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Le tecnologie estrattive e l’uso in sicurezza del filo diamantato

Le tecnologie estrattive e l’uso in sicurezza del filo diamantato

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Categoria: Attività estrattive, minerali

07/12/2023

Riflessioni e informazioni sulla storia della tecnologia estrattiva e sull’invenzione del filo diamantato. Gli incontri e i progetti per aumentare la prevenzione dei rischi connessi all’uso del filo diamantato. A cura dell’ingegnere Mario Zaniboni.

Come ricordato nel documento Inail “ Illustrazioni delle dinamiche infortunistiche in cava dall’analisi alla prevenzione” e anche in alcune puntate della nostra rubrica “ Imparare dagli errori”, sono diversi gli infortuni, anche gravi e mortali, che avvengono ogni anno nel settore estrattivo e alcuni di questi sono connessi all’uso della macchina tagliatrice a filo diamantato.

 

Per questo motivo pubblichiamo oggi un contributo che abbiamo ricevuto dall’ingegnere Mario Zaniboni e che si sofferma non solo sulla storia della tecnologia estrattiva, ma anche sulla sicurezza e la prevenzione dei rischi connessi all’uso del filo diamantato. E racconta anche degli incontri, in cui Zaniboni partecipava come funzionario della Regione Toscana nell'ASL di Massa Carrara, e dei progetti per arrivare a nuove misure di prevenzione e protezione più efficaci.


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R.S.P.P. Modulo B-SP2 Attività estrattive-Costruzioni
Formazione R.S.P.P. Modulo B-SP2 Attività estrattive-Costruzioni - Riferimenti legislativi D.Lgs. n. 81, 9 aprile 2008, Art. 32 Accordo Stato-Regioni 07/07/2016

 

Fin dall'antichità, l'uomo ha approfittato di quanto gli regalava la natura in tutto ciò che gli serviva; e così fu anche nel campo delle costruzioni, ricorrendo alle pietre in genere e alle pietre ornamentali nello specifico. La tecnologia estrattiva ha seguito, logicamente, di pari passo i suoi progressi in ogni campo.

 

Le prime difficoltà sorsero quando si trattò di distaccare blocchi dai giacimenti per poi sezionarli; ma l'uomo seppe affrontarle perfezionando le proprie tecniche, fino a raggiungere un livello che fino a un secolo fa o poco più non era nemmeno pensabile.

 

La prima soluzione per tagliare i blocchi dal giacimento fu quella di sfruttare la possibilità offerta dal legno di gonfiarsi, se impregnato di acqua. Si ricorda, per esempio, che i cavatori di Luni, località posta fra Liguria e Toscana, riuscivano nello scopo facendo nel marmo di Carrara serie allineate di fori nei quali conficcavano profondamente pioli di legno, che venivano poi annaffiati. Ingrossandosi, il legno esercitava sulle pareti dei fori pressioni tanto forti da far spaccare la pietra in loro corrispondenza, laddove le tensioni trovavano minore resistenza.

 

E tutto andò avanti in tale maniera, finché non giunse all'orizzonte una prima interessante novità, vale a dire il ricorso all'esplosivo. Sicuramente è un metodo molto valido che è ottimo per provocare il distacco di volumi lapidei di grandi dimensioni (le cosiddette "varate"), tuttora solo eccezionalmente usato. In effetti, l'esplosivo deve essere usato con cautela, perché risulta difficile calcolare il quantitativo necessario, per l'imperfetta conoscenza delle caratteristiche interne del materiale ( fratture, faglie, ecc.), per cui, per non sbagliare, si tendeva a impiegarne di più di quanto calcolato. E, logicamente, se la carica esplodente era superiore all'essenziale, si andavano a danneggiare le rocce adiacenti sane, mettendone in discussione, parzialmente o in toto, il potenziale uso futuro.

 

Sempre usando l'esplosivo, ci fu la novità che prevedeva il suo utilizzo nella creazione della miccia detonante, la quale, fatta esplodere dentro serie di fori ben allineati, provocava la frattura lungo le stesse. Questo metodo, per esempio, è tuttora in auge nelle cave di granito nell'Isola d'Elba e in Sardegna. Può pure essere usata nelle cave dove non c'è grande spazio, come nelle gallerie e nelle cave a pozzo, per spostare i blocchi.

 

Il primo passo veramente rilevante, che rappresentò un decollo verso un futuro migliore, fu l'invenzione del filo elicoidale. Era una novità che interessò non solo l' industria estrattiva, estendendosi in tanti altri campi lavorativi (laterizi, cemento armato, industria meccanica, ecc.), che metteva insieme i tempi di lavorazione e la qualità del prodotto semi finito o finito.

 

Il taglio con questo nuovo utensile avveniva facendo scorrere sulla pietra un filo di acciaio, costituito da alcuni fili attorti a spirale, messo in movimento da un motore elettrico; il filo, nel suo moto, era investito da un getto d'acqua misto a sabbia silicea; quest'ultima, con i suoi duri e affilati spigoli, attaccava il marmo, erodendolo, e praticandone, così, il taglio. La funzione dell'acqua, oltre che fornire la sabbia, era pure quella di raffreddare e lubrificare il filo e liberare il taglio dalla segatura del marmo (la famosa "marmettola", oggi utilizzata in molti settori lavorativi).

 

L'uso del filo elicoidale, tuttavia, non era una cosa semplice, perché la sua usura ne condizionava la durata; ma pure la preparazione del complesso era lunga e richiedeva molta attenzione, per cui, per allungare entrambe, si tendeva a fare l'anello, che passava sulla puleggia motrice e avvolgeva il blocco da tagliare, il più lungo possibile. E allora si approfittava di questo per eseguire tagli plurimi: per esempio, mentre si eseguiva il taglio principale, si poteva tagliare la punta di un informe o togliere uno spuntone di roccia in sito che disturbava i lavori. In più, si doveva aggiungere un altro elemento all'interno dell'anello: per impedire che il filo elicoidale fosse troppo lento, rendendo impossibile l'erosione della roccia, lo si faceva passare sulla gola di una puleggia folle fissata su un carrello scorrevole su rotaie poste in pendenza, in modo che il suo peso fornisse la tensione necessaria.

 

Un'interessante innovazione fu l'introduzione della "puleggia Monticolo", così chiamata in onore del suo inventore, che non era altro che una ruota folle che - sembra una sciocchezza, ma proprio non lo è - aveva il pregio di avere lo spessore inferiore a quello del filo, fatto che le consentiva di entrare fra le pareti del taglio, riducendo il numero di passaggi per ottenere il distacco della roccia dal monte.

 

Ma l'uomo non si ferma mai, perché ogni traguardo raggiunto è l'invito a tentare di andare sempre avanti. E, dopo serie lunghissime di tentativi, di fallimenti e di risultati favorevoli, attorno agli anni settanta del XX secolo, si giunse infine all'invenzione da ritenere del secolo: quella del filo diamantato, che ridusse in modo esponenziale i tempi di taglio delle pietre.

 

Non si deve dimenticare che era già attiva un'altra tecnologia, cioè quella della catena diamantata, che aveva il pregio di distaccare dalle bancate i blocchi già nelle dimensioni volute. Però, questa tecnica aveva delle limitazioni, in quanto non era in grado di fornire tutti i risultati che si desidera ottenere con il taglio della pietra: innanzitutto, la profondità del taglio era legata alla lunghezza del braccio porta utensile, che non è mai più di 8 metri e mezzo, mentre le macchine che lo montano, molto pesanti, devono necessariamente essere montate su guide poste parallelamente alla linea di taglio, che ne condizionano l'utilizzo, limitandone le possibilità; e inoltre solamente una buona  sistemazione sul fondo, senza vibrazioni, che si sprigionano a seguito del duro contatto abrasivo fra taglianti e materiale lapideo, può consentire di estrarre blocchi di una buona qualità. Da non sottovalutare il fatto che il taglio con la catena diamantata necessità di un raffreddamento e una lubrificazione dell'utensile usando insieme con l'acqua anche olio minerale, miscela che inquina la marmettola, impedendone la vendita per tante applicazioni in edilizia, agricoltura, sanità; pertanto, non solo si ha questa perdita di guadagno, ma si deve affrontare pure la spesa per la raccolta, il trasporto e il conferimento in una discarica per sostanze pericolosamente inquinanti. Dal punto di vista ecologico, si ebbe un miglioramento con la progettazione di una cinghia diamantata, per l'uso della quale bastava acqua pura, cioè senza olio minerale, con la possibilità di commercializzare la marmettola. 

 

Praticamente, gli operatori del settore si trovarono a decidere fra le due più importanti innovazioni (catene o cinghie diamantate e fili diamantati) e l'applicazione fatta secondo i casi, penso non abbia messo finalmente fine alle discussioni fra i fautori delle due invenzioni, giacché ognuna ha suoi pregi e i suoi difetti.

 

Certo è che le limitazioni riscontrate nelle catene diamantate non ci sono proprio nel filo diamantato (come del resto non esistevano nemmeno nel filo elicoidale) che, per funzionare al meglio, necessita di macchinette elettriche di non elevato peso, che si possono tranquillamente spostare, appendendole alla benna di una pala meccanica e sistemandole dove ne è richiesta la presenza. Alla fine, il filo diamantato, non solo può prestare gli stessi servizi offerti dalle macchine a catena o cinghia diamantate ma, data la sua versatilità, essendo libero di funzionare ovunque, può offrire prestazioni che alle prime sono precluse (esempi, tagli molto lunghi, frazionamenti di blocchi in cantiere, riduzione a forme decenti di informi, tagli di strutture in cemento armato e in grandi pezzi metallici, ecc.).

 

L'invenzione del filo diamantato ha fatto molto scalpore nel campo della lavorazione delle pietre ornamentali; è stato il frutto dell'ingegno di un genio del settore, il carrarese Luigi Madrigali, tecnico eclettico, che ha fatto anche altre interessanti e utili invenzioni, fra le quali si evidenzia quella dei cuscini ad acqua, importantissima nella difficoltosa e pericolosa operazione del ribaltamento delle bancate staccate dal fronte di cava. Il filo diamantato è stato l'invenzione che ha consentito di mettere in pensione il filo elicoidale che per moltissimi anni l'ha fatta da padrone. Il pregio maggiore del nuovo metodo di segagione è la velocità con la quale i tagli possono essere portati a termine, esponenzialmente molto superiore a quella dell'utensile di taglio precedente, accrescendo di gran lunga la produttività. Però, non è detto che il filo diamantato sia solamente bello e tranquillo: questo utensile, contrariamente alle macchine a catena di cui si è detto più sopra che, se usate con attenzione, sono meno pericolose, ha il difetto di esserlo estremamente per gli operatori in caso della sua rottura, a meno che non si attuino tutte le norme di prevenzione che sono oggi disponibili.

 

La struttura del filo è molto complessa. La sua anima è costituita da un cavetto formato da trefoli di diametro variabile, avvolti a elica (la misura più utilizzata è di 4,9 mm), scelto in base alle esigenze della lavorazione. La sua funzione è quella di essere di supporto ai seguenti diversi oggetti che vi devono essere infilati: le perline, veri e propri utensili di taglio, sono in carburo di tungsteno con cobalto come legante, ottenute per sinterizzazione o elettrodeposizione, a forma di anello con il diametro di poco più di dieci millimetri e lo spessore di sette, con la corona esterna ricoperta da diamanti  industriali, che devono essere lasciate libere di ruotare sul filo, per impedire che tendano a ovalizzarsi; le molle distanziatrici aventi  lo scopo di ammortizzare i colpi subiti dalle perline e dalle stesse trasmessi al cavetto; i distanziali, che servono a impedire che le perline si tocchino; i fermi, fra i quali solitamente si inseriscono cinque perline, che hanno il compito più importante per la sicurezza delle persone, cioè di impedire che, in caso di rottura del filo, tutto il suo contenuto si sfili, limitando in tal modo che tale possibilità si riduca solo al tratto nel quale è avvenuta la rottura (naturalmente il pericolo di incidenti non è eliminato, giacché è solo ridotto il potenziale numero di oggetti sfilati). Le perline, che sono la parte che lavora, sono gli elementi maggiormente soggetti all'usura, e i granuli di diamante che vengono alla superficie sono sempre nuovi, messi in evidenza per il consumo del metallo.

 

Una delle prime forme di prevenzione è nella preparazione del filo, che deve essere fatta al meglio con grande concentrazione, perché un lavoro eseguito a regola d'arte consente sia di mettere al sicuro gli operatori, perché riduce le probabilità di rottura del cavetto, sia di ottenere un ottimo riscontro finale con tagli ben definiti e regolari, di notevole vantaggio per le lavorazioni successive. Il filo deve essere nuovo, evitando di rimetterlo in giro se ha lavorato molto, rendendo possibile la rottura di un trefolo che faciliterebbe la rottura degli altri; le perline, che abbiano avuta la tendenza a ovalizzare devono essere eliminate, così pure le molle e i distanziali devono essere perfetti; inoltre, la chiusura delle due estremità del filo deve essere fatta con giunture fissate dinamometricamente, in modo che, se ci dovesse essere un cedimento, questo avvenga in sua corrispondenza.

 

Però, anche dopo aver fatto tutto con scrupolosità, può succedere sempre ciò che non si era previsto e il filo si rompe. E, in questo caso, cosa succede? In caso di rottura, quando l'estremità del filo spezzato raggiunge la puleggia motrice, subisce il cosiddetto colpo di frusta, il quale imprime un'accelerazione ai pezzi liberi di ruotare e scorrere sullo stesso (cinque perline, molle, distanziali) facendoli sparare nello spazio alla velocità valutabile tra i 200 e i 300 m/sec; essi diventano, pertanto, pericolosissimi proiettili vaganti, capaci di traforare tutto quanto incontrano lungo la loro traiettoria. L'unica forma di prevenzione che si consigliava agli operatori della macchinetta (dispositivo per dare il moto al filo) contro quel pericolo consisteva nel sistemare lei e il suo operatore in posizione defilata nei confronti del suo piano di lavoro e di obbligare i lavoratori, che con il taglio non avevano nulla a che fare, di girare alla larga.

Disgraziatamente, però, come in tutte quelle attività umane nelle quali l'esperienza faccia difetto, le pecche nascono a ogni piè sospinto e sono sovente abbinate a gravi o tragiche conseguenze. E, malgrado tutte le precauzioni, gli incidenti non solo continuavano a verificarsi, ma tendevano a moltiplicarsi, perché le rotture del filo diamantato continuarono ad accadere. Esse erano da addebitare a certuni fattori, ma sempre connessi a un suo cattivo o errato o disattento uso: trazione esagerata del filo con superamento del suo carico di rottura; usura troppo prolungata, che implica il consumo e la riduzione del diametro del cavetto con rottura per strizione.

 

La situazione si era fatta grave, anche perché c'erano le lamentele da parte dell'ente di assicurazione che doveva riconoscere gli indennizzi.

 

Ci furono incontri fra tecnici e lavoratori, per cercare di trovare una soluzione alla situazione che stava diventando critica, anche perché il posizionamento delle macchinette e dell'operatore in posizione defilata rispetto al piano di taglio, imposta da me come funzionario ufficiale della Regione Toscana nell'ASL di Massa Carrara, non dava garanzie fino in fondo. La nuova tecnologia era un passo importante, ma aveva il difetto di non garantire l'incolumità del personale.

 

Alla fine, si giunse a una decisione importante: cercare innanzitutto di vedere come si comportassero i finti proiettili durante il loro lancio e, poi, studiare cosa fare una volta chiarito cosa avvenisse a seguito della rottura del filo. Pertanto, un gruppo di imprenditori della provincia di Massa Carrara, produttori di beni diversi, si unirono in un consorzio e, d'accordo con tutti gli enti locali e regionali, decisero di procedere a una serie di prove, provocando la rottura pilotata del filo, cioè lasciando sulla sua interezza un punto di debolezza, in corrispondenza del quale questo si sarebbe rotto, e lasciando ai risultati ottenuti le conseguenti soluzioni al problema.

 

Così, fu avviata una serie di sperimentazioni sul campo, in varie cave e in condizioni atmosferiche diverse, alle quali parteciparono tecnici liberi professionisti e non, cooperative di lavoratori, cavatori isolati, e funzionari degli enti vari, fra cui il sottoscritto come responsabile della sicurezza.

 

Si dispose verticalmente, sulla possibile traiettoria dei proiettili sparati dalla rottura del filo, uno schermo costituito da lamiera metallica, alto 3 metri e lungo 4, coperto di fogli di carta che sarebbero stati i bersagli contro cui i proiettili si sarebbero dovuti spiaccicare. Per sicurezza le prove furono molteplici, ma i loro risultati furono sempre gli stessi: i proiettili, a una distanza non troppo elevata, lasciavano sui bersagli una "rosa" di tracce, così come avviene con i pallini di piombo quando si spara una cartuccia con un fucile da caccia; e gli oggetti sparati, contati in partenza, si trovavano a terra lungo il percorso del filo.

 

I risultati delle prove convinsero tutti che, per assicurare la sicurezza dei lavoratori non era sufficiente metterli defilati insieme con le macchinette rispetto al piano di lavoro del filo, per cui una protezione era assolutamente necessaria. Furono fatti diversi progetti e, poi, furono lungamente e attentamente provati i prototipi relativi, finché non si giunse alla scelta di quella che divenne la protezione ritenuta ottimale e, per questo, ufficiale.

 

Questa doveva essere formata da un nastro in materiale flessibile (a base di gomma), arrotolato su un rullo bloccato sulla macchinetta, di un notevole spessore per resistere alla forza di penetrazione dei proiettili, della larghezza sul mezzo metro e posto a circa mezzo metro sopra il filo diamantato; questo doveva poi essere steso sullo stesso a partire da dietro la macchinetta fino a terra dietro il blocco in fase di taglio oppure fino contro il monte, se di tale lavorazione si trattava. Insomma, un manto protettivo lungo tutto il percorso dove il filo era libero.

 

L'estensore del presente articolo, nel suo ruolo di responsabile della sicurezza, redasse un'ordinanza secondo la quale, nell'ambito delle attività estrattive della Provincia di Massa Carrara, la nuova protezione diventava un accessorio obbligatorio per le macchinette nuove e doveva essere montata su quelle vecchie; i cavatori dovevano adeguarsi a questa disposizione, che non era un capriccio, bensì una salvaguardia per la loro incolumità.

 

Egli provvide alla redazione dello strumento in base al quale, nell'ambito del territorio di competenza dell'ASL di Massa Carrara, non ci dovevano essere lavorazioni con il filo diamantato senza protezione; per cui, le macchinette nuove dovevano esserne fornite, mentre le vecchie dovevano essere adeguate all'ordinanza emanata, pena pesanti sanzioni.

 

La grande novità fu pubblicata in prima pagina dal quotidiano "Il Tirreno" del 1° aprile 1996, nella quale era chiaramente espresso che la protezione poteva essere posta sul mercato locale e che il giorno 2 sarebbe stata presentata al pubblico interessato nelle sale di rappresentanza del Comune di Carrara dal Presidente del Consorzio davanti ai componenti dello stesso, ai cavatori, agli imprenditori, ai rappresentanti degli enti locali e della Regione Toscana e, naturalmente, alla stampa.

 

Come detto più sopra, si trattò di un'invenzione epocale, che si diffuse rapidamente, riducendo sensibilmente gli incidenti da addebitarle, tanto che si giunse alla conclusione che questi avvenivano più per imperizia, sbadataggine o leggerezza da parte dei lavoratori.

 

Alla fine, la nuova protezione ha messo tutti d'accordo, perché la sua spesa aggiuntiva sul costo della macchinetta diventa impagabile, se si pensa per un attimo alla sicurezza degli operatori.

 

A proposito degli oggetti liberi sul filo, si è seguita un'altra via per fermarli, bloccandoli attraverso la plastificazione, cioè con l'iniezione di materiale sintetico a caldo. Tale soluzione rappresenta un vantaggio per quanto riguarda la sicurezza, ma non altrettanto per i risultati finali, perché detrito abrasivo prodotto dal taglio della pietra si può insinuare fra perlina e filo, causando l'ovalizzazione della prima e l'erosione del secondo, accorciandone la vita.

 

In ogni modo, il filo diamantato ha rappresentato un passaggio di epoca da essere equiparato, nel suo campo ed esagerando un pochino, a quello che dal Medioevo ha portato l'uomo al Rinascimento: un passaggio sbalorditivo, che sicuramente sarà difficile eguagliarlo con altre future innovazioni.

 

 

Mario Zaniboni

Ingegnere

 


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