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La trasmissione di competenza specifica da esperto a junior

Sempre più, nel mondo del lavoro e delle Organizzazioni, il trasferimento delle competenze dal lavoratore esperto al lavoratore junior, viene considerato parte integrante e fortemente distintiva del potenziale aziendale. Sono certamente molte e variegate le competenze che, a pieno titolo, costituiscono la legacy da far passare il più intatta possibile da una generazione di lavoratori all'altra ma, prima di entrare nello specifico, occorre chiarire bene in che cosa consista il processo di passaggio che, a ben vedere, non si dimostra affatto scontato.

 

Non è affatto scontato, infatti, riuscire a trasmettere competenze ed informazioni ad altri, non e' sufficiente il "saper fare", occorre piuttosto che esso venga supportato da un "saper essere" inteso quale comportamento professionale in senso assoluto, centrato sulla capacita' di farsi capire; per questa ragione sono molte le organizzazioni che scelgono di farsi supportare in questo delicato processo da professionisti capaci di  accompagnare ed indirizzare il processo conoscitivo lavorando proprio sullo sviluppo della suddetta capacità di farsi capire in quanto fattore centrale nei più diversi ambiti lavorativi. La trasmissione delle competenze, per svolgersi efficacemente, richiede in primo luogo l'approfondita conoscenza di ciò che si è chiamati a trasmettere ma, al contempo, una buona sensibilità comunicativa che si manifesta nella gestione di un articolato processo di relazione.

 

Questo processo di traslazione osmotica che, senza dubbio, crea le basi per la memoria storica dell’Azienda, da un lato permette agli old worker la partecipazione al piano di maturazione dei futuri lavoratori, valorizzandone le capacità e le competenze e migliorandone la qualità di vita lavorativa, e dall'altro potenzia la capacità dell’azienda stessa di gestire al proprio interno il tema del trasferimento di competenza.

 

A fronte delle innumerevoli competenze possedute dal lavoratore Senior, in questo articolo, tratteremo la specifica competenza “analisi della complessità” e la indubbia ed ormai attestata necessità di trasferimento di tale competenza, dal lavoratore esperto al lavoratore junior.


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In questo cammino, non privo di quelle trappole e “sabbie mobili” che, intrinsecamente, presenziano nel fare immaturo del lavoratore junior, sono certamente molte le competenze in passaggio ma una fra tutte risulta di particolare rilevanza in quanto indispensabile per  poter governare la complessità dei processi: si tratta proprio dell'analisi della complessità, intesa come la capacità di individuare le corrette correlazioni tra le variabili di un problema, in modo da poter comprenderne la veridicità dello stesso e distinguerlo dal falso problema che finisce per emerge quale risultato tipico dell'analisi superficiale spesso prodotta, seppur inconsapevolmente, dalle risorse meno esperte.

 

L’analisi, pertanto, non può essere considerata un semplice scambio di parole, né una forma di conversazione dove la parola si usa per comunicare come in qualsiasi altro scambio. L’analisi è più di un mero scambio di informazioni, non è un’opera di convincimento, non è un lavoro astratto o un esercizio intellettuale, erudito, fatto di compiti e prescrizioni a cui aderire. L'analisi della complessità ha lo scopo di stabilire se un problema può essere affrontato, se si può formulare una soluzione al problema e verificare l'ipotesi in un tempo accettabile. La complessità è misurata sia nella quantità di tempo di elaborazione necessaria per giungere ad una soluzione (complessità temporale) sia nella quantità di risorse necessarie per l'esecuzione e l'elaborazione dei dati (complessità spaziale ), la  sua corretta analisi, dunque, prevede entrambe e mira a far comprendere la complessità delle cose.

 

Complessità deriva dal latino “cum-plexum”, ovvero intrecciato insieme, analizzarla significa individuare gli elementi che si intrecciano, comprendere il modo in cui ciascuno agisce sull'altro, individuarne le variazioni, capire ciò che è causa e ciò che è effetto, comprendere che cosa accada agli altri al variare dell'uno. È il principio dell’ecologia dell’azione che determina l’imprevedibilità del comportamento dei sistemi complessi.  Tale principio ci comunica che ogni azione sfugge sempre più alla volontà del suo autore nella misura in cui entra nel gioco di inter-retro-azioni dell’ambiente nel quale interviene. Per cui, le soluzioni ai problemi aziendali tendono a trasformarsi in “ipersoluzioni”, ovvero modi di affrontare i problemi che, pur essendo fondati da buone intenzioni, finiscono col presentare effetti controproducenti. Si raggiunge l’obiettivo di breve, ma la soluzione adottata porta all’instaurarsi di nuovi e più gravi problemi nel tempo o nello spazio.

 

Parte proprio da questo concetto, l’attribuzione di un Bias insito nel comportamento dei lavoratori junior. Questi tendenzialmente arrivano a trasformare “il vero problema in falso problema” attraverso la realizzazione un'analisi non sufficientemente approfondita determinata da inesperienza, ricerca precoce della soluzione, acquisizioni limitate di elementi non così palesi, ma necessari per avere una prospettiva veritiera.

 

I principali pregiudizi fanno riferimento ad una presunta grandiosità e bramosità che sempre più caratterizzano il modo di lavorare odierno del giovane lavoratore, unite ad una forma di iperegocentricità negli atteggiamenti e ad un pensiero che sarebbe quasi sempre orientato all’immediato.

 

Questi aspetti che potrebbero risultare negativi tendono a surclassare alcuni pregiudizi positivi quali, ad esempio, l’impegno e la resistenza all’affaticabilità, il possesso di buone capacità interpersonali, di onestà e affidabilità.

 

Per favorire nei giovani lavoratori l'acquisizione di competenze adeguate nell'analisi dei problemi,  governando con efficacia i portati emotivi che possono derivare da ansia di prestazione o paura di esporsi, la soluzione adottata da molte aziende è spesso orientata a creare contesti nei quali il passaggio di competenze e la messa alla prova di quanto acquisito, possa avvenire con modalità relativamente protette; questo il caso della creazione di  piani di mentoring.

 

Si tratta di un è un metodo di formazione che si basa su una relazione (formale o informale) face to face tra un soggetto con esperienza (senior) e uno senza esperienza (junior), al fine di far acquisire al giovane, competenze in ambito lavorativo e sociale. Si tratta di un rapporto continuo di apprendimento, di dialogo, e di sfida che può essere agito secondo una modalità' sia informale che formale.

 

Nel caso del mentoring informale una persona più esperta, non necessariamente un dirigente o una persona con una posizione elevata in organigramma, fa da "sponsor" a un nuovo dipendente, educandolo alla cultura aziendale. Quando, invece, il mentoring è formale, accade che a persone con alto potenziale venga offerta l’opportunità di sviluppare un rapporto diretto di mentoring con un alto dirigente.

 

Queste strategie servono principalmente a far percepire il pensiero dubbioso come positivo e parte integrante di un sano processo di analisi della complessità in cui la riflessione è vista come rivisitazione positiva del “e se così non fosse”; la presenza della criticità come intervento cognitivo necessario per un sistematico “controinterrogatorio”.

 

In sintesi, pianificare politiche d’intervento attivo non solo per fasce d’età ma anche per passaggi di competenze dovrebbe portare, per le organizzazioni, ad un consolidamento delle basi originarie aziendali e ad un riconoscimento aziendale identitario. Va ricordato che in alcuni Paesi orientali il nome dell’azienda viene posto prima del cognome del lavoratore.

 

In conclusione, il passaggio di competenza da una generazione di lavoratori ad una nuova, è come il passaggio del testimone nelle gare di staffetta, in cui tutti partecipano alla gara, tutti daranno il massimo ma la vittoria  è possibile solo col passaggio del testimone, laddove il testimone è appunto, la conoscenza che viene passata dal lavoratore senior al lavoratore junior con lo scopo di creare valore e, perché' no, sicurezza limitando gli errori che sicuramente si presenteranno.

 


Massimo Servadio

Psicoterapeuta e Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni

Esperto di Psicologia della Sicurezza sul Lavoro e Psicologia della Salute Organizzativa




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