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Sottoprodotto: condizioni e dubbi interpretativi

Sottoprodotto: condizioni e dubbi interpretativi

Autore: Mara Chilosi e Andrea Martelli

Categoria: Ambiente

12/04/2016

Che cos’è la “normale pratica industriale”? Nella seconda parte dell’articolo affrontiamo questo ed altri aspetti controversi della disciplina sui sottoprodotti alla luce di alcune sentenze della Suprema Corte. Di Mara Chilosi e Andrea Martelli, avvocati

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1. Premessa
Nella prima parte del presente articolo ( Sottoprodotto: le condizioni sancite dal d. lgs. 152/2006) ci siamo soffermati sulle singole condizioni dettate dal comma 1 dell’art. 184-bis, d. lgs. 152/2006 (e, prima ancora, dall’art. 5 della alla direttiva 2008/98/CE), il cui rispetto è necessario per poter qualificare un residuo di produzione come “sottoprodotto”.
Ora ci occuperemo, invece, di alcuni aspetti particolarmente problematici - o che, comunque, secondo la nostra esperienza, fanno spesso nascere, nella pratica, dubbi interpretativi e applicativi - della vigente disciplina in materia di sottoprodotti. Aspetti sui quali, come vedremo, si è peraltro più volte pronunciata, anche di recente, la Corte di Cassazione penale.
 
2. Sul concetto di «normale pratica industriale» la Corte di Cassazione torna sui propri passi, ma sarà stata detta l’ultima parola?
 
Abbiamo anticipato che il concetto di “normale pratica industriale” appare obiettivamente vago e mutevole, dal momento che non è definito a livello normativo e varia in ragione anche del comparto produttivo di riferimento e della presenza o meno di norme tecniche pertinenti che descrivano gli specifici trattamenti a cui sono “normalmente” sottoposte le sostanze impiegate come materie prime in determinati cicli produttivi.
Ciò che la (indubbiamente restrittiva) giurisprudenza prevalente ha sempre sostenuto al riguardo è che vanno esclusi «dal novero della normale pratica industriale tutti gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato», mentre sono conformi alla “normale pratica industriale” «quelle operazioni che l’impresa normalmente effettua sulla materia prima che il sottoprodotto va a sostituire» (così, Corte di Cassazione penale, 17 aprile 2012, n. 17453).
 
Non solo, nella stessa sentenza n. 17453/2012 la Corte ha altresì osservato che, «sebbene la delimitazione del concetto di “normale pratica industriale” non sia agevolata dalla genericità della disposizione, certamente deve escludersi che possa ricomprendere attività comportanti trasformazioni radicali del materiale trattato che ne stravolgano l'originaria natura. Del resto (…) anche operazioni di minor impatto sul residuo, che altra dottrina definisce "minimali", individuabili in operazioni quali la cernita, la vagliatura, la frantumazione o la macinazione, ne determinano una modificazione dell'originaria consistenza» e rientrano di conseguenza nel concetto di “trattamento” di rifiuti (ossia, in una vera e propria attività di recupero di rifiuti, che, in quanto tale, deve essere autorizzata).
 
Il primo (tutto sommato, condivisibile) insegnamento ricavabile da questo precedente giurisprudenziale è che, per compiere una valutazione circa la riconducibilità o meno di un determinato trattamento al concetto di “normale pratica industriale”, occorre riferirsi essenzialmente al ciclo produttivo dell’utilizzatore della sostanza, il quale sceglie - appunto - di immettere nel proprio ciclo produttivo un sottoprodotto in alternativa ad una materia prima, per così dire, “vergine”. Ciò a meno che, naturalmente, il “trattamento” effettuabile (ed effettuato) su una determinata sostanza presso il ciclo produttivo di origine non possa configurarsi (ad esempio, perché è contemplato come tale dalle BAT) come parte integrante dello stesso, in quanto ad esso funzionale.
 
Quanto, poi, alla individuazione in concreto delle singole “operazioni” che possono rientrare in  questo concetto, è impossibile fornire una risposta generale, che valga cioè per tutte le sostanze e per tutti i cicli produttivi di (ri)utilizzo, poiché questo tradirebbe lo spirito e le finalità della norma (a partire da quella contenuta nella direttiva del 2008), la cui corretta interpretazione e applicazione non può che essere rigorosamente ancorata ad un approccio caso per caso.
È pur vero, peraltro, che appare obiettivamente difficile far rientrare nella “normale pratica industriale” le operazioni che - come ha scritto la Suprema Corte - comportino “trasformazioni radicali” di una sostanza, ossia delle sue caratteristiche qualitative, e che, secondo l’interpretazione più rigorosa, sono tali le operazioni che “normalmente” sono considerate attività di recupero di rifiuti - da intendersi, secondo la definizione contenuta nell’art. 183, d. lgs. 152/2006, come «qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile, sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione, all'interno dell'impianto o nell’economia in generale» - quali, in particolare, la cernita e la vagliatura [ [i]].
 
Sul punto si registra però una recente “apertura” da parte della stessa Corte di Cassazione penale (sentenza 6 ottobre 2015, n. 40109), la quale, dopo avere affermato che «la “normale pratica industriale” ricomprende tutti quei trattamenti o interventi (non di trasformazione o di recupero completo) i quali non incidono o fanno perdere al materiale la sua identità e le caratteristiche merceologiche e di qualità ambientale che esso già possiede - come prodotto industriale (all'esito del processo di lavorazione della materia prima) o come sottoprodotto (fin dalla sua origine, in quanto residuo produttivo) - ma che si rendono utili o funzionali per il suo ulteriore e specifico utilizzo, presso il produttore o presso altri utilizzatori (anche in altro luogo e in distinto processo produttivo), sembra ribaltare la propria precedente posizione (sopra richiamata) indicando espressamente fra le operazioni riconducibili alla “normale pratica industriale” non soltanto il lavaggio, l’essiccazione, la macinazione e la frantumazione, ma anche la vagliatura e, soprattutto, la selezione e la cernita.
 
Se va certamente salutato con favore l’apprezzabile sforzo della Suprema Corte di comprendere le prassi adottate presso numerose realtà industriali e di abbandonare un approccio che è apparso il più delle volte formalistico e tautologico (secondo cui la sottoposizione di una sostanza ad un trattamento che può costituire anche - o che può essere “assimilabile” a - un’operazione di recupero di rifiuti comporterebbe “automaticamente” che quella sostanza debba essere considerata sempre e comunque un “rifiuto”), riteniamo però doveroso mettere in guardia gli operatori rispetto alla concreta portata di questa “apertura”. È probabile, infatti, che questa nuova posizione rimanga isolata o, quanto meno, che in successive pronunce la Suprema Corte “corregga il tiro”, riavvicinandosi all’orientamento più restrittivo, che risulta tuttora maggioritario.
 
Non sembrano comunque più sostenibili, alla luce anche di quest’ultimo orientamento più permissivo, quelle letture eccessivamente restrittive del concetto di “normale pratica industriale” che addirittura escludevano anche trattamenti di carattere unicamente fisico-meccanico - quali la semplice riduzione volumetrica mediante frantumazione - o operazioni  che vi erano invece state espressamente incluse dalla Commissione UE [ [ii]] nelle proprie linee-guida sulla direttiva 2008/98/CE (quali, ad esempio, il lavaggio e l’essiccazione).
 
Nei paragrafi seguenti risponderemo, sempre alla luce della posizione assunta dalla giurisprudenza, ad alcuni degli altri interrogativi che si pongono più frequentemente nella pratica.
 
3. Può un residuo classificato come “rifiuto” dal produttore diventare un “sottoprodotto”?
 
Come già segnalato, il concetto di “sottoprodotto” rappresenta (ricorrendone le condizioni)  l’unica ”alternativa lecita” alla classificazione di un residuo di produzione come “non rifiuto”.
Se, però, è lo stesso produttore a qualificarlo (e a gestirlo) come “rifiuto”, esso non potrà più essere qualificato (e gestito) come “sottoprodotto”.
A maggior ragione, non potrà essere il destinatario a - per così dire - “declassificare” a “sottoprodotto” una determinata sostanza che a costui è stata (giuridicamente) conferita come “rifiuto”; e ciò anche a prescindere dalle intrinseche caratteristiche qualitative e merceologiche della sostanza in questione.
Lo ha ribadito la già menzionata sentenza della Corte di Cassazione penale n. 40109 del 6 ottobre 2015, affermando che:
·       «ove i residui della produzione industriale siano "ab origine" classificati da chi li produce come rifiuti, gli stessi devono ritenersi sottratti alla normativa derogatoria prevista per i sottoprodotti (…), in quanto la classificazione operata dal produttore esprime quella volontà di disfarsi degli stessi idonea a qualificarli come "rifiuti" in base al citato D.Lgs., art. 183, comma 1, lett. a)»;
·       «la natura di rifiuto dei materiali trattati, nel caso in esame, non poteva essere posta in discussione dal soggetto che li riceveva una volta che il loro produttore li aveva classificati come tali».
 
4. Chi deve provare che sussistono tutte le condizioni per qualificare una determinata sostanza come  “sottoprodotto”?
 
Per rispondere a questa domanda è sufficiente ricordare che la classificazione di un residuo di produzione come “sottoprodotto” costituisce un’eccezione rispetto alla sua qualificazione come “rifiuto”. La conseguenza è che, come in tutti gli altri casi in cui si deroga alla disciplina generale sui rifiuti (ad esempio, con riferimento al “deposito temporaneo” dei rifiuti), grava su colui che richieda l’applicazione di disposizioni aventi natura derogatoria l’onere di provare la sussistenza di tutte le condizioni che consentono di avvalersi del regime di favore.
Nella fattispecie, sono perciò il “produttore” e l’“utilizzatore” del sottoprodotto a dover dimostrare che risultano rispettate tutte le condizioni di cui al citato art. 184-bis, d. lgs. 152/2006, e non la pubblica accusa a dover dimostrare il contrario.
 
Sul punto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione penale è sempre stata univoca (cfr., fra le tante, le sentenze 13 aprile 2011, n. 16727, 18 gennaio 2012, nn. 7037 e 7038).
La Suprema Corte è peraltro tornata sull’argomento anche di recente proprio con riferimento al concetto di sottoprodotto, ribadendo, con la sentenza10 febbraio 2016, n. 5504, quanto segue: «ai fini della qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali,incombe sull'interessato l'onere di fornire la prova che un determinato materiale sia destinato con certezza ed effettività, e non come mera eventualità, ad un ulteriore utilizzo.
Questo perché il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 184-bis, definendo come sottoprodotto qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi "tutte" le condizioni dettagliatamente indicate nella disposizione normativa (art. 184 bis) alle lett. a), b), c) e d) - sottrae il regime dei sottoprodotti a quello dei rifiuti, introducendo una disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria, con la conseguenza che spetta a colui che voglia farla valere di fornire la prova della sussistenza di tutte le condizioni, che dunque devono sussistere congiuntamente, previste per la sua operatività».
 
 
Mara Chilosi e Andrea Martelli
avvocati
 
 



[[i]] Ma non mancano altre pronunce della stessa Corte di Cassazione penale secondo cui anche la semplice triturazione andrebbe esclusa dal concetto di “normale pratica industriale”: in un caso che riguardava la triturazione mediante appositi mulini degli imballaggi in plastica di ciò che era stato utilizzato ai fini produttivi, sì da ottenere «rimacinato di matarozze da rilavorazione industriale» poi ceduto in vendita a terzi, la Suprema Corte ha affermato che la suddetta attività di triturazione delle materie plastiche che hanno terminato il proprio ciclo di vita quali imballaggi fosse da ritenersi a tutti gli effetti un’operazione di recupero di rifiuti (finalizzata a conferire agli stessi consistenza diversa rispetto al materiale di partenza sì da consentire il nuovo svolgimento di un ruolo utile), soggetta in quanto tale all'obbligo di autorizzazione (Corte di Cassazione penale, sentenza 26 giugno 2012, n. 25203).
[[ii]] Cfr. European Commission - DG Environment, Guidance on the interpretation of key provisions of Directive 2008/98/EC on waste, June 2012.


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