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Parità e disparità nel mondo del lavoro

 

Citando una famosa frase di Michela Marzano, “essere dalla parte delle donne vuol dire lottare per costruire una società egualitaria, in cui essere uomo o donna sia «indifferente», non abbia alcuna rilevanza; non perché essere uomo o donna sia la stessa cosa, ma perché sia gli uomini sia le donne sono esseri umani che condividono il meglio e il peggio della condizione umana.”

 

Centinaia di milioni di persone, di qualsiasi genere e tipologia, subiscono discriminazioni nel mondo del lavoro. Questo preoccupante fenomeno non solo viola i cosiddetti “Diritti Fondamentali” ma può avere anche conseguenze rilevanti dal punto di vista economico e sociale. Le discriminazioni soffocano le opportunità, sprecano il talento umano necessario per il progresso economico e fortificano le tensioni sociali e le disuguaglianze.

 

La lotta alla discriminazione è infatti parte integrande della promozione del lavoro dignitoso, in quanto solo la parità tra uomo e donna dà a tutti libertà di scelta. Purtroppo, la discriminazione di genere nel tempo dedicato alla famiglia e alla cura è ancora forte in Europa; solo nei paesi del Nord si inizia a raggiungere una parziale parità. Emerge quindi la necessità di aumentare le possibilità di scelta per donne e uomini, senza dover per forza imporre un unico modello standardizzato.

 

La Società odierna continua a proporre divari molto persistenti tra uomini e donne, come evidenziano le analisi e i dati di due recenti rapporti, il primo relativo a concetto di parità in Europa (Commissione Europea/SAAGE), il secondo connesso a stereotipi e ruoli (ISTAT).

 

La vera domanda è se nelle società moderne cosiddette “avanzate”, sia ancora accettabile che le opportunità dipendano dall’essere maschio o femmina. E inoltre, quali costi, nascosti e no, ne derivano? Non si tratta unicamente di una questione di diritti da tutelare e garantire, ma soprattutto di favorire la piena espressione delle scelte professionali e di vita che migliorano la partecipazione delle persone alla produzione di benessere economico e sociale di un intero paese.

 


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La disparità fra uomini e donne in termini di opportunità di partecipazione al mercato del lavoro in equilibrio con la sfera familiare viene stata spesso interpretata solo dal lato dal punto di vista della discriminazione femminile. Se analizziamo questo fattore da questa prospettiva, le donne (in particolare le madri) subiscono la penalità di essere “coloro che nella coppia fanno figli”, tradotta in termini di minor opportunità di carriera e di salario. C’è da dire però che nel corso degli ultimi anni, si sta prendendo coscienza del fatto che può esistere una penalità anche per i padri, quando le istituzioni e i valori diffusi sostengono l’immagine dell’uomo-lavoratore unico responsabile del benessere economico della famiglia (il cosiddetto “breadwinner”). Questo prototipo di immagine va infatti a discapito del tempo che i padri dedicano alla famiglia e alla cura dei figli.

 

Anche se la panoramica europea, con riferimento alle politiche a sostegno della conciliazione famiglia-lavoro sia variegata, emerge ancora un diffuso e forte divario di genere nel tempo dedicato alla famiglia e all’equilibrio con la vita personale. Secondo gli ultimi dati di Eurofound ( https://www.europa.eu), in media in Europa le donne dedicano 22 ore la settimana al lavoro domestico e di cura di eventuali figli, contro le sole 10 ore degli uomini. Ovviamente, se ci si concentra sui singoli stati, tutto il contesto europeo risulta molto articolato, con i paesi del Nord più paritari e quelli del Sud che al contrario denunciano minor parità di genere.

 

Le differenze nei modi in cui donne e uomini si dividono i ruoli sono il riflesso dei diversi sistemi di “welfare”, ovvero delle politiche capaci di sostenere più o meno facilmente un uguale coinvolgimento di uomini e di donne tanto nel mercato del lavoro quanto nelle attività domestiche.

 

Dove il divario tra i generi persiste maggiormente (ad esempio nei paesi dell’Europa meridionale e orientale), sono frequenti principalmente politiche basate appunto sul modello dell’uomo-breadwinner, che si riflette però anche nella mancanza di efficaci strumenti di conciliazione famiglia-lavoro. La maggior parte delle misure adottate dagli Stati e dalle aziende, infatti, mira a proteggere la maternità sotto forma di assegni familiari, congedi, etc.. mentre i servizi di assistenza all’infanzia (quali asili nido) e i congedi riservati ai padri risultano ancora molto limitati. Tutte le politiche che puntano a sostenere le maternità senza favorire la scelta della madre di partecipare o meno al mercato del lavoro e senza promuovere una cultura che dia valore al ruolo e al coinvolgimento degli uomini nella cura della famiglia e dei figli “dall’interno”, possono essere considerate più o meno implicitamente a supporto di una visione molto tradizionale dei ruoli di genere, con la classica donna-madre casalinga ed il classico uomo-lavoratore.

 

Il cosiddetto “modello dual-earner” (ovvero quello in cui entrambi i genitori hanno un reddito), al contrario, si riflette nelle politiche che garantiscono congedi di maternità remunerati, facile ricorso a contratti part-time e adeguati servizi per l’infanzia (come in Germania e in Francia, dove i posti negli asili nido non solo sono numerosi ma hanno anche costi molto ridotti, se non addirittura nulli). Anche in questo modello, tuttavia, non è per nulla scontato che vi siano specifiche politiche rivolte ai padri per incentivare il loro coinvolgimento nelle attività familiari, attraverso ad esempio congedi esclusivi e tempi di lavoro più adattabili alle esigenze della tipologia di famiglia stessa. In questo caso, esiste il rischio che le madri possano trovarsi con un doppio carico di responsabilità dato sia dal lavoro remunerato che da quello famigliare.

 

In questi ultimi anni l’Unione Europea ha promosso l’adozione di diverse politiche per favorire la diffusione di un modello più ampio di uguaglianza di genere. Si tratta del cosiddetto modello “Dual Earner/Dual Carer” (DEDC), secondo il quale entrambi i partner sono ugualmente coinvolti nel lavoro remunerato esattamente come nella cura non solo di bambini ma anche di familiari non autosufficienti.

 

Nei paesi in cui questo modello risulta già abbastanza diffuso (in particolare, come già evidenziato, nei paesi del Nord Europa), i sistemi di welfare sono incentrati su politiche che consentono a entrambi i genitori di accedere a congedi esclusivi ben remunerati e flessibili, tramite un sistema pubblico di servizi per l’infanzia capillare e universale, disponibilità di contratti part-time e modalità di lavoro flessibile (sia in termini di orario sia in termini di possibilità di svolgere la propria mansione in modalità remoto). Sembrerebbe andare in questa direzione, ad esempio, la recente proposta del nostro Ministero per le Pari Opportunità ( https://www.pariopportunita.gov.it/it/) di allungare sensibilmente il congedo di paternità (attualmente portato già a 7 giorni con la Legge di Bilancio 2020), garantendo ai padri il 20 per cento del congedo obbligatorio, di norma riservato interamente alle madri. Il congedo esclusivo, e remunerato al pari dello stipendio vuole essere sinonimo di un incentivo alla partecipazione del padre alla cura dei figli già dai primissimi mesi di vita, aiutando quindi l’instaurarsi di un legame più profondo con la prole e, a livello di welfare, promuovendo la figura del “padre attivo”.

 

Tuttavia, sebbene la diffusione del modello DEDC sia collegato ad una più elevata uguaglianza dei generi nella sfera sia familiare che lavorativa, sarebbe anche utile considerare le sue potenziali limitazioni: il modello DEDC, infatti, parte dal presupposto che entrambi i genitori desiderino lavorare, indipendentemente dalle caratteristiche del proprio lavoro, e presuppone che entrambi abbiano lo stesso desiderio di trascorrere la medesima quantità di tempo tra le mura domestiche e nella cura dei bambini. D’altronde, sia le madri che i padri possono avere preferenze diverse nel tempo e nelle energie che vogliono dedicare al lavoro o alla famiglia, così come le coppie potrebbero avere necessità diverse e che cambiano nel tempo riguardo a come investire il loro tempo e le loro risorse nel lavoro e nella famiglia: in questo caso l’adozione anche solo momentanea, di modelli alternativi a quello paritario potrebbe essere preferibile. L’adozione del modello DEDC potrebbe tuttavia rappresentare anche solo una fase transitoria per favorire la diffusione di atteggiamenti di genere più paritari; ciò consentirebbe, per esempio, sia a donne che a uomini di sperimentare un uguale coinvolgimento nel lavoro retribuito e non retribuito, in modo da accompagnarli in un cambiamento culturale verso una graduale accettazione del modello DEDC come opzione reale, che tutte le coppie potrebbero effettivamente prendere in considerazione.

 

Tornando a quanto affermato all’inizio, soltanto in un contesto di libera scelta e di fronte a opzioni effettivamente disponibili le politiche per sostenere la parità fra donne e uomini non sarebbero necessarie, mentre andrebbe sempre garantita alle coppie la possibilità di adattare in modo flessibile i propri ruoli in funzione delle loro specifiche preferenze ed esigenze: la distribuzione dei carichi di lavoro e cura nella coppia infatti può anche essere asimmetrica (ad esempio ci può essere chi si dedica più ai figli e chi invece alla carriera, o viceversa, indipendente dal genere) e variare nel corso di vita, l’importante è che uomini e donne abbiano le stesse possibilità di scegliere se, come e quando investire il loro tempo e le loro energie per il proprio impiego e per la loro famiglia.

 

 

Massimo Servadio

Psicoterapeuta Sistemico Relazionale e Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni.

 

 

 



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