Il sistema di qualificazione e la certificazione negli ambienti confinati
Urbino, 17 Lug – Il ricorso allo strumento dei “sistemi di qualificazione” – con riferimento all’articolo 27 del Decreto legislativo 81/2008 (T.U.) è sicuramente una delle “più significative innovazioni portate dal Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, rispetto al precedente d.lgs.n. 626/1994”.
L’intervento del successivo “decreto correttivo” (d.lgs. n. 106/2009) ha poi sancito un ripensamento della funzione propria dell’istituto: “originariamente concepita quale requisito obbligatorio per la contrattazione con la Pubblica Amministrazione e per l’ottenimento di benefici pubblici, la ‘ qualificazione’ è stata declassata a criterio ‘premiale’, ma parallelamente (ri)configurata, ben più incisivamente, quale architrave di un sistema sostanzialmente autorizzatorio e in ultima analisi sanzionatorio applicabile a determinate attività produttive, anche nel settore privato”. E tale approccio sarà consolidato dall’approvazione del DPR 177/2011, che tuttavia “non si inserirà nel solco tracciato dall’art. 27 T.U., inaugurando piuttosto un diverso, terzo modello rispetto a quelli rispettivamente disegnati dai vigenti commi 1 e 1-bis dell’articolo medesimo”. E nel complesso un elemento costante nell’evoluzione dell’istituto è “significativamente individuabile nell’affermazione della certificazione dei contratti ex art. 75 ss. del d.lgs. n. 276/2003”.
A presentare con queste parole il “ sistema di qualificazione”, introdotto con l’art. 27 T.U., è un contributo pubblicato sul numero 1/2022 di “ Diritto della sicurezza sul lavoro”, rivista online dell'Osservatorio Olympus dell' Università degli Studi di Urbino.
Presentiamo oggi il saggio soffermandoci, in particolare, sulla certificazione obbligatoria negli ambienti confinati o sospetti d’inquinamento di cui al DPR 177/2011 e con riferimento ai seguenti argomenti:
- Sistema di qualificazione e certificazione dei contratti
- DPR 177/2011, requisiti e nuovo modello di qualificazione
- Certificazione obbligatoria in ambienti confinati o sospetti di inquinamento
Sistema di qualificazione e certificazione dei contratti
Il contributo - dal titolo “La certificazione ex art. 75 ss. del d.lgs. n. 276/2003 come strumento di qualificazione dell’impresa. L’esperienza della Commissione istituita presso la Fondazione Marco Biagi” – è a cura di Livia Di Stefano (ricercatrice a contratto in Diritto del Lavoro della Fondazione Marco Biagi) e Alberto Russo (ricercatore in Diritto del Lavoro della Fondazione Marco Biagi) e riproduce, con integrazioni e note bibliografiche, la relazione svolta il 21 gennaio 2022 al webinar «Responsabilità degli enti e sicurezza sul lavoro», organizzato nell’ambito del ciclo di incontri sul tema «La responsabilità amministrativa degli enti a vent’anni dalla sua introduzione».
Prima di approfondire uno dei tanti aspetti trattati nel contributo, ricordiamo che, come indicato nell’abstract del saggio, il contributo, “muovendo dall’inquadramento concettuale della nozione di ‘sistema di qualificazione’ nel diritto euro-comunitario e nazionale, ricostruisce il significato e le peculiari caratteristiche sia dei sistemi prefigurati dall’art. 27 del d.lgs. n. 81/2008, sia del sistema effettivamente introdotto dal d.P.R. n. 177/2011, evidenziando le fondamentali differenze tra questi ultimi nonché le molteplici contraddizioni e lacune lasciate, più in generale, nella costruzione normativa dell’istituto”.
Inoltre nell’evoluzione della materia, parallelamente all’affermazione di una “tendenza alla vera e propria regolazione delle attività economiche a fini tutela della salute e sicurezza sul lavoro, lo studio individua l’affermazione della certificazione dei contratti ex art. 75 ss. del d.lgs. n. 276/2003 come strumento di ‘qualificazione’ degli operatori economici, che finirà con l’assumere un ruolo ‘rafforzato’ rispetto allo stesso strumento dei Modelli di Organizzazione e Gestione ex l. n. 231/2001”.
E la certificazione, esaminata nel contesto dell’art. 27 T.U. e del DPR 177/2011 - anche alla luce dell’esperienza maturata dalla Commissione istituita presso la Fondazione Marco Biagi – “emerge quale requisito proprio e distintivo dei sistemi di qualificazione a fini di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, segnatamente rispetto ai sistemi di qualificazione stabiliti nell’ambito della normativa sugli appalti pubblici”.
DPR 177/2011, requisiti e nuovo modello di qualificazione
Come abbiamo accennato anche in premessa d’articolo, a livello normativo il saggio si sofferma anche sul DPR 177/2011 che “stabilisce il principio in base al quale negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati possono operare esclusivamente soggetti in possesso di determinati requisiti”. In questo caso si adotta “un vero e proprio sistema di regolazione delle attività economiche, andando ben oltre la finalità di selezione promozionale dei soggetti operanti sul mercato, pubblico o privato”. Si inaugura, insomma, “un nuovo modello di qualificazione incentrato su tre tipologie di requisiti”, dove la terza tipologia di requisiti consiste “nella certificazione ex d.lgs. n.276/2003 dei contratti di lavoro non standard, di appalto e subappalto utilizzati dall’impresa”.
Gli autori osservano come “il d.P.R. n. 177/2011, differentemente dalla lettera dell’art. 27, comma 1, del T.U., abbia sposato l’accezione ‘tradizionale’ dell’istituto introdotto dalla riforma Biagi. Va nondimeno dato atto che il medesimo d.P.R., oltre e prima ancora che come criterio di qualificazione dei soggetti operati in appalto, subappalto o nell’ambito di un rapporto di lavoro atipico, configura il requisito della certificazione ex d.lgs. n. 276/2003 quale condizione abilitante al ricorso queste ultime soluzioni organizzative e contrattuali da parte delle imprese, altrimenti precluse da un sistema di veri e propri divieti introdotti, rispettivamente, dall’art. 2, comma 1, lett. c) e comma 2”.
Certificazione obbligatoria in ambienti confinati o sospetti di inquinamento
Nell’ultimo paragrafo del contributo si affronta, dunque, la certificazione obbligatoria in ambienti confinati o sospetti di inquinamento di cui al DPR 177/2011.
Si indica che un primo aspetto da sottolineare è che la “certificazione ex d.lgs. n. 276/2003, nell’ambito del d.P.R. n. 177/2011, non viene configurata, almeno in modo esplicito, come strumento di verifica obbligatoria degli ‘standard organizzativi e contrattuali’ individuati dal legislatore, trovando invece collocazione (come uno) tra i diversi criteri sostanziali previsti dalla norma”. Del resto – continua il contributo – “l’ambito di applicazione del d.P.R. disciplina l’autorizzazione all’esecuzione delle attività in ambienti confinati indipendentemente dall’affidamento delle stesse a imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi. In tale ipotesi, come già sopra rilevato, la certificazione ex d.lgs n. 276/2003 non avrebbe, allo stato, nemmeno una base giuridica per potere valutare la conformità degli standard relativi alla tutela della salute e sicurezza, in quanto non collocabili nell’ambito di un rapporto contrattuale”.
Si evidenzia poi che l’obbligatorietà della certificazione “non sembra basarsi nemmeno sul mero ricorso a contratti di lavoro non standard o di appalto, assumendo per contro una funzione solo qualora il datore di lavoro/committente non sia in grado di soddisfare i criteri organizzativi previsti dalla norma”. Si ricorda, a questo proposito, che l’art 2, comma 1, lett. c), del DPR 177/2011 prevede “l’obbligatoria certificazione dei contratti non standard solo nel caso in cui l’azienda non soddisfi il requisito del 30% della forza lavoro assunta a tempo indeterminato e con esperienza almeno triennale relativa a lavori in ambienti confinati. In tale caso, peraltro, l’obbligatorietà sembra operare solo fino a concorrenza del raggiungimento del predetto limite del 30%, senza quindi estendersi a tutti contratti di lavoro flessibili utilizzati”.
Gli autori segnalano che alcuni profili di dubbio ai fini di delimitazione dell’obbligatorietà della procedura certificativa riguardano “il rapporto del suddetto limite del 30% con la forza lavoro dell’azienda esecutrice”. E sulla base “di una interpretazione maggiormente rispettosa della ratio della norma, sembra verosimile che la suddetta percentuale debba rapportarsi alla forza lavoro specificamente utilizzata dall’azienda nei lavori in ambienti confinati” (si rimanda alla lettura della nota del Ministero del lavoro n. 9828/2013). Ne deriva che, “indipendentemente dal rispetto della percentuale in relazione alla complessiva forza lavoro a disposizione dell’impresa, i contratti non standard dei lavoratori dovrebbero comunque essere oggetto di certificazione qualora questi ultimi siano inseriti in squadre rispetto alle quali l’azienda esecutrice non soddisfa la predetta percentuale del 30%”.
Non si ravvisano invece “particolari profili di criticità interpretativa con riferimento alla individuazione dei contratti di lavoro non standard oggetto di certificazione obbligatoria”. Rimandiamo alla lettura del contributo che riporta indicazioni connesse, ad esempio, ai contratti di lavoro part-time o ai contratti di apprendistato.
Si indica poi che l’ambito di applicazione della certificazione obbligatoria si estende “ai casi di appalto e subappalto di lavorazioni in ambienti confinati. In dottrina, peraltro, si è palesata qualche perplessità nel fare rientrare gli appalti tra i contratti oggetto di certificazione obbligatoria sul presupposto di un non chiaro riferimento del testo letterale”. Tuttavia, “a giudizio di chi scrive, non sembrano esserci dubbi al riguardo, anche se è vero che la norma differenzia i presupposti di certificazione tra appalto e subappalto”.
Anche in questo caso rimandiamo alla lettura delle varie considerazioni anche in relazioni ad alcune possibili soluzioni interpretative.
Tuttavia pur definito l’ambito oggettivo di applicazione della certificazione obbligatoria, “le problematiche interpretative non sembrano esaurirsi nella misura in cui non risultano univoci i limiti entro cui debba estendersi l’analisi valutativa compiuta dalle Commissioni”.
Si indica che “se, per un verso, dalla lettera della legge l’oggetto della certificazione sembra limitarsi all’analisi prettamente lavoristica circa la genuinità dei contratti utilizzati, per altro verso, la ratio della norma, anche in correlazione con le previsioni di cui l’art. 27 T.U., di cui il d.P.R. del 2011 è una provvisoria attuazione, suggerirebbe la necessità che l’istruttoria svolta nell’ambito della procedura certificativa comprenda altresì la valutazione degli standard richiesti dal suddetto decreto. In questo senso sembra del resto muoversi la maggioranza delle Commissioni, anche se, in ragione della riconosciuta autonomia regolamentare di queste, risulta non agevole individuare una linea di condotta comune”.
In particolare nell’esperienza della Commissione istituita presso la Fondazione universitaria Marco Biagi “la scelta è stata quella di differenziare nettamente l’analisi lavoristica dalla verifica dai criteri organizzativi in materia di sicurezza, affidando tale ultimo compito ad esperti incaricati/commissari ingegneri con esperienza pluriennale nel ruolo di RSPP. Tale opzione, anche sulla base della constatazione che la procedura certificativa deve di regola precedere l’inizio delle attività in ambienti confinati, in considerazione del carattere autorizzatorio della certificazione obbligatoria, sembra ottimizzare l’utilità dell’intervento delle Commissioni, potendo queste più efficacemente utilizzare la funzione di consulenza che la legge ex art. 81 del d.lgs. n. 276/2003 espressamente consente”.
Un’ultima considerazione – rimandando, infine, alla lettura integrale del contributo - riguarda poi il criterio previsto dal DPR 177/2011, art. 1, comma 1, lett h) “relativo alla integrale applicazione della parte economica e normativa della contrattazione collettiva di settore”. Tale criterio “integra un profilo di indagine di difficile valutabilità, in termini di congruità del controllo, che la maggior parte delle Commissioni soddisfa tramite lo strumento dell’auto-certificazione”. Viene segnalata, a tale riguardo, “l’esperienza della Fondazione Marco Biagi, che ha portato alla elaborazione di specifici protocolli di verifica sulla corretta applicazione dei contratti collettivi allo scopo di integrare l’indagine valutativa della propria Commissione a tutela della responsabilità solidale dei committenti”. Protocolli che potrebbero però “trovare una specifica applicazione anche ai fini della certificazione degli appalti e subappalti in ambienti confinati”.
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Rispondi Autore: carmelo catanoso - likes: 0 | 17/07/2023 (17:07:55) |
La questione potrebbe essere risolta facilmente mediante la costituzione di un apposito Albo invece della certificazione da parte di una commissione che, in tema di sicurezza negli SC, ha la stessa competenza che ha una nutria sulla sicurezza stradale. Lo si è fatto per i rifiuti e per l'amianto. Non vedo perché non si possa fare per gli Spazi Confinati. In ogni caso, il problema principale va risolto alla fonte e cioè mediante una profonda rivisitazione delle "regole" che riguardano gli Spazi Confinati tenendo conto sia del principio di specialità che della gerarchia delle fonti visto che ci sono diverse altre norme che "regolano" i lavori in questo particolare contesto e che nessuno ha abrogato. Il DPR n. 177/2011 è il chiaro esempio di cosa succede quando si scrivono le "regole" sotto spinte emozionali - emergenziali e il legislatore si affida a soggetti tecnicamente incompetenti sulla specifica materia. Comunque, un primo passo lo si potrebbe fare già correggendo il titolo del DPR n. 177/2011 che, nonostante sia passato al vaglio di più di un ufficio legislativo (per ultimo quello del Presidente della Repubblica) è stato pubblicato con il seguente titolo: Regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinanti, a norma dell'articolo 6, comma 8, lettera g), del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81. Nessuno che si sia accorto che s'è scritto "confinanti" e non "confinati" e nessuno che, in questi 12 anni, si sia preso la briga di intervenire. Del resto siamo l'unico Paese al mondo che parla di ambienti sospetti d'inquinamento e ambienti confinati e non di Spazi Confinati e, nonostante ciò, cerca di complicare ulteriormente le cose inventandosi un'altra definizione che è quella di "ambienti assimilabili". |