La sicurezza sul lavoro a dieci anni dal Testo Unico
Pubblichiamo l’intervento di Anna Maria Di Giammarco - Presidente SNOP - Società Nazionale Operatori della Prevenzione, presentato al Convegno Nazionale “La sicurezza sul lavoro tra bilanci e prospettive a dieci anni dal Testo Unico” promosso dall’Università degli Studi di Trieste, CGIL e INCA Nazionale e del Friuli Venezia Giulia, Università Statale di Milano.
LA SICUREZZA SUL LAVORO TRA BILANCI E PROSPETTIVE A DIECI ANNI DAL TESTO UNICO
A dieci anni dalla promulgazione del D.Lgs. 81/2008, tracciare un bilancio vuol dire prima di tutto partire dal contesto storico, politico e culturale che ne hanno accompagnato e condizionato la stesura e l’approvazione, dopo un’attesa trentennale (ricordiamo che un “testo unico in materia di sicurezza del lavoro” era già oggetto della delega contenuta nell’art. 24 della L. 833/78), in un periodo di particolare attenzione pubblica e sociale sui temi della prevenzione occupazionale e di “nuovo” interesse del Ministero della Salute per la materia, dopo ben due Conferenze Governative (illuminanti sulle difficolta di coordinamento tra i due Ministeri, del Lavoro e della Salute).
Qualche anno prima, nel 2003, un monitoraggio dell’applicazione del D.Lgs. 626/94 condotto dalle Regioni aveva messo in evidenza criticità (particolarmente rilevanti per le piccole e piccolissime aziende) riferite ad aspetti fondamentali come l’organizzazione e la gestione del sistema prevenzionistico, la programmazione della prevenzione e la formazione, ma anche alcuni “fattori vincenti”, tra i quali la presenza dei RLS in contesti caratterizzati da un sistema di relazioni “corretto e non solo formale”.
I profondi e crescenti mutamenti del lavoro, dell’occupazione e della produzione che in quegli anni andavano evidenziando il loro impatto negativo sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori, affiancandosi alle criticità rilevate dal monitoraggio, rendevano manifesta l’esigenza di un intervento di riassetto normativo.
Nella seconda metà del 2007 era stato intanto formalizzato l’accordo Stato-Regioni riguardante il Patto per la salute e la sicurezza sul lavoro, che riaffermava la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori come competenza specifica del Servizio Sanitario Nazionale, e l’equità dell’accesso all’assistenza sanitaria come obiettivo primario del SSN. Infatti, si prendeva atto della disomogeneità nel territorio nazionale della capacità di intervento e soluzione efficace delle problematiche, in parte legata alle modifiche del lavoro e della produzione e alla irregolarità del lavoro, oltre che alla frammentazione del tessuto produttivo. Si individuava la necessità di operare in una logica di sistema e per priorità, assicurando il coinvolgimento di tutti gli attori in campo, e operando per il miglioramento della conoscenza e l’indirizzo delle scelte operative. Il nuovo Testo Unico era individuato quale strumento “di indirizzo funzionale ad un disegno omogeneo del sistema della prevenzione”.
In questi mesi, in occasione delle molteplici iniziative organizzate per l’occasione, è stato ricordato che molti dei decreti attuativi previsti da quello che non è tuttora possibile definire un Testo Unico attendono ancora di essere emanati, nonostante le specifiche previsioni contenute nella Legge 123/2007 (con la quale veniva impartita la delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro) e gli impegni enunciati nel Decreto stesso; che mancano tuttora importanti armonizzazioni: con normative di settore (è il caso dei settori marittimo e portuale), ma anche con normative “di prodotto” (a partire dai Regolamenti REACH e CLP); che persistono “ambiguità” irrisolte (ad esempio, in materia di razionalizzazione e coordinamento delle strutture di vigilanza e anche con riguardo al settore del trasporto ferroviario).
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Quelli sui quali tuttavia si intende qui concentrare l’attenzione sono due grandi obiettivi strategici del D.Lgs. 81 tra loro interconnessi, al centro anche del Patto per la salute e la sicurezza del 2007, tuttora vigente:
- la realizzazione di un sistema pubblico di prevenzione e la promozione di un sistema di prevenzione nei luoghi di lavoro concretamente efficaci ed in reciproca relazione;
- la realizzazione di un Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione (alimentato dagli attori istituzionali in campo e condiviso con le parti sociali), quale strumento indispensabile di programmazione e valutazione dell’attività di prevenzione.
E’ bene chiarire subito che, ai fini della valutazione dell’effettività delle norme contenute nel Decreto, non riteniamo si possa ragionare di bilancio e di prospettive senza avere presente l’assetto organizzativo istituzionale (in generale e del Servizio Sanitario), a livello nazionale e regionale, così come si sono andati modificando in particolare nell’ultimo decennio, e senza tenere conto degli impegni assunti da Governo e Regioni nel 2007: primo fra tutti il miglioramento dell’omogeneità degli interventi di prevenzione sia in termini di copertura quantitativa del territorio nazionale, sia dal punto di vista della metodologia di intervento.
D’altra parte, non è possibile ignorare quanto e con quanta velocità siano cambiate (non certo in meglio) le caratteristiche del lavoro, il grado di sicurezza dell’occupazione, i rapporti di forza nei luoghi di lavoro; di quanto, in una parte non minoritaria del mondo della produzione, salute e sicurezza siano di fatto subordinate alle logiche del profitto e del mercato; di quanto tutto questo, nel corso di un decennio di crisi, abbia contribuito ad indurre nei lavoratori e nelle lavoratrici un senso di rassegnazione, di sfiducia nei soggetti istituzionali e sociali, amplificando nel contempo le disuguaglianze sociali e le loro conseguenze sulla salute: un contesto nel quale il ruolo della rappresentanza dei lavoratori della sicurezza, anche là dove esistano formalmente le condizioni per la sua esistenza, tende a svuotarsi di significato, generando il senso di solitudine e di abbandono lamentati da molti dei RLS che vorrebbero davvero esercitare le attribuzioni di cui sono investiti. Tutto questo, in una condizione di difficoltà che appare investire anche le Organizzazioni Sindacali.
Quanto al sistema pubblico: ad esso il Patto del 2007 affida un ruolo di riferimento e di “regolatore” del sistema che (garantendo chiarezza e certezza delle regole, attraverso azioni di indirizzo e assistenza per l’attuazione della normativa) assicuri la verifica del “buon funzionamento del sistema sicurezza delle aziende”, basandosi sull’ovvio presupposto (ben evidente del resto anche nell’articolato del D.Lgs. 81) che la prevenzione degli infortuni e delle malattie da lavoro trova il suo naturale luogo di azione all’interno delle organizzazioni produttive, che ne sono le naturali e principali protagoniste.
Oltre ad obiettivi ed indicatori di attuazione, il Patto prevede anche un potenziamento operativo dei Servizi delle ASL, dal punto di vista della consistenza numerica e professionale e in termini di aggiornamento continuo degli operatori, al fine di adeguare l’attività “alle esigenze di tutela della salute all’interno del mercato del lavoro in continua evoluzione”.
I grandi cambiamenti nel lavoro, del lavoro e del contesto sociale e ambientale rendono oggi evidente, ancora più che dieci anni fa, la necessità per il sistema pubblico di prevenzione di adottare un approccio integrato (che tenga insieme prevenzione e vigilanza, legalità e regolarità del lavoro), di tipo One Health, partecipato, omogeneo sul territorio nazionale.
Riguardo all’assetto istituzionale, il D.Lgs. 81 disegna un sistema pubblico di prevenzione basato su un livello nazionale di indirizzo, politico e tecnico-scientifico, raccordato a livello di ciascuna Regione con un coordinamento tripartito.
Il livello centrale non è stato in grado, per una scarsa incisività, di garantire quella omogeneità - qualitativa e di copertura del territorio nazionale - degli interventi di prevenzione (informazione, formazione, assistenza e vigilanza) alla quale sia il Patto del 2007, sia la Legge 123 attribuiscono un ruolo fondamentale, e che rappresenta uno strumento essenziale di contrasto alle diseguaglianze.
D’altra parte, ognuna delle Regioni ha operato in modo autonomo rispetto alla programmazione, al coordinamento, alla determinazione e all’allocazione delle risorse, senza che sia stato esercitato il ruolo centrale di indirizzo, coordinamento e verifica. Gli stessi Comitati Regionali di Coordinamento, pensati come strumenti di pianificazione strategica condivisa tra gli enti e le istituzioni e con le parti sociali, non garantiscono tuttora in modo diffuso ed omogeneo gli obiettivi attesi, a partire dalla partecipazione delle organizzazioni dei lavoratori e, in generale, delle parti sociali. Con l’istituzione dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, le difficoltà di coordinamento si sono amplificate o quanto meno rimane la storica logica di separazione tra le due entità.
Il Coordinamento Tecnico Interregionale della Prevenzione, pur in assenza di poteri concretamente vincolanti e con una incisività variabile, attraverso gruppi di lavoro tecnici tematici (agenti fisici, flussi informativi, formazione, macchine e impianti, porti, silice, ferrovie) ha garantito negli anni la realizzazione di piani di prevenzione nazionali mirati a priorità individuate attraverso le informazioni rese disponibili dai Flussi Informativi INAIL-Regioni (e dell’importanza strategica del Sistema Informativo Nazionale delineato nell’art. 8 del D.Lgs. 81 si dirà più avanti).
Certo, non mancano esperienze positive. In alcune Regioni e in alcuni territori è stata avviata e mantenuta nel tempo la capacità di operare per piani di prevenzione mirati alle priorità di rischio, elaborati sulla base di analisi del contesto realizzate con il supporto di sistemi informativi e strutture regionali dedicate; sono stati portati avanti piani nazionali di prevenzione in edilizia e in agricoltura e ne sono stati avviati altri mirati ai rischi cancerogeno, muscoloscheletrico e da stress lavoro-correlato; continuano ad essere attivi (pur se con alcune discontinuità) i sistemi di sorveglianza InforMO e MALPROF , il registro dei mesoteliomi e quello dei tumori naso-sinusali: ma questo è possibile in gran parte per l’impegno di operatori motivati, e non sempre e non ovunque vede il protagonismo delle istituzioni. Insomma, non è espressione di un reale impegno politico-istituzionale nè di un sistema nazionale.
Nel Paese permane una situazione a macchia di leopardo, con Regioni (o ASL) che non manifestano alcun impegno o iniziativa e nei cui confronti non vengono attivate azioni finalizzate a rimuoverne l’inerzia. Questa è certamente la principale criticità, non solo organizzativa, che impedisce di poter parlare di un Sistema della prevenzione dei rischi e danni da lavoro ubiquitariamente presente ed efficace in tutto il territorio nazionale.
Del resto, su questa materia, all’ormai “abituale” silenzio (tranne che nei due anni precedenti la pubblicazione del D.Lgs. 81) del Ministero della Salute si affiancano le ripetute “manifestazioni di interesse” da parte del Ministero del Lavoro nei confronti delle funzioni svolte fino al 1978; i tagli al finanziamento del SSN che hanno portato negli ultimi anni ad una pesante riduzione del numero di Aziende Sanitarie (secondo modelli di riorganizzazione disomogenei tra le regioni, ma quasi invariabilmente portando all’accorpamento dei Servizi pre-esistenti) hanno inciso particolarmente sulle strutture dei Dipartimenti di Prevenzione. Il blocco del turnover del personale sta privando i Servizi di operatori esperti, spesso senza consentire la trasmissione delle esperienze ai (pochissimi) nuovi assunti: tutto questo ha effettivamente disatteso i “buoni propositi” contenuti nel Patto, del quale resta fermo in pratica soltanto il set di indicatori “di copertura”. Peraltro, l’esigenza di raggiungere gli obiettivi quantitativi fissati (in termini di numero di insediamenti e di cantieri sottoposti a controllo), in crescente carenza di personale, contribuisce alla perdita progressiva di competenze nel campo della valutazione igienistico-ambientale, privilegiando il controllo degli aspetti formali.
Quali soluzioni per rimediare alle carenze di indirizzo, coordinamento e verifica centrali, che condizionano il permanere di disuguaglianze e di disomogeneità sul territorio nazionale? Sarebbe certamente da potenziare il ruolo di cabina di regia del Comitato art. 5, che - dotato di poteri “sostitutivi” - potrebbe costituire lo strumento condiviso di garanzia dell’effettivo perseguimento degli obiettivi individuati dal sistema Stato-Regioni e assumere anche un ruolo di coordinamento e collaborazione con l’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Ma dicendo questo non pensiamo ad un semplice “incremento di attenzione e di iniziativa”: a noi pare da tempo che questa indispensabile cabina di regia dovrebbe potersi basare su una struttura tecnico scientifica di servizio che possa mettere in pratica gli obiettivi e gli indirizzi definiti “politicamente” nel Comitato.
Passando al secondo obiettivo strategico individuato nel 2007 e delineato con l’art. 8 del D.Lgs. 81, nella consapevolezza (da sempre espressa da SNOP) della necessità di “conoscere per prevenire”, la volontà di arrivare ad un Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione è già chiaramente espressa nel Patto del 2007. L’intesa sottolinea l’importanza della sorveglianza epidemiologica per una efficace “programmazione e valutazione dell’attività di prevenzione”; la necessità di individuare (utilizzando informazioni derivate dalle fonti correnti ufficiali disponibili) priorità, strategie e piani di intervento nazionali e locali attuati in modo omogeneo, integrato e sinergico, oltre che di obiettivi di salute nei luoghi di lavoro “da perseguire in tutto il territorio con programmi di azione nazionali”. Il Protocollo d’intesa INAIL- (ISPESL) - Regioni del 2002 aveva avviato l’esperienza dei Flussi Informativi: un sistema informativo che notoriamente aggrega dati riferiti ad aziende e lavoratori iscritti presso istituti assicurativi pubblici, la cui progettazione e realizzazione sono state curate da un gruppo di lavoro nazionale, che si è fatto carico anche dell’aggiornamento all’uso degli archivi degli operatori delle Regioni, delle ASL e dell’INAIL sull’intero territorio nazionale. Negli stessi anni erano stati attivati il sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi e quello sulle patologie correlate al lavoro (alimentati dalle analisi delle dinamiche infortunistiche e dalle valutazioni dei possibili nessi causali con l’attività lavorativa delle patologie correlate al lavoro segnalate, condotte dagli operatori dei Servizi delle ASL secondo modelli standardizzati), oltre al Registro Nazionale dei Mesoteliomi, e, in seguito, a quello dei Tumori Naso-Sinusali (previsto dall’art. 244 del D.Lgs. 81 insieme a quello dei tumori a bassa frazione eziologica, oggi in fase di avvio), basati sulla ricerca attiva dei casi affidata alle Regioni e alle ASL: dunque, una serie di sistemi informativi dei quali il Patto del 2007 prevede l’integrazione, con la partecipazione diretta dei due Ministeri della Salute e del Lavoro, e la bidirezionalità dei flussi (arrivando a considerare il coinvolgimento dei medici competenti e dei medici di medicina generale). A tutto questo si aggiunge la chiara volontà del legislatore che, nella Legge 123, inserisce tra i principi e criteri della delega la “previsione della partecipazione delle parti sociali” e “il concorso allo sviluppo … da parte degli organismi paritetici”.
Con l’articolo 8 del D.Lgs. 81 sembravano vicine alla realizzazione tutte le condizioni previste per la costruzione di un sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro realmente integrato e partecipato. Ma il Decreto (n. 183) per la definizione delle regole tecniche per la sua realizzazione e funzionamento e per il trattamento dei dati è stato pubblicato solo nel 2016, a distanza di ben otto anni (invece dei sei mesi previsti), dopo un lungo iter tra le istituzioni centrali e il Garante della Privacy, ridimensionando di molto le attese, prima di tutto rispetto al carattere realmente partecipato del sistema, ma anche rispetto alla sua possibilità di fornire un quadro dinamico, utile ad una programmazione basata su contesti attuali, al monitoraggio e alla valutazione di efficacia delle azioni.
Riguardo alla partecipazione (ed alla diffusione delle informazioni), i contenuti del Decreto sono indubbiamente sconfortanti: il SINP viene formulato come un sistema sostanzialmente chiuso, nel quale i fruitori coincidono con gli enti fornitori di dati e quindi di informazioni, descritto con una serie infinita di aspetti tecnologici ma senza che si possa apprezzarne la reale sostanza e soprattutto la concreta volontà applicativa, come del resto confermato dal fatto che a 2 anni dal Decreto non è successo praticamente nulla; le parti sociali vedono la loro partecipazione teorizzata come “consultazione, almeno una volta all’anno, da parte del Comitato di cui all’articolo 5 dell’81” oltre che, a livello periferico, come “periodica consultazione dei dati nell’ambito dei Comitati di coordinamento regionale di cui all’articolo 7 dello stesso 81”. A ben vedere, veramente poco: ne emerge un sistema tutt’altro che circolare, tutt’altro che diffuso e coinvolgente, e - se si vuole - tutto da “conquistare”.
Le vicende degli ultimi mesi, collegate in qualche modo con l’entrata in vigore della nuova normativa europea sulla privacy (pubblicata già da due anni), fanno inoltre ipotizzare una sostanziale impreparazione del sistema INAIL-Regioni ad avviare la condivisione dei dati in cooperazione applicativa e nel rispetto delle nuove regole, nell’ambito di una evidentemente scarsa proattività dello stesso INAIL (cui, non va dimenticato, è stato affidato il ruolo di “gestore tecnico”); allo stato attuale, anche se negli ultimi mesi è stato costituito il tavolo tecnico per il suo sviluppo e coordinamento, che vede il coinvolgimento di rappresentanti di ben sei Ministeri, oltre che di INAIL e Regioni, non si può non nutrire perplessità in merito alla effettiva realizzazione del SINP in tempi certi, e comunque, in caso positivo, all’effettività e sostanzialità della svolta nella quale l’art. 8 dell’81 faceva sperare.
Se, in sintesi, a dieci anni dalla pubblicazione del D.Lgs. 81, non vi sono certezze sulla data di effettivo avvio dell’integrazione dei sistemi informativi e degli archivi esistenti, e vi sono molti dubbi sulle potenzialità che potrebbe offrire ad un Sistema della prevenzione in tutte le sue espressioni, e realmente “partecipato”, sconcerta la quasi assenza di riflessione e dibattito sia nel campo degli operatori di prevenzione sia tra i soggetti sociali. Eppure, è ormai scontato che qualsiasi attività finalizzata ad obiettivi di prevenzione, a maggior ragione se in ambienti di lavoro, non può prescindere dal coinvolgimento dei destinatari fin dalla sua pianificazione, pena l’inefficacia.
Il “silenzio” degli operatori delle Regioni e delle ASL non appare del resto altro che il riflesso della carenza di indirizzo, coordinamento e verifica centrali, e dell’effettivo potere “sostitutivo” di cui si è detto, carenza che condiziona il permanere di disomogeneità nel territorio tali che vi sono ambiti in cui non sono state sviluppate capacità di utilizzare conoscenze del contesto per programmare azioni sulla base delle priorità individuate.
Dunque è evidente il motivo per cui si è voluta qui concentrare l’attenzione su quelli che riteniamo i principali obiettivi strategici, di fatto complementari, del D.Lgs. 81: la realizzazione di un sistema pubblico di prevenzione che sia in grado di svolgere un ruolo di “regolatore” del sistema, operando in modo omogeneo sul territorio nazionale (contrastando le enormi disuguaglianze che caratterizzano oggi in modo crescente il lavoro e le forme della produzione e dell’occupazione, incidendo pesantemente sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici) e indirizzando l’azione verso priorità individuate con il supporto di un sistema informativo nazionale integrato (come quello delineato nell’articolo 8 del D.Lgs. 81) in grado di garantire anche il monitoraggio e la verifica del raggiungimento degli obiettivi di salute e sicurezza.
Infine, non pensiamo che sia sufficiente avere una “misura” degli effetti del lavoro solo contando infortuni e malattie professionali “noti” e considerando solo i lavoratori e le lavoratrici assicurati ad INAIL (che sappiamo rappresentare solo i 2/3 della popolazione lavorativa), tenendo in ombra il lavoro precario o irregolare o comunque quella parte crescente di persone che sostanzialmente opera in assenza di diritti. Avvertiamo l’inadeguatezza degli strumenti pensati per un mondo che si è modificato e per questo riteniamo che ci sia la necessità di un impegno comune per la ricerca di strumenti nuovi, che implicano - più che la modifica di una legge - un cambiamento culturale, un rinnovamento dei saperi e forse una nuova etica.
Anna Maria Di Giammarco
Presidente SNOP
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