La medicina del lavoro e i nuovi rischi
Nell’ultimo numero del 2006 del“Giornale italiano di medicina del lavoro ed ergonomia” è stato pubblicato un interessante articolo sui nuovi cambiamenti di tipo tecnologico e socioeconomico che attraversano il mondo del lavoro e che hanno un forte impatto sulla vita dei singoli e delle organizzazioni.
L’articolo punta l’attenzione sulle corrispondenti nuove capacità che la medicina del lavoro deve mettere in atto per poter rispondere efficacemente ai nuovi rischi.
È infatti all’interno delle crescenti divaricazioni tra cambiamenti tecnologici e lavoratori “che s’inscrivono i nuovi rischi, come espressione di contesti lavorativi a rischio, ovvero contesti nei quali si sviluppano condizioni di malessere organizzativo. In questo nuovo scenario, dominato dal senso di precarietà, diventa necessario, per i singoli, re/immaginare il proprio lavoro: processo complesso e faticoso, in quanto richiede la destrutturazione di vecchi modelli interiorizzati, a vantaggio della creazione di modelli nuovi e più adeguati”.
La medicina del lavoro è quindi implicata in questo processo sia nella capacità di comprendere i nuovi rischi, leggendoli in relazione ai contesti organizzativi, sia nella realizzazione di nuovi approcci di ricerca intorno ai problemi.
Secondo un autore citato nell’articolo, M. Ingrosso (Senza benessere sociale, 2003) “le richieste di flessibilità e di mobilità produrrebbero una gerarchizzazione tra chi “ce la fa” a tenere il ritmo e chi non è “adatto”; tra chi ha delle capacità spendibili sul mercato e chi è “obsoleto”; tra chi può usufruire delle risorse e chi non vi riesce. Le conseguenze sulla vita delle persone sono pesanti: stress, ansia, paura, conflitto, incertezza, senso di precarietà”.
Quali prospettive per la medicina del lavoro?
Come suggerimento per un nuovo approccio, l’articolo suggerisce che “i nuovi rischi non sono meri fenomeni individuali, bensì segnali di contesti a rischio. Separando l’individuo dal contesto di lavoro, si finisce invece per “medicalizzare” il singolo e allontanare il problema (spostamento del soggetto, cambiamento di mansione, invio allo psichiatra, ecc.), senza coglierne la radice. Il risultato più frequente, in questo caso, è quello di cronicizzare le situazioni disfunzionanti, contribuendo al disorientamento attuale, amplificando i vissuti di precarietà e di disagio e, in ultima analisi, aumentando il rischio”.
Articolo a cura di R. Paleani, G. Cangiano, S. Signorini, B. Papaleo.
Link all’articolo in forma integrale.
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