Quale sicurezza se il lavoro nero avanza?
Il 19 giugno è stato presentato dalla Cgil Roma e Lazio il rapporto "Il lavoro nero nella regione Lazio", studio commissionato dalla Cgil alla Fondazione Cesar.
E il panorama si dimostra più pessimistico di quanto ci si possa immaginare: le aree di lavoro nero o irregolare si sono ampliate dai settori “tradizionali” dell’agricoltura e dell’edilizia a quelli nuovi dell’agroalimentare, del tessile-abbigliamento, dei centri logistici, della grande distribuzione ma anche dei supermercati e degli autogrill.
E tutto questo lavoro irregolare si riflette inevitabilmente sulla sicurezza dei lavoratori: “Il dipendente colpito è invitato a denunciarsi in malattia o, peggio ancora, ad usufruire delle ferie. Ad Anzio ci hanno riferito che in una struttura che produce calcestruzzo, uno straniero subì un gravissimo incidente. I titolari dell’impresa, interrogati, hanno dichiarato che questi era un lavoratore che ogni giorno entrava nel cantiere per chiedere insistentemente lavoro, per cui non lo conoscevano. A Cassino, invece, ci hanno informato dell’abbandono in strada di un lavoratore, dipendente da un’azienda campana, che aveva subito un grave infortunio sul lavoro. Soccorso appena in tempo, è rimasto fermo nel denunciare l’incidente come accaduto fuori dal cantiere.”
Il lavoro nero nella Regione Lazio (a cura di Nisio Calmieri, Fondazione Cesar)
Il lavoro nero e quello sommerso non sono questioni marginali della realtà italiana; sono, invece, parte consistente e funzionale della struttura produttiva nazionale. Questa convinzione ha avuto ulteriore conferma proprio dalla ricerca. Se c’è, infatti, un dato comune in tutti i territori, oggetto del Dossier che presentiamo, è proprio la preponderante presenza di lavoro irregolare e le tecniche, chiamiamole così, di reclutamento.
Credo che siano permesse due considerazioni. Intanto vi è un indubbio aspetto negativo, in quanto questa prassi (parliamo naturalmente di lavoro nero e sommerso) obbliga le imprese a bloccarsi nell’impossibilità di emergere e paralizzano i lavoratori nella necessità di restare invisibili.
La seconda: il nostro Paese è caratterizzato da una consolidata economia irregolare (dall’evasione fiscale al lavoro nero) tanto che i problemi, generati da questo fenomeno, sono diventati un fatto acquisito. Credo che non vi sia realtà nazionale (e non solo in Europa) che ha permesso che tali macroscopiche illegalità producessero un riconoscimento istituzionale. Mi riferisco alla costituzione, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, di un Comitato per l’emersione dal lavoro non regolare.
Questi fenomeni, tra l’altro, non sono un retaggio di vecchie e superate strutture economiche e sociali. Tutt’altro. Non a caso il lavoro nero non sembra continuamente in crescita per lo stretto intreccio esistente tra trasformazioni interne ed esterne. Hanno radici tenaci, che si espandono ogni qualvolta mutamenti congiunturali (fasi di crisi, recessioni) o strutturali (globalizzazione, terziarizzazione) impongono una costosa riorganizzazione della struttura economica.
Provare a misurare il sommerso, il lavoro nero è un’esigenza stimolata da una curiosità legittima ma densa di implicazioni politiche. Sono, o almeno paiono, intrattabili, ritenuti poco monitorati, non inquadrati, quindi difficilmente stimabili perché sovrabbondanti di ipotesi poco verificate. Tra l’altro non vi sono conoscenze consolidate, da cui partire se mai per precisarle, affinarle.
Non è un caso che su di essi continuano ad essere proposte stime mirabolanti, non certo a favorire la conoscenza.
Ecco perché a noi è sembrato opportuno – prima di dar conto del nostro lavoro – di mettere in premessa “misure ufficiali”, quelle dell’Istat, che devono però essere ben comprese nei pregi e nei limiti. Certo l’Istituto di Statistica fa un lavoro di approssimazione, sia nel calcolare, per comparto di attività, la presenza del lavoro nero e/o irregolare, sia nel determinare il loro peso negativo sul Pil nazionale. Ed onestamente, dei limiti di queste operazioni, ci avverte doviziosamente, ampiamente, richiamando, di continuo, le sue operazioni, quasi virtuali (non vuole essere offensivo il termine) per raggiungere un risultato che tenta ad avvicinarsi alla realtà.
Vi rimandiamo, comunque, alla lettura della premessa che non è poi che un sunto ragionato della titanica lotta, intrapresa dall’Istat.
Ma veniamo a noi. Nella nostra ricercasiamo stati aiutati, e non poteva essere altrimenti, dalle strutture sindacali che ci hanno accompagnato con suggerimenti, consigli e dal diretto impegno a procurarci i contatti opportuni, a seguire nostre incursioni nei posti giusti dove, tra l’altro, non è stata sempre facile cogliere la realtà. Tuttavia. è doveroso ringraziare ufficialmente l’intera struttura sindacale, i suoi uomini, che, molto spesso, hanno dovuto distrarsi dai loro impegni quotidiani per assecondare le nostre richieste, ancorché legittime.
Dicevamo che se c’è un fatto che accomuna i territori interessati alla ricerca è una forte presenza del lavoro nero, tanto che noterete, nel leggere il Rapporto, come ci soffermiamo a lungo, nella descrizione del fenomeno, nelle prime realtà esaminate per, poi, scemare nei territori di Roma Ovest e Latina. Così come per la piaga dei subappalti. Non volevamo essere ripetitivi. Lo stesso discorso vale per il reclutamento che è omogeneo, in tutte quelle zone della regione da noi visitate, sia nelle forme più presenti nell’edilizia e in Agricoltura sia per quelle attinenti alle piattaforme logistiche che per le terziarizzazioni dell’Agroindustria a quelle del Tessile e Abbigliamento, del Commercio e dei Servizi.
Nell’ultima fase della ricerca abbiamo fatto prevalere le testimonianze e la descrizione dei fenomeni sociali e politici più strettamente legati alle realtà territoriali. Pensiamo, per esempio, ai fenomeni criminali di Ostia o a quelli apparentemente inspiegabili di Latina, dove la crescita disordinata, caotica dell’edilizia residenziale è in netta contrapposizione con la realtà demografica di quel territorio.
In rapida successione, indichiamo ora le varie formule contrattuali e non, cui si ricorre per sfuggire al rispetto delle norme e, a volte, delle leggi.
Intanto occorre subito precisare che i più colpiti dalle prestazioni sottopagate sono gli immigrati, con maggiore acredine quando la loro posizione è irregolare. C’è un risentimento degli autoctoni che ritengono questa presenza determinante alla caduta generalizzata del rapporto di lavoro, per cui la concorrenza ha piegato anche gli italiani ad accettare condizioni di sottosalario. Il Sindacato, da parte sua, avverte il pericolo di una diatriba che potrebbe sfociare in una lotta tra poveri (d’altra parte episodi allarmanti si sono pure registrati). Il Sindacato degli edili (la Fillea) di Pomezia ha elaborato un progetto al fine di creare una socializzazione in cantiere. Si tenga presente che, in genere, gli immigrati, nel comparto costruzioni, rappresentano il 35% della forza lavoro e, in questa percentuale, la grande maggioranza ha meno di 35 anni. Un giovane italiano difficilmente accede al settore.
Ma non c’è solo il sottosalario. Non è raro il caso che al dipendente si operano trattenute per l’iscrizione alla Cassa Edile senza che il titolare dell’impresa provvede a versarle, con gravi conseguenze ai fini della maturazione dell’anzianità di lavoro. Atro abuso è quello che in busta paga non appaiono le ore effettivamente prestate. Per gli stranieri questa infrazione ha risvolti drammatici. Se a fronte di 160 – 180 ore di lavoro effettuate, in busta paga ne compaiono 60 – 80 e la rimanente quota la si retribuisce in nero, la cifra denunciata è appena sufficiente per ottenere il permesso di soggiorno ma assolutamente insufficiente per chiedere il ricongiungimento familiare.
In agricoltura si ripete il fenomeno pur conservando precipue caratteristiche derivanti da un lavoro legato alla stagionalità della prestazione. Il controllo, da parte del Sindacato, non è semplice. Nei periodi di raccolta si impiegano, quasi esclusivamente, lavoratori stranieri, generalmente in nero, con la massiccia presenza di indiani, particolarmente nel territorio di Anzio e Nettuno e anche in quello di Latina. I lavoratori, ai quali è affidata l’incombenza della potatura e della raccolta non sono facilmente intercettabili, prestano la loro opera per due o tre mesi, con rapidi spostamenti da un’azienda all’altra. Un dato, riteniamo, chiarisca tutto: l’abissale differenza tra la percentuale di quelli che lavorano nei campi (oltre l’80%) e quelli che avanzano domanda di disoccupazione (non si va oltre l’1%). Colui che è occupato per tutto l’anno è uno solo o, al massimo, due. E qui balza agli occhi un’altra incongruenza. Le Aziende che dichiarano come dipendente un solo salariato fisso sono in possesso di decine e decine di ettari. Un salariato fisso è insufficiente anche solo per la cura delle piante, né vale il concetto della conduzione familiare. E fa bene il Sindacato a chiedere agli Enti preposti di conoscere, rispetto alla superficie, quante persone occupate vengono denunciate.
Ci soccorre, per dar forza alle nostre affermazioni sul lavoro irregolare, l’Ispettorato Provinciale del Lavoro di Frosinone che riferisce il 20 ottobre 2006, a conclusione della vigilanza speciale in agricoltura, che delle 8 aziende vinicole medio-grandi risultava che dei 45 lavoratori controllati, 36 sono risultati totalmente in nero. Sono stati trovati 7 neocomunitari e 2 extracomunitari senza permesso di soggiorno. Il Direttore di quell’Ispettorato affermava: <<appare evidente l’incidenza del lavoro nero nel settore che, ormai, raggiunge l’80% e che l’edilizia e l’agricoltura sono i settori in cui si annida maggiormente il fenomeno del lavoro sommerso>>.
C’è di più. Lo scorso anno il Prefetto di Roma convocò le Organizzazioni sindacali, unitamente a quelle degli imprenditori agricoli, a seguito di una ispezione nelle campagne di Cerveteri, che aveva fatto emergere l’utilizzo di stagionali clandestini. Gli imprenditori ammisero, senza batter ciglio, che i lavoratori occupati irregolarmente erano, più o meno, il 75% degli occupati stagionali.
Non è più semplice la situazione nell’agroalimentare. Queste industrie, potevamo ben chiamarle così, sono diventate, in buona parte, piattaforme logistiche, in cui grandi fette di lavoro sono esternizzate e affidate, per lo più a cooperative. A Pomezia un’industria di livello nazionale ha una sua succursale. Impiega 14 lavoratori effettivamente dipendenti dell’Azienda, gli altri 90 sono dipendenti o socio-lavoratori di una cooperativa. Ancora, una grande aziende produttrice di generi alimentari ha iniziato la sua opera di ridimensionamento il 2001, liberandosi di 340 lavoratori, utilizzando, tra l’altro, il prepensionamento. Nel 2004 chiese, ed ottenne, la mobilità. Pare che ora si avvii a chiedere la mobilità lunga. Sempre quest’azienda ha completamente distaccato dalla produzione, anche se la lavorazione avviene nella stessa unità produtiva, il reparto “Cucina facile”, affidata ad una cooperativa del napoletano (per il vero, sulla natura della società non vi sono certezze) che impegna solo personale straniero che viene portato sul posto, a cura dell’affidatario della gestione, all’inizio della settimana e qui vi rimane, alloggiato in un casale non lontano dal posto di lavoro. Ha posto fuori dalle sue competenze il macello e il carico-scarico. Altro reparto ormai estraneo alle sue incombenze, la produzione di coppa e pancetta. Nel 2005 il reparto risotto. Nel dicembre 2006 ha ceduto l’ultimo pezzo di carico-scarico. Inoltre ha affidato ad una società esterna il laboratorio di analisi, anche se lo stesso rimane nell’azienda. Insomma si è, di fatto, smantellata un’industria. Come dicevamo questa Società ha utilizzato agevolazioni di legge. Certo l’impresa, per ottenere queste agevolazioni, ha dovuto presentare un piano industriale, non sappiamo se poi è stato sottoposto a controllo. Quello che ci hanno riferito è che è riuscita, più volte, ad utilizzare soldi pubblici: presentando, una volta, richiesta di finanziamenti per la ristrutturazione del macchinario, anche questo ottenuto; ancora per l’installazione di una linea per un nuovo prodotto (wurstel) del quale recentemente aveva chiesto di disfarsene; altre, in maniera indiretta, con l’utilizzazione degli ammortizzatori sociali. E tutto questo può diventare un abuso se concesso ad azienda che non pare in crisi, a leggere i suoi bilanci.
Il lavoro irregolare si nasconde dietro varie formule contrattuali, ancorché legittime.
Non è raro imbattersi, nelle aziende del comparto tessile-abbigliamento, nel rapporto di “compartecipazione”. I lavoratori conferiscono 51 € per iscriversi a questa attività, con la clausola di partecipazione agli utili e alle perdite per due esercizi. Il corrispettivo è quello che l’Associazione riconosce agli adepti il 50% del fatturato periodico, al netto delle materie prime, riferito alla produzione cui ha partecipato e al lordo della ritenuta d’acconto oltre un 10% sull’utile netto annuo da dividere tra tutti gli associati proporzionalmente alla produzione stessa. O, ancora, il contratto a “progetto”. In realtà in queste aziende i dipendenti sono impegnati tutti i giorni dalle 8 alle 12 e dalle 13 alle 17. In questo comparto, la presenza degli stranieri è preponderate nel settore della tappezzeria.
Per non accennare ai centri logistici della grande distribuzione in cui i lavoratori si sono ormai ridotti ad un terzo del personale originale. Per esempio, nella piattaforma logistica di una grande catena di supermercati, con marchio nazionale, vi è stata, una forte terziarizzazione non solo dei servizi; tutta una serie di mansioni affidate a cooperative. A queste sono demandate la preparazione della merce e il carico delle stesse sui mezzi di trasporto, la ricezione e lo scarico della merce in arrivo; la gestione dei vuoti, il ricompattamento e smaltimento dei cartoni. Anche il trasporto è affidato ad esterni. Le cooperative hanno finanche la proprietà e la gestione dei mezzi di movimentazione elettrica e al loro personale è riservato il delicato compito di gestire il pilotaggio del sistema informatico che è, poi, il punto nevralgico dell’organizzazione aziendale.
Sul loro rapporto di lavoro: versano 50 euro per l’iscrizione alle cooperative, le paghe vanno da 1.200 a 1.500 euro per il personale più qualificato, per gli altri vi è una diversità di trattamento con una retribuzione che è compresa tra i 500 e gli 800 euro mensili. Vengono retribuiti in base a un monte mensile di 168 ore; le altre 30, 40, per eventuale straordinario, vengono liquidate sotto la voce ‘diaria’ su cui non si pagano i contributi.
Siamo venuti in possesso di una busta paga di un operaio specializzato. L’ammontare complessivo, al netto, raggiungeva 1.250,00 euro. Vi erano, però, voci assolutamente anomale: diaria € 207,00 compenso sostitutivo dello straordinario che era indicato in 30 ore; ratei di 13^, 14^, e Tfr che erano liquidati mese per mese, sottraendoli alla dovuta rivalutazione, in più ferie monetizzate. Sottraendo tutte queste voci la retribuzione mensile effettiva scendeva a circa 800 euro mensili.
Per i dipendenti del Consorzio trasporti o delle Cooperative, sempre di trasporti, abbiamo solo rilevato che la maggior parte degli autisti impiegati è straniera, per lo più rumeni. Alcuni di questi stranieri hanno trasformato il loro mezzo in abitazione, lì dormono, parcheggiati nel cortile delle aziende. Ad uno di questi malcapitati è accaduto di restare vittima di in un incidente sul lavoro all’interno dell’azienda, ferito in maniera seria, è stato lì curato con mezzi di fortuna, perché se lo si fosse trasportato al Pronto Soccorso, avrebbe corso il sicuro rischio di essere rimpatriato e il datore di lavoro (non sappiamo se il Consorzio o la Cooperativa) di essere perseguito.
Nell’edilizia nella zona Roma Ovest, è prassi consolidata sottoporre ai lavoratori perché la sottoscrivano, all’atto dell’assunzione, lettera di dimissione. Molti sono costretti ad accettare il part-time pur di essere assunti o, peggio ancora, di essere inquadrati come manovali, nonostante svolgano mansioni di operai specializzati. L’utilizzazione di questi strumenti è largamente diffusa, la conferma l’abbiamo dalla crescita, nel settore, delle attività a minor apporto qualitativo. Il 70% degli stranieri è impiegato come operaio comune rispetto al loro 30% della forza lavorativa. Gli operai specializzati e di 4° livello non sono che il 9%.
Anche negli autogrille nei posti ristoro, pur non avendo rilevato fenomeni di lavoro nero, si riscontrano forzature contrattuali ed elusioni delle leggi assolutamente ingiustificate, in particolare quanto gestori delle aziende sono grandi gruppi industriali.
La maggior parte del personale è a tempo determinato. Percentuale destinata a crescere mano, mano che il vecchio personale viene collocato in pensione. Per i nuovi inserimenti si ricorre a varie forme di assunzioni: l’utilizzazione della 474 o a progetto (e non si capisce cosa si può progettare in un esercizio commerciale). I contratti sono stipulati per periodi brevi: si assume una persona per due mesi, alla scadenza si sospende il rapporto per 10 giorni, riconoscendogli la dovuta liquidazione, per poi riassumerlo per un periodo fino a tre mesi.
In sintesi, un lavoratore, nell’arco di un anno, ha lavorato per 8, 9 mesi complessivamente senza limitazione dei periodi di precariato. Pur avendo maturato giorni di ferie si preferisce monetizzarle, insieme alla liquidazione, a conclusione dei periodi lavorati. Questo stato può durare per una lunga serie di anni. Si assume con la qualifica di 6° livello, figura d’ingresso ‘pluriservizio’. Appena assunto, la prima incombenza è il lavaggio dei piatti o le pulizie, poi lo si catapulta, pur in assenza di esperienza, in mansioni di barista, cuoco, aiuto-cuoco, fattorino e quant’altro, senza alcun affiancamento; insomma in autoformazione. Scarsissima, in questo settore, la presenza di stranieri.
Nel mondo del commercionon ci si ferma qui. In questa realtà si ha la sensazione che il nero, inteso come totale assenza di applicazioni normative e contrattuali, tenta a fregiarsi di una parvenza di legalità. I contratti, quando ci sono, non corrispondono all’effettiva realtà. Per un contratto di lavoro a part-time a 20 ore settimanali, applicato a un dipendente del commercio, corrispondono 50/60 ore settimanali di lavoro reali, per non parlare della mancanza di giorni di riposo e di retribuzione straordinaria.
Anche il settore dell’appalto delle mense scolastiche, affidate dai comuni ad imprese private, si distinguono per situazioni anomale.
Non si cambia spartito in svariati settori: vigilanza, farmacie, turismo, estetica e imprese di pulizia. Tra queste ultime il personale è prevalentemente femminile.
Proprio per le imprese di pulizie, nella zona Roma Ovest, abbiamo contezza che l’obiettivo del datori di lavoro è corrispondere il minimo contrattuale, in pratica 15 ore settimanali e solo queste appaiono in busta paga. Tutto il resto fuori busta, in contanti. Il lavoro straordinario viene riconosciuto con il corrispettivo di 5 € l’ora.
Situazione analoga, ci dicono, avvenga all’interno della nuova Fiera di Roma. Qui però lo straordinario, sempre corrisposto a 5 € l’ora, viene riportato sul cedolino che va firmato dal lavoratore ma non consegnato, perché trattenuto dal datore di lavoro. Nel territorio di Pomezia si verifica che il periodo di maternità che prevede, nel primo anno di vita del bambino, la concessione alla madre di permessi orari dedicati all’allattamento e quantificati in relazione al monte ore di lavoro, articolati secondo le ovvie esigenze del neonato. Si verifica, invece, che la decisione sul “quando” è assunta arbitrariamente dal datore di lavoro, evidentemente esperto conoscitore di queste problematiche.
E veniamo ai supermercati. Il lavoro qui è generalmente grigio a fronte di assunzioni regolari. Abbiamo testimonianze che ci hanno raccontato che si lavorano 47 ore settimanali, dell’eccedenza si trovano, però, in busta paga solo 7-10 ore, la differenza viene corrisposta con buoni benzina o buoni pasto. Una qualsiasi contestazione al metodo provoca un immediato trasferimento punitivo. I 500 euro di straordinario vengono retribuiti, anche questi, con buoni pasto o benzina. Altro comportamento illecito è quello dell’entrata e dell’uscita, regolarmente denunciate, vengono puntualmente cancellate tramite badge, in modo che non rimanga alcuna traccia dell’effettivo orario di lavoro prestato. La situazione è più complessa nella media distribuzione (piccoli supermercati) in quanto questi assumono spesso forme cooperativistiche. Si può affermare che se il lavoro nero non dilaga, fa certamente da padrone. Per essere precisi: rispetto ad una prestazione di 12 ore, sei sono riconosciute, alle ulteriori sei, si riserva il trattamento in nero.
A Latina ci hanno segnalato che vi sono aziende terze che forniscono l’intera manodopera ai supermercati delle piccole realtà. E non solo in questo settore. Lo si avverte, sempre a Latina, anche nell’organizzazione turistica. Questa si sta orientando, anche se, per ora non in forma eclatante, verso l’affidamento a terzi della sua struttura lavorativa.
Sempre in questa provincia si segnalano realtà spurie sugli appalti, anche pubblici (comuni, ospedali, etc.). Ne richiamiamo una: i velox sulla via Flaca. 26 postazioni effettuano centinaia di multe al giorno, con ditte private che trattengono fino a 14 € a multa e lavoratori che percepiscono 3-4 € l’ora.
Negli stabilimenti balneari di Ostia, la forte presenza e volontà delle istituzioni e la funzioni propositiva di società di cooperative bagnanti che, controllano il lavoro dipendente dell’80% degli esercizi, la situazione è sostanzialmente regolarizzata. I bagnini a terra (altra figura tipica) lavorano 300 ore al mese per un corrispettivo di 500 €, sono quasi tutti completamente irregolari così come gli addetti alle cucine e i camerieri. La grande maggioranza degli addetti è personale italiano, i pochi stranieri presenti sono tutti in possesso del permesso di soggiorno.
Finiamo con tre argomenti: il caporalato, i subappalti e gli incidenti sul lavoro.
Intanto il caporalato, ci riferiamo alla edilizia e all’agricoltura, ha assunto caratteristiche e dimensioni nuove. Al reclutamento si prestano alcuni lavoratori sia italiani che migranti i quali sono sollecitati direttamente dal capo-cantiere ad avvicinare uomini disposti a prestare la loro opera nel settore. Il meccanismo è alquanto complesso, e cerchiamo di spiegarlo nel Dossier, la differenza tra italiani e migranti, è fatta solo dall’esosità del pizzo reclamato. Poi c’è il reclutamento diretto. Nelle varie postazioni dove si radunano, di primo mattino, gli aspiranti lavoratori, si presentano, in furgoncino, i caporali che pattuiscono il salario, caricano coloro che accettano le condizioni per portarli in cantiere. Per i punti di raccolta, basta partire da Via Togliatti a Roma e percorrere tutta la strada che porta a Sezze per imbattersi in continue postazioni che commerciano braccia. Tra Anzio e Nettuno ve ne sono quattro. Siamo stati in questi luoghi e, precisamente, al Bar dello Sceriffo, al Bar di Via Cadolino, a quello situato in località Piscina Cardillo oltre che all’Eurospin, dove esistono due caseggiati abitati, soprattutto, da pakistani, indiani e albanesi, diventato anch’esso punto di reclutamento.
Per il subappalto: oggi esiste la società che compra il terreno, lo converte, progetta e appalta; l’appaltatore impianta il cantiere e lo subappalta e quest’ultimo lo subappalta ancora e, non è raro, che la catena non si fermi qui. Questo soprattutto nel privato. Può quindi accadere, come abbiamo registrato durante la nostra ricerca, che in un cantiere dove lavorano 20 persone, si trovano quattro imprese, ciascuna delle quali dichiarava una forza lavoro di 5 unità. Le grandi imprese, per il vero, nell’espletamento di opere pubbliche, applicano correttamente il contratto, ai propri dipendenti, ed è difficile trovare un lavoratore in nero anche fra le aziende che operano in subappalto. Lo si registra invece tra quelle a cui vengono affidate sub-contratti come la posa in opera, il movimento terra, le opere di rifinitura. Alcune di queste agiscono diversamente nel lavoro privato. Una loro società compra il terreno, lo riconverte poi lo dà in appalto ad una altra società, sempre del proprio gruppo, che non ha operai, questa lo subappalta ancora ad imprese che utilizzano largamente lavoro nero, per garantirsi una notevole riduzione dei costi di realizzazione. Quando i lavori sono in stato avanzato, la società appaltante contesta alle imprese subappaltanti la qualità dei lavori e sospende i pagamenti. Si apre così un lungo contenzioso. Intanto l’opera è terminata, la grande impresa la vende, realizzando un cospicuo guadagno e poi pensa a chiudere la vertenza aperta, tenendo fermo l’obiettivo di un ulteriore risparmio sui costi.
Sugli incidenti sul lavoro, solo poche parole, in quanto gli inqualificabili comportamenti sono diffusissimi, non vi è stata realtà che abbiamo esaminato che non ha denunciato analoga procedura. Il dipendente colpito è invitato a denunciarsi in malattia o, peggio ancora, ad usufruire delle ferie. Ad Anzio ci hanno riferito che in una struttura che produce calcestruzzo, uno straniero subì un gravissimo incidente. I titolari dell’impresa, interrogati, hanno dichiarato che questi era un lavoratore che ogni giorno entrava nel cantiere per chiedere insistentemente lavoro, per cui non lo conoscevano. A Cassino, invece, ci hanno informato dell’abbandono in strada di un lavoratore, dipendente da un’azienda campana, che aveva subito un grave infortunio sul lavoro. Soccorso appena in tempo, è rimasto fermo nel denunciare l’incidente come accaduto fuori dal cantiere.
Per concludere, abbiamo posto alla fine del Rapporto, un appendice relativa alle infiltrazione malavitose in questa regione. I sensori ci avvertivano, nel corso del nostro lavoro, di una presenza quasi carnale delle organizzazioni criminali, in particolare nelle aziende agricole e di agriturismo. Del resto basta leggere gli elenchi dei beni confiscati alle cosche per averne una conferma.
La più clamorosa spia della loro presenza l’abbiamo verificata nel Distretto del marmo, allocato nella zona compresa tra Cassino, Pignataro Interamma, S. Giorgio Ausonia, Esperia, Goreno Ausonio, dove si estrae, dalle montagne, un marmo di pregio denominato “Perlato Royal Goreno” dove le infiltrazioni camorriste appaiono evidenti. Persone del casertano e del napoletano stanno acquistando pezzi di montagna non per valorizzare il prodotto, ma per installare macchinari di frantumazione alfine di ricavare polveri e breccia. I timori sono tanti: la devastazione del territorio, l’impoverimento della zona; l’iniziativa riveste tutto l’aspetto del riciclaggio di denaro ai fini di un investimento prontamente produttivo. Sfruttare una cava di marmo significa un grosso lavoro per la sua estrazione, l’installazione di segherie per la sua lavorazione e, infine, la commercializzazione. I derivati dalla frantumazione sono invece immediatamente commerciabili: le polveri le si destinano ad industrie delle vernici, chimiche e farmaceutiche; la breccia all’industria delle costruzioni.
I contatti con i più vari operatori della giustizia, della repressione criminale, delle organizzazioni di volontariato, impegnati sul terreno della lotta alle mafie, con il prof. Ciconte, storico della ‘ndrangheta e docente alla Sapienza di Storia della criminalità organizzata ma, soprattutto, le 20 pagine dedicate alla regione Lazio, dal Dossier consegnato, dalla Direziona Nazionale Antimafia, al Parlamento nel febbraio scorso, ci davano ragione.
Ci è quindi sembrato giusto richiamare l’attenzione di quei lettori che si avventureranno nella lettura del nostro Rapporto a porre attenzione a questo grave e preoccupante aspetto.
Link al rapporto “Il lavoro nero nella regione Lazio", (file PDF )
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