici delegati a scrivere le nuove regole, raramente abbiano tra le loro fila soggetti in possesso di una conoscenza approfondita della specifica tematica da normare o ri-normare.
Guardando quello che è successo in un recente passato, sembra quasi che questi organi tecnici pensino di essere considerati gli unici detentori del sapere sullo specifico argomento visto che i politici hanno loro conferito l’incarico di normare. Sotto, sotto, però, sono anche consci di non conoscere adeguatamente la specifica tematica e che, pertanto, essendo loro gli esperti, ciò significhi che in Italia nessuno conosca l’argomento e che nessuno, prima di loro, si sia posto il problema per trovare una soluzione.
Il problema, però, è che non conoscendo approfonditamente la tematica, si ritrovano, più o meno consciamente, a scrivere nuove regole che, in concreto, non sono altro che nuovi adempimenti formali, spesso non chiari e mal scritti e quindi aperti alle varie interpretazioni, con la conseguenza più che ovvia di produrre solo un aumento del carico burocratico senza alcuna concreta ricaduta sul livello di sicurezza e tutela della salute e fornendo così l’ennesimo alibi per continuare a non far nulla a coloro che nulla hanno mai fatto per la tutela della salute della sicurezza sul lavoro.
Poi, come diceva un notissimo politico, da qualche anno non più fra noi, <<a pensar male si fa peccato ma certe volte ci si azzecca>>; infatti, si potrebbe anche pensare che la vaghezza dei contenuti delle nuove regole sia stata creata ad arte per non far capire che, coloro che le hanno scritte, sotto sotto, non conoscevano adeguatamente la tematica sui cui sono intervenuti.
Comunque, il prodotto confezionato va avanti, si fanno le modifiche, limature, ecc., viene approvato e diventa norma.
Però, ciò che scaturisce da questa prassi legislativa, è un prodotto frutto di una visione particolare quasi sempre incompleta che, non abbracciando il problema nella sua complessità, presenta soluzioni di difficile applicabilità, non condivise dagli attori che saranno chiamati ad applicarle sul campo, spesso controverse e, quindi, aperte alle più variegate interpretazioni.
A questo punto, chi opera sul campo, visto il clamore ed il livello di attenzione suscitato dalla nuova norma, sapientemente mantenuto alto da chi ne ha fatto uno specifico business nel settore, tende a prediligere le interpretazioni più integral-talebane, aumentando la burocratizzazione delle regole, credendo così di preservarsi da eventuali azioni giudiziarie in caso di visite ispettive o, peggio, in caso di gravi eventi infortunistici.
Del resto, più che domandarci quanta gente muore per la non sicurezza, dovremmo domandarci anche quanta gente ci campa e tra questa ci potremmo sicuramente mettere i tanti profeti dell’integralismo repressivo che pensano ancora oggi che aumentando le pene si crei un effetto deterrente in grado di arginare e ridurre il fenomeno.
Infatti, va ricordato che le norme di legge ed i controlli servono solo a rafforzare le responsabilità attraverso le sanzioni ma, proprio per questo, non possono fornire, da sole, sufficienti motivazioni al cambiamento di atteggiamenti verso il problema sicurezza sul lavoro. E’ palese che basti che la fonte del condizionamento (pressioni della pubblica opinione, azione degli enti di vigilanza, della magistratura, ecc.) diminuisca, per qualunque ragione, la propria intensità per ritornare al punto di partenza.
Oggi chi opera sul campo, si trova a dover far fronte a regole confuse che si prestano alle più variegate interpretazioni.
Si pensi, ad esempio, a:
- l’unicità o meno del RSPP nelle aziende industriali con più stabilimenti o unità produttive;
- l’obbligo di redazione o meno del Piano Operativo di Sicurezza per le imprese affidatarie non esecutrici;
- l’obbligo di aggiornamento dei RSPP e ASPP che per esercitare la funzione <<dovranno, in ogni istante, poter dimostrare che nel quinquennio antecedente hanno partecipato a corsi di formazione per un numero di ore non inferiore a quello previsto>>, come indicato al p. 10 dell’Accordo Stato Regioni del luglio 2016 riguardante la Durata e i contenuti minimi dei percorsi formativi per Responsabili e addetti dei servizi di prevenzione e protezione;
- l’obbligo o meno di apposizione di data certa sul Piano Operativo di Sicurezza (POS);
- ecc., ecc..
Sulla questione della data certa sul POS, è opportuno fare una riflessione visto che a scrive sono recentemente giunte notizie riguardo sanzioni emesse a carico del CSE per la violazione dell’art. 92 comma 1, lett b) del D. Lgs. n° 81/2008 (mancata verifica dell’idoneità del POS), in quanto il POS dell’impresa esecutrice era stato giudicato idoneo anche se privo di data certa.
Francamente, sarebbe bastato che i normotecnoburosauri irreprensibili censori di questa atroce malefatta del CSE, avessero dato un’occhiata al D. Lgs. n° 81/2008 ed in particolare al principio di specialità (art. 298) ed all’art. 89 comma 1, lett. h) per comprendere che le previsioni dell’art. 28 comma 2 non possono, per analogia, essere trasferite tout court al caso del POS.
Di certo, il legislatore non ha brillato per chiarezza ma non bisogna essere dei docenti universitari di diritto penale o di procedura penale per comprendere che il documento di valutazione dei rischi è un elaborato il cui obbligo è sancito per tutte le imprese mentre il POS è il documento programmatico che il datore di lavoro dell’impresa esecutrice, già estensore del proprio DVR riguardante tutte le attività d’impresa,<<redige in riferimento al singolo cantiere interessato, ai sensi dell’art. 17 comma 1, lett. a), i cui contenuti sono riportati nell’Allegato XV>>.
Il riferimento all’art. 17 comma 1, lett. a) non va inteso come la richiesta dell’applicazione delle medesime regole previste dall’art. 28 anche al POS ma semplicemente come la contestualizzazione dell’analisi e valutazione dei rischi propri e dell’applicazione delle misure di prevenzione e protezione nello specifico cantiere anche sulla base delle previsioni del Piano di Sicurezza e Coordinamento.
Del resto, va ricordato che l’art. 101 comma 3 del D. Lgs. n° 81/2008 prevede espressamente che <<Prima dell’inizio dei lavori ciascuna impresa esecutrice trasmette il proprio piano operativo di sicurezza all’impresa affidataria, la quale, previa verifica della congruenza rispetto al proprio, lo trasmette al coordinatore per l’esecuzione. I lavori (dell’impresa n.d.r) hanno inizio dopo l’esito positivo delle suddette verifiche che sono effettuate tempestivamente e comunque non oltre 15 giorni dall’avvenuta ricezione>>.
Appare palesemente evidente, dunque, che è possibile individuare con semplicità un preciso momento temporale in cui il POS è stato già redatto, rendendo così inutile l’apposizione della data certa su questo documento.
Inoltre, non va dimenticato che il CSE, dovendo procedere alla verifica d’idoneità del POS dell’impresa esecutrice, fissa, dando evidenza documentale di tale attività, un altro preciso momento temporale che testimonia l’avvenuta redazione di tale documento ad una ben precisa data anteriore all’inizio dei lavori.
In conclusione, si può tranquillamente affermare che discutere della necessità o meno della data certa su un POS equivale a disquisire sul sesso degli angeli e che una eventuale sanzione comminata solo per la mancanza della data certa sul POS, è assolutamente ingiustificata.
Tornando al nostro sistema prevenzionale, in conclusione, a giudizio di chi scrive, la sicurezza sul lavoro è un problema che:
- non potrà mai essere risolto in modo definitivo ma che può e deve, comunque, essere contenuto e controllato attraverso l’attuazione di un’adeguata strategia che deve vedere coinvolti tutti gli attori nella definizione delle regole da applicare;
- comprende diverse variabili (giuridiche, tecniche, economiche, organizzative, ecc.) e, quindi, qualunque tipo d’intervento non può assolutamente trascurare nessuna di queste componenti, pena l’inefficacia dell’intervento stesso;
- non permette l’applicazione di modelli prefabbricati buoni per ogni occasione ma si deve sempre tenere conto delle specificità di ogni settore industriale compresa la relativa filiera.
Pertanto, un vero e duraturo cambiamento dell’attuale situazione lo potremo avere in futuro abbandonando:
- l’italica prassi della legislazione d’emergenza che si sovrappone alle già esistenti norme vigenti creando solo confusione,
- l’idea del solo incremento del controllo e dell’inasprimento delle sanzioni, ma creando, invece, un sistema che dimostri che l’investimento per la sicurezza e la tutela della salute oltre ad essere eticamente riconosciuto ed apprezzato dalla pubblica opinione, produce un ritorno economico tangibile in quanto:
- permette all’impresa l’accesso e la permanenza sul mercato dove esiste un sistema di controllo efficiente ed efficace da parte degli enti preposti,
- costituisce un vantaggio competitivo rispetto ad altre aziende dello stesso settore,
- permette la riduzione dei costi indiretti ( assenteismo, turnover, ecc.),
- aumenta l’efficienza dei processi lavorativi,
- fa accedere ad agevolazioni fiscali e contributive,
- migliora l’immagine aziendale e
- riduce la conflittualità interna ed esterna.
Carmelo G. Catanoso
Ingegnere Consulente di Direzione
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