
Sicurezza sul lavoro e mindfulness: perché la consapevolezza è il vero fattore protettivo

Come ben sappiamo, il Quadro Strategico Europeo 2021–2027 per la salute e la sicurezza sul lavoro, insieme al Piano Nazionale Prevenzione 2020–2025, ci pongono un compito ambizioso: incentivare, orientare e monitorare le azioni di welfare aziendale in modo integrato, con una particolare attenzione alla salute globale dei lavoratori attraverso l’uso di modelli “evidence-based”.
Questo significa non solo adottare buone pratiche, ma compiere scelte formative, organizzative e progettuali fondate su evidenze scientifiche, misurabili, replicabili ed efficaci.
Negli ultimi anni, si è assistito a un fiorire di iniziative che fanno leva sulla comunicazione emozionale: concerti, spettacoli teatrali, eventi sportivi e altre attività di grande impatto. Queste proposte, se ben progettate, hanno senza dubbio un valore importante per sensibilizzare, coinvolgere emotivamente e favorire l’onboarding dei lavoratori verso una cultura della sicurezza più sentita e partecipata. Tuttavia, è importante non confondere tali iniziative di sensibilizzazione con processi di formazione vera e propria. La formazione ha obiettivi più profondi: sviluppare competenze, modificare atteggiamenti, costruire comportamenti sicuri nel tempo. Richiede metodologie specifiche, verifiche di efficacia e un’attenzione costante alla trasferibilità sul campo.
La comunicazione emozionale è senza dubbio importante, ma non è in grado, da sola, di modificare gli atteggiamenti e i comportamenti, poiché le riflessioni che essa induce (quando le induce) non producono automaticamente cambiamenti stabili.
In quest’ottica, l’obiettivo delle aziende dovrebbe essere quello di verificare se ciò che hanno investito in formazione ha prodotto ritorni positivi in termini di trasferimento al lavoro e di ricadute sull’organizzazione.
Sarebbe quindi necessario bilanciare momenti di sensibilizzazione — comunque preziosi — con progetti formativi rigorosi, costruiti a partire da un’accurata analisi dei bisogni, da una progettazione metodologica solida e da strumenti di misurazione degli esiti.
Detto questo, è opportuno spiegare cosa significa davvero “evidence-based” e perché è così centrale anche nella prevenzione degli infortuni.
Il termine “evidence-based” (letteralmente “basato su prove”) nasce in ambito medico e scientifico per indicare un approccio che unisce esperienza professionale, valori della persona e le migliori evidenze scientifiche disponibili.
Nel contesto della sicurezza sul lavoro, un approccio “evidence-based” significa:
- non affidarsi solo all’esperienza o al buon senso, ma integrare ciò che funziona davvero, dimostrato da studi e ricerche;
- valutare l’efficacia degli interventi con metodi oggettivi (dati, indicatori, follow-up);
- adattare gli strumenti al contesto, ma sempre partendo da basi solide nella letteratura e nella ricerca.
Come vedremo, tutto questo risulta sicuramente necessario, perché il rischio, la sicurezza e la salute mentale sono sistemi complessi e, in un mondo dove ogni azienda è diversa, l’improvvisazione, per quanto creativa, non basta.
Scegliere strumenti evidence-based significa evitare mode passeggere, ridurre gli errori di implementazione e garantire investimenti sostenibili ed efficaci nel tempo.
In altre parole: la prevenzione dei rischi non può più permettersi di “funzionare per intuito”. Serve metodo, verifica e adattabilità.
Le neuroscienze cognitive come lente per comprendere il comportamento umano
Le neuroscienze offrono una lente preziosa per osservare e comprendere i fattori psicosociali che influenzano il comportamento umano nei contesti di lavoro.
Comprendere i limiti della mente umana, i meccanismi dell’attenzione, della distrazione e della regolazione emotiva ci aiuta a rispondere a una domanda fondamentale: perché le persone si comportano in modo pericoloso pur conoscendo le regole?
La risposta non risiede solo nella disciplina o nell’etica personale, ma nella struttura neurocognitiva della nostra attenzione, nei processi automatici e nella vulnerabilità fisiologica allo stress, al sovraccarico cognitivo e agli automatismi che portano al “mind wandering” (vagabondaggio mentale), che con tecniche specifiche si possono ridurre o migliorare.
Dalla colpa al sistema: un cambio di paradigma necessario
Tradizionalmente, la prevenzione si è focalizzata su procedure affidabili e sulla riduzione dell’errore umano, considerato il principale punto debole. Tuttavia, come dimostrano modelli più evoluti, l'errore è spesso il sintomo visibile di una rete complessa di condizioni latenti e sistemiche.
Oggi possiamo dire che l’approccio basato sull’errore umano come causa prima degli eventi infortunistici è stato quasi del tutto abbandonato.
Le motivazioni di questo cambiamento risiedono in una serie di valide ragioni:
- Innanzitutto, si è presa coscienza che gli errori che commettiamo sono numerosissimi.
- Nessuno, leggendo questo contributo, potrebbe affermare di non aver mai commesso un errore nell’esecuzione di una serie di azioni finalizzate a un obiettivo.
- La maggior parte di questi errori non comporta conseguenze serie perché viene contenuta dalla stessa persona che li commette.
Quando gli errori avvengono nei contesti lavorativi organizzati e producono conseguenze serie, devono essere analizzati per comprendere perché non sono stati individuati e contenuti.
Un altro aspetto importante è che, focalizzandosi esclusivamente sull’errore umano, si tende a interessarsi solo agli eventi che hanno avuto esiti negativi, senza effettuare un’adeguata analisi delle regole che garantiscono l’affidabilità dei processi aziendali.
Inoltre, è essenziale ricordare che ogni errore, sia esso con o senza conseguenze, va sempre analizzato considerando il contesto in cui si è manifestato.
Lo stesso errore, in un contesto diverso, potrebbe infatti non generare alcuna conseguenza.
Quando, a seguito di un evento, si afferma che una persona ha commesso un errore, si tende a pensare che questa avrebbe dovuto fare qualcosa di diverso rispetto a ciò che ha fatto.
Qui, tutti noi addetti ai lavori diamo il meglio di noi stessi: ci impegniamo in analisi ex post basate su informazioni che la persona coinvolta non aveva nel momento in cui agiva.
Si dà per scontato che tutte le analisi fatte a posteriori potessero essere effettuate anche dalla persona coinvolta, proprio nell’istante dell’azione.
Quando analizziamo un evento a posteriori, quasi sempre presumiamo che, per evitare o contenere l’evento, la persona avrebbe dovuto attingere completamente al suo bagaglio di competenze per rispondere in modo efficace alla situazione.
In realtà, ciò raramente avviene, poiché la risposta della persona era influenzata da altre attività che contemporaneamente impegnavano le sue risorse cognitive.
Quindi, appare chiaro che il modo di affrontare una situazione dipende soprattutto dal carico cognitivo gravante sulla persona, dalla sua variabilità e dall’analisi in tempo reale che essa compie sulle attività in cui è coinvolta.
Infine, non va dimenticato che l’analisi di un evento è spesso centrata esclusivamente sull’errore commesso dall’operatore diretto (ad esempio, il conducente di un’attrezzatura di lavoro), senza considerare che il suo comportamento era fortemente influenzato da variabili al di fuori del suo diretto controllo, come la progettazione e l’organizzazione del processo lavorativo.
Stress, distrazioni, disallineamento tra compiti e capacità, mancanza di consapevolezza o di senso del lavoro sono tutti fattori predittivi di potenziali errori e incidenti.
Per affrontarli in modo efficace, serve un nuovo paradigma che abbracci la complessità.
Per comprendere e prevenire realmente gli infortuni dobbiamo integrare diversi livelli di analisi, unendo i modelli ingegneristici a quelli psicologici, in particolare:
- il modello sistemico di James Reason, che mostra come l’incidente avvenga quando più “fette di formaggio” (barriere difensive) allineano le loro falle;
- i modelli di Bird ed Heinrich, che attraverso le loro piramidi statistiche evidenziano la sproporzione tra eventi gravi e micro-eventi (1 infortunio grave → 29 infortuni minori → 300 near miss → 3000 condizioni non sicure);
- il fattore umano come interfaccia tra psicologia, organizzazione e sistema;
- le neuroscienze cognitive come approfondimento dei meccanismi di attenzione selettiva e consapevolezza situazionale;
- i protocolli mindfulness-based, adattati per contesti non clinici ma fondati su validazione scientifica.
La Piramide Mindfulsafety: un modello integrato
La Piramide Mindfulsafety unisce questi elementi, offrendo un modello che parte dagli automatismi e dalle distrazioni alla base dell’errore umano e li collega a condizioni non sicure e comportamenti a rischio visibili, portando infine all'infortunio.
Essa integra e approfondisce le conoscenze più consolidate in tema di prevenzione degli infortuni, proponendo un approccio che parte dagli aspetti più profondi e spesso trascurati dell'errore umano.
Nella rappresentazione classica della sicurezza, come il modello di Heinrich o la Piramide di Bird, si osserva che a ogni incidente grave corrisponde un numero molto maggiore di incidenti minori, near miss e condizioni non sicure. Tuttavia, questi modelli si fermano perlopiù all'osservazione dei fatti visibili, senza esplorare a fondo i fattori organizzativi e i meccanismi cognitivi ed emotivi che li generano.
Il modello Mindfulsafety sviluppa questo approccio in tre direzioni principali:
- Radici invisibili dell'errore umano
Alla base della piramide si trovano gli automatismi mentali e i fenomeni di mind wandering (vagabondaggio mentale), ovvero la tendenza della mente a divagare e a disconnettersi dall'azione presente. Questo livello rappresenta i processi inconsapevoli che precedono l’errore visibile e che, se non riconosciuti e gestiti, aumentano il rischio di comportamenti non sicuri. - Fattori cognitivi ed emotivi
Al di sopra degli automatismi si collocano i fattori cognitivi ed emotivi: stress, stanchezza, sovraccarico attentivo, pressioni emozionali. Questi elementi influenzano profondamente il modo in cui le persone percepiscono il rischio, prendono decisioni e mantengono comportamenti sicuri o meno. - Dinamiche visibili
Solo successivamente emergono i comportamenti non sicuri e le condizioni non sicure, che sono la manifestazione visibile di processi profondi non governati. Se non corretti, questi comportamenti e condizioni conducono ai near miss, agli infortuni minori e, talvolta, agli infortuni gravi o mortali.
Questo modello non si limita a contare gli eventi e a categorizzarli, ma propone un approccio preventivo a monte, agendo su:
- l’allenamento dell’attenzione consapevole (mindfulness applicata) per ridurre il mind wandering;
- il riconoscimento e la gestione degli stati emotivi che alterano la percezione del rischio;
- lo sviluppo di capacità cognitive come l'auto-monitoraggio, la sospensione del giudizio automatico e l'agire intenzionale.
Questa integrazione è fondamentale per superare i limiti dei modelli tradizionali, che pur offrendo una valida cornice statistica, non spiegano come agire realmente sui meccanismi che portano all’errore.
Mindfulness: potente strumento, ma non per tutti nello stesso modo
All’inizio degli anni '80, il medico e biologo molecolare Jon Kabat-Zinn ha introdotto il concetto di mindfulness nel contesto clinico occidentale, sviluppando il programma MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction) per aiutare i pazienti a gestire il dolore cronico e lo stress.
La mindfulness, basata su pratiche contemplative millenarie della tradizione orientale, è stata progressivamente oggetto di rigorosi studi scientifici, che ne hanno confermato l’efficacia nel migliorare l’attenzione, regolare le emozioni e ridurre lo stress.
Oggi è riconosciuta come una pratica evidence-based, validata da numerose ricerche neuroscientifiche che ne mostrano gli effetti positivi sulla neuroplasticità, sulla resilienza allo stress e sulla salute mentale.
Tuttavia, è fondamentale comprendere che la mindfulness non è una semplice tecnica di rilassamento, né una pratica universale adatta a ogni contesto o persona senza una personalizzazione adeguata.
Negli ultimi anni, il termine “mindfulness” ha conosciuto un’enorme diffusione, soprattutto nel mondo aziendale. Sempre più organizzazioni propongono momenti di “mindfulness in azienda” come strumenti per gestire lo stress, favorire il benessere o “staccare la spina”.
Tuttavia, in questa diffusione, spesso rapida e non sempre rigorosa, la mindfulness rischia di diventare una panacea percepita, svuotata del suo potenziale trasformativo.
Va anche detto che, essendo la mindfulness una pratica fondata su un profondo lavoro di consapevolezza ed evoluzione personale, richiede tempi di maturazione lunghi e un percorso formativo serio e strutturato.
In un contesto delicato come quello della salute e sicurezza sul lavoro, è essenziale affidarsi a professionisti con competenze consolidate e una conoscenza specifica, maturata attraverso anni di studio ed esperienza.
Ultimamente, si osserva una crescente tendenza a banalizzare la mindfulness, con la diffusione di proposte da parte di operatori che, avendo frequentato corsi di poche ore, si presentano alle aziende con iniziative accattivanti ma prive del necessario rigore metodologico, rischiando di compromettere il valore e l’efficacia della pratica.
Pertanto, è opportuno chiarire alcuni aspetti fondamentali.
La mindfulness non è (solo) rilassamento
Molti associano la mindfulness a momenti di tranquillità, rilassamento, silenzio o distacco, come se fosse una pausa mentale dal mondo.
In realtà, la mindfulness è principalmente un processo attivo, in cui si coltiva la capacità di:
- portare attenzione volontaria all’esperienza presente;
- sospendere il giudizio automatico;
- osservare in modo lucido e consapevole ciò che accade dentro e fuori di noi.
Il rilassamento è quindi un effetto secondario, indotto dalla capacità di costruire nel tempo i tre pilastri della consapevolezza.
Non è evasione dalla realtà, ma pieno contatto con essa, anche quando è complessa, stressante o a rischio
E soprattutto: non è una tecnica neutra, ma una pratica trasformativa che deve essere progettata e calibrata con attenzione.
Target diversi, bisogni diversi: la mindfulness non è "taglia unica"
Un errore frequente nella formazione aziendale, specialmente quella proposta dagli “esperti improvvisati” prima citati, è quello di presentare la mindfulness con lo stesso formato, linguaggio, struttura e durata a ogni tipo di lavoratore.
In particolare, nella formazione proposta da operatori con esperienza limitata, si tende a standardizzare il percorso, senza differenziare contenuti e modalità sulla base delle caratteristiche, dei bisogni e dei ruoli specifici dei destinatari.
Ma le evidenze ci dicono che:
- le capacità attentive, la disponibilità all'introspezione, il carico emotivo, il linguaggio tecnico e il ruolo professionale modificano profondamente il modo in cui la mindfulness viene recepita e interiorizzata;
- la motivazione al cambiamento, il contesto di rischio e il tipo di fatica cognitiva o fisica incidono sugli esiti.
Ad esempio, in contesti ad alto rischio tecnologico (come impianti petrolchimici con pericolo di esplosioni), i lavoratori operano in condizioni che richiedono principalmente:
- massima attenzione sostenuta,
- prontezza decisionale sotto pressione,
- protocollo e rispetto delle procedure non negoziabili,
- interazione con ambienti pericolosi o instabili.
In questi casi, la mindfulness deve essere intesa come allenamento neurofisiologico alla vigilanza, non come introspezione fine a sé stessa.
Il focus deve essere su:
- prevenzione del mind wandering;
- riconoscimento precoce della distrazione;
- modulazione dello stress acuto.
Ad esempio, in Giappone, nel settore dei trasporti ferroviari (e non solo), gli operatori vengono addestrati alla tecnica dello “shisa kanko” (indica e chiama): una pratica che a prima vista potrebbe sembrare teatrale, ma che ha una funzione cruciale per la sicurezza.
Essa consiste nel combinare gesti e vocalizzazioni per ridurre drasticamente il rischio di errori umani, migliorando la concentrazione grazie all'interazione tra corpo e mente.
Il lavoratore osserva un obiettivo critico (come un segnale o un display), lo indica fisicamente con il dito e ne vocalizza lo stato prima di procedere con l'azione.
In contesti socio-sanitari o di assistenza, i rischi sono decisamente diversi, caratterizzati da:
- sovraccarico emotivo e relazionale,
- stress da empatia,
- conflitti interpersonali,
- turnazioni stressanti,
- contatto continuo con la sofferenza.
Qui la mindfulness può essere efficace nel:
- ridurre l’impatto dello stress relazionale;
- favorire una maggiore presenza e resilienza emotiva;
- migliorare la gestione delle emozioni senza dissociarsi o reagire impulsivamente.
Pertanto, è evidente che, pur utilizzando ingredienti “mindfulness-based”, il progetto formativo dovrà essere orientato in modo diverso a seconda dei contesti.
Lo stesso vale per l’uso della mindfulness in ambito clinico.
Studi recenti hanno evidenziato che il classico protocollo MBSR può produrre effetti molto diversi a seconda dei soggetti trattati:
- in un paziente oncologico, può migliorare la qualità della vita e ridurre l’ansia anticipatoria;
- in un paziente psichiatrico con disturbo borderline o psicotico, può attivare contenuti dissociativi o peggiorare la disregolazione emotiva;
- in un soggetto ansioso, può offrire un contenimento efficace se ben guidato;
- in un paziente depresso, può essere utile, ma anche generare un effetto rebound se il focus interiore amplifica ruminazioni o senso di impotenza.
Formazione mindfulness: target differenti, modelli differenti
Lo stesso principio si applica, a maggior ragione, nei contesti non clinici.
La formazione di un operatore di linea non può essere la stessa di quella di un manager o di un dirigente, così come la formazione per studenti in psicologia non può replicare quella destinata a pazienti clinici, o la formazione per un RSPP non può essere identica a quella per lavoratori o preposti.
Ogni persona ha bisogni cognitivi, emotivi e funzionali differenti, e la mindfulness va calibrata su questi profili.
Pertanto, deve essere chiaro che, in assenza di adattamento, anche un protocollo validato come l’MBSR può risultare inefficace o controproducente.
Classificazione dei modelli di mindfulness: quale scegliere?
Oggi possiamo distinguere diverse famiglie di modelli di mindfulness, più o meno adatte ai contesti aziendali e alla sicurezza:
- Modelli clinici (MBSR, MBCT) – Efficaci, ma con indicazioni specifiche e non adatti alla formazione aziendale standard.
- Modelli esperienziali adattati in azienda – Come il Mindfulness-Based Organisational Education (MBOE) o il Workplace Mindfulness Training (WMT), costruiti per aumentare attenzione, regolazione e consapevolezza negli ambienti di lavoro.
- Modelli orientati alla sicurezza sul lavoro – Come il modello Mindfulsafety, che integra un percorso tecnico con uno cognitivo, sviluppando l’attenzione situazionale e perseguendo obiettivi concreti di riduzione degli errori e incremento della vigilanza operativa.
- Modelli mindfulness-based avanzati con uso di biofeedback – Che permettono di rilevare la variazione dei parametri fisiologici e la consapevolezza del proprio corpo e dei suoi segnali, grazie a tecnologie come l’HRV (variabilità della frequenza cardiaca), che fornisce un riscontro in tempo reale sulle risposte fisiologiche e consente di migliorare la gestione dello stress.
Per tutti questi motivi, proporre la mindfulness in azienda non può avvenire tramite modelli standardizzati, come l’MBSR tradizionale da otto settimane, senza prima aver effettuato un'attenta analisi del contesto e dei destinatari.
La formazione efficace deve essere:
- situata, ovvero legata al contesto e al tipo di rischio specifico;
- funzionale, ovvero costruita per generare cambiamenti concreti;
- misurabile, attraverso strumenti di verifica (questionari, HRV, biofeedback);
- ibridata, integrando conoscenze neuroscientifiche e modelli di psicologia del comportamento.
Il modello Mindfulsafety, in questo senso, rappresenta una delle esperienze italiane più avanzate nel proporre formazione mindfulness adattiva, basata su neuroscienze, biofeedback e metriche operative.
Conclusione: la consapevolezza come presidio di sicurezza
Il Quadro Strategico Europeo e il Piano Nazionale Prevenzione ci chiedono di fondare il nostro operato su basi solide: prevenzione basata su evidenze e misurazione dei risultati.
È il momento di unire competenze tecniche, psicologiche e neuroscientifiche per costruire programmi di formazione esperienziale realmente efficaci.
La consapevolezza non è un lusso, ma un vero presidio di sicurezza.
Le neuroscienze ci dicono che possiamo modificare i comportamenti agendo sui processi mentali.
La psicologia del lavoro ci dice che possiamo prevenire gli incidenti agendo su motivazione, attenzione e senso del lavoro.
Mindfulsafety propone un cambio di paradigma: passare dalla responsabilizzazione delle diverse figure della sicurezza alla comprensione profonda dei processi neurocognitivi e sistemici che portano all'errore.
Solo così possiamo realizzare una prevenzione autentica, basata non solo su regole, ma su attenzione, consapevolezza e progettazione intelligente dei contesti di lavoro.
Il modello Mindfulsafety è frutto di uno studio condotto da un team multidisciplinare composto da tecnici, medici e ricercatori in neuroscienze, in particolare dal Dott. Marco Ferro, dal Prof. Luca Ostacoli, dall’Ing. Carmelo Catanoso e dal Prof. Claudio Pavia.
Carmelo Catanoso
Ingegnere Consulente di Direzione
Dott. Marco Ferro
Per oltre un ventennio funzionario ASL presso SPreSAL di Torino con compiti di vigilanza e conduzione inchieste infortuni per conto della Procura della Repubblica di Torino. Ex membro gruppo regionale sui Rischi Psicosociali. Di recente, grazie a un gruppo di ricercatori e medici dell’Università degli Studi di Torino, propone modelli di training basati sulle neuroscienze, la mindfulness clinica e tecnologie IoT.

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Rispondi Autore: avv. Rolando Dubini ![]() | 28/05/2025 (01:25:21) |
L’articolo in esame propone un’impostazione innovativa e multidisciplinare della prevenzione degli infortuni sul lavoro, fondata su un’integrazione tra modelli organizzativi, neuroscienze cognitive, strumenti di biofeedback e tecniche di mindfulness. Tale proposta si colloca in una prospettiva di superamento dell’approccio meramente prescrittivo, volto a costruire – con rigore metodologico – ambienti di lavoro neuro-compatibili, emotivamente stabili e cognitivamente sostenibili. Di qui la necessità di valutarne criticamente la coerenza interna, la fondatezza scientifica e la compatibilità con il quadro normativo vigente. Validità dei riferimenti scientifici e giuridici L’articolazione teorica appare solida nella misura in cui si radica su modelli largamente accreditati come quello di James Reason (il celebre “formaggio svizzero”), nonché sulla piramide degli infortuni di Heinrich-Bird, che collocano l’errore umano non come punto di partenza ma come esito finale di vulnerabilità sistemiche non presidiate. In tal senso, il richiamo ai fattori organizzativi e al carico cognitivo come elementi predisponenti il comportamento insicuro risulta coerente con l’art. 2087 c.c. e con la più recente giurisprudenza penale che ha chiarito come la responsabilità del datore di lavoro si estenda alla gestione del rischio derivante da fattori psico-sociali e di contesto, non soltanto materiali. L’utilizzo delle neuroscienze cognitive – ad esempio per spiegare i meccanismi del mind wandering, l’inibizione della risposta e il sovraccarico attentivo – si inserisce con pertinenza nel solco tracciato da Kahneman e Tversky, evidenziando il ruolo determinante di bias, automatismi e fallacie percettive nella genesi dell’errore operativo. Anche la mindfulness viene richiamata con congruenza, nella sua declinazione evidence-based secondo il protocollo MBSR di Jon Kabat-Zinn, supportata da numerosi studi (RCT e meta-analisi) sul miglioramento delle funzioni esecutive e della regolazione dello stress, elementi che incidono direttamente sulla performance sicura. Punti di fragilità concettuale ed evidenziali Tuttavia, da un punto di vista strettamente scientifico, l’applicabilità della mindfulness a contesti industriali ad alto rischio, come quelli regolati dall’art. 66 e 121 del D.Lgs. 81/2008 e dal D.P.R. 177/2011, appare ancora poco documentata. Il modello Mindfulsafety citato, pur suggestivo, non è stato ancora oggetto di validazione empirica né di peer-review. Inoltre, l’assenza di metriche operative che colleghino in modo robusto gli outcome individuali (es. riduzione del cortisolo o miglioramento del focus attentivo) a esiti organizzativi (es. decremento degli eventi sentinella o dei near miss) rappresenta una debolezza strutturale, che impedisce la piena misurabilità degli effetti nel contesto del sistema 231/2001 e dei modelli ex art. 30 D.Lgs. 81/2008. A ciò si aggiunge un elemento critico ulteriore: l’articolo non affronta compiutamente le resistenze culturali o le differenze di neurodiversità tra i destinatari degli interventi. La somministrazione indifferenziata di tecniche come la mindfulness rischia, in assenza di personalizzazione, di produrre effetti non solo inefficaci ma potenzialmente controproducenti, come la colpevolizzazione dell’errore umano in assenza di reale rimozione delle cause organizzative. Compatibilità con il quadro normativo vigente Dal punto di vista giuridico, l’approccio è pienamente coerente con le indicazioni del Quadro strategico UE 2021-2027 e con il Piano Nazionale della Prevenzione, che valorizzano strumenti di promozione della salute integrata (health in all policies). Tuttavia, la normativa italiana in materia di salute e sicurezza sul lavoro non prevede ad oggi riferimenti espressi alla mindfulness, sebbene l’art. 15, comma 1, lett. o) del D.Lgs. 81/2008 imponga l’adozione di “misure ergonomiche e psicosociali” nella prevenzione dei rischi, concetto che potrebbe, in chiave interpretativa evolutiva, legittimarne l’impiego laddove scientificamente validato. Conclusione: cautela operativa e rigore epistemologico In conclusione, il framework teorico delineato è culturalmente avanzato e giuridicamente promettente. Tuttavia, in assenza di validazione empirica sistematica e di modelli di accountability capaci di tradurre i benefici individuali in risultati misurabili ex ante ed ex post, esso non può che essere considerato, allo stato, un modello ausiliario, non sostitutivo, del paradigma tecnico-normativo vigente. Appare perciò necessaria: 1. una sperimentazione controllata, in contesti a basso rischio, per valutare la scalabilità del modello; 2. una personalizzazione dei percorsi, calibrata su profili cognitivi e culturali differenziati; 3. un’integrazione nei sistemi di gestione della sicurezza, subordinata alla validazione formale dei risultati ottenuti; 4. una formazione altamente qualificata dei facilitatori, affinché l’approccio non si riduca a una pratica new age priva di fondamento e legittimità, con gravi ricadute sul piano della responsabilità penale e organizzativa. In definitiva, il diritto vivente della sicurezza sul lavoro impone che l’innovazione, anche concettuale, sia sempre accompagnata da verifica, misura e rendicontazione: tre condizioni essenziali per trasformare la prevenzione da atto volontaristico a presidio giuridicamente efficace. |
Rispondi Autore: Carmelo Catanoso ![]() | 30/05/2025 (11:18:35) |
Dubini ti rispondo anche a nome del coautore dell'articolo dott. Marco Ferro. Innanzi tutto, grazie per il tuo commento. È evidente – anche ad una lettura distratta – che la tua risposta sia stata prodotta con il supporto dell’Intelligenza Artificiale. Nulla di male, anzi: è uno strumento straordinario. Ma, come ogni strumento, va utilizzato con competenza e consapevolezza. Nel tuo caso, essendo avvocato e non avendo competenza di natura psicologica, tecnica, organizzativa e di ricerca scientifica, l’impressione è che tu abbia interrogato l’IA senza fornirle un contesto scientifico adeguato, copiando e incollando questo articolo e chiedendole un’opinione “a freddo” su parole chiave come mindfulness e sicurezza sul lavoro, senza caricarla con dati e riferimenti rilevanti. Così facendo, hai generato un testo generico, che purtroppo ignora completamente l’esistenza di migliaia di studi pubblicati sul tema. Se avessi addestrato correttamente il sistema o, più semplicemente, se avessi consultato i principali database scientifici (come PubMed, Scopus o Google Scholar), ti saresti accorto che esistono oltre 17.000 risultati che documentano l’efficacia della mindfulness applicata ai contesti lavorativi, molti dei quali riguardano stress lavoro-correlato, prevenzione degli infortuni, attenzione sostenuta e cultura della sicurezza. L’articolo da noi scritto su PuntoSicuro non pretende di “risolvere” in poche righe un tema così complesso. Si pone invece come spunto di riflessione, frutto di un lavoro multidisciplinare serio e di lunga durata. Il modello Mindfulsafety, infatti, è stato costruito a partire da studi clinici, tesi universitarie (ne sono state scritte 6 sul tema), ricerche applicate, gruppi di lavoro con neuroscienziati, psichiatri, psicologi del Lavoro, tecnici della prevenzione ed ingegneri. Alcuni di questi studi sono già stati oggetto di sperimentazione in ambienti industriali e sanitari, con risultati documentati. L'unico punto su cui concordo è la tua osservazione (punto 4) sul rischio che certi interventi diventino superficiali o “new age”. Ed è proprio per evitare questo rischio che abbiamo scelto un approccio scientifico, evidence-based, con supervisione accademica, protocolli rigorosi e strumenti di validazione. Per concludere, la domanda che tutti – operatori, esperti, professionisti – dovremmo porci è: "Che contributo reale voglio offrire alla prevenzione degli infortuni? Qual è la mia competenza distintiva che può arricchire un modello in evoluzione, favorendo un confronto utile per tutti?" Stiamo vivendo un’epoca in cui servono dialogo, collaborazione e apertura interdisciplinare. La ricerca Mindfulsafety, frutto di un lavoro pionieristico tra tecnici della Prevenzione, ingegneri e clinici esperti in neuroscienze e psicologia del comportamento, rappresenta – con ogni probabilità – una delle prime esperienze internazionali a muoversi in questa direzione. Un’esperienza complessa, profonda, ancora in divenire… e proprio per questo preziosa. L’intelligenza artificiale potrà diventare una valida alleata, ma oggi ha ancora pochi dati integrati su modelli realmente multidisciplinari. Per questo, non può sostituire il valore del pensiero critico, del confronto diretto, della co-costruzione tra esseri umani. Abbiamo bisogno di gruppi di lavoro realmente interdisciplinari, dove il diritto, la tecnica, la clinica, la psicologia, l’etica e la scienza possano contaminarsi in modo costruttivo. Proprio per questo, insieme al dott. Marco Ferro e al nostro staff di ricerca, siamo disponibili a un confronto aperto e documentato, basato su evidenze, rigore metodologico e spirito di collaborazione. Non per alimentare contrapposizioni, ma per costruire insieme nuove strade ai fini di un reale miglioramento della salute e sicurezza sul lavoro. |
Rispondi Autore: Marco Ferro ![]() | 30/05/2025 (11:34:27) |
Grazie Carmelo per il tuo intervento chiaro e preciso, e grazie anche all’Avvocato Dubini per il suo commento che ha aperto una discussione. Dal 2015 proviamo, con tenacia e visione, a proporre qualcosa che possa essere utile per tutti: lavoratori, imprese e tecnici. Ricordo che il progetto MINDFULSAFETY è partito dal basso, non da un Ente di ricerca strutturato, ma grazie a un’intuizione condivisa e alla collaborazione spontanea e generosa tra professionisti di settori diversi. È vero: per costruire modelli credibili e realmente trasformativi servono rigore metodologico, ricerca, sperimentazione, raccolta dati. Tutto questo ha un costo non indifferente e richiede tempi lunghi, fatti di studio, verifiche, fallimenti, aggiustamenti continui e lavoro interdisciplinare. In questo percorso, l’Ing. Carmelo Catanoso sta contribuendo con altissima competenza tecnica, con passione e – ci tengo a sottolinearlo – in modo completamente gratuito, affiancando il nostro staff e credendo in questo progetto tanto quanto chi lo ha fondato. L’invito è aperto a te per un confronto reciprocamente arricchente e per tutti: tecnici, clinici, ricercatori, giuristi, formatori. Non per dividere, ma possibilmente per costruire insieme qualcosa di utile. |
Rispondi Autore: Riccardo D'Angelo ![]() | 10/06/2025 (08:59:49) |
Nell’ambito delle mie attività e ricerche, ho avuto l’opportunità di contribuire, insieme ad altri professionisti del team Mindfulsafety, alla realizzazione di una tesi sperimentale dedicata all’applicazione della mindfulness e delle tecnologie di biofeedback alla sicurezza sul lavoro. Si è trattato di un percorso formativo e sperimentale che ha esplorato nuove frontiere per affrontare in modo concreto il tema del “fattore umano”, spesso trascurato nei tradizionali modelli formativi basati perlopiù su norme e procedure. Le metodiche mindfulness-based così come sapientemente illustrato dal dott. Marco Ferro e dall’ing. Carmelo Catanoso, si rivelano strumenti preziosi per rafforzare la capacità di adattamento dell’essere umano alle sfide quotidiane. L’integrazione con tecnologie biofeedback – in particolare la misurazione della variabilità della frequenza cardiaca (HRV) – permette di ottenere indicatori oggettivi dello stato psicofisiologico del lavoratore prima e dopo il training, offrendo così una misura concreta della “centratura” e della resilienza interna. Tali approcci agiscono non solo sulla conoscenza concettuale (acquisita tramite la formazione frontale e l’addestramento), ma intervengono anche sulla consapevolezza più profonda, influenzando in modo diretto quei processi interni – automatismi, emozioni, rumori mentali, mind wandering – che alterano la percezione e l’efficacia comportamentale nei contesti di rischio. È proprio in questo spazio interno che si gioca una parte decisiva della prevenzione, troppo spesso affrontata solo dal lato esterno, tecnico e normativo. La proposta di Mindfulsafety, prima realtà in Italia a porre l’essere umano al centro dei modelli formativi in ambito sicurezza, si fonda sull’idea che per prevenire realmente infortuni e tecnopatie non possiamo più trascurare il ruolo della psiche. Eppure non si stratta di sostituire la tecnica, ma di armonizzarla con ciò che il filosofo Galimberti chiamerebbe la dimensione della psiche, integrando finalmente techne e interiorità in una visione sistemica dell’agire umano. E’ importante inoltre ribadire quanto, usando una metafora musicale, l’agire umano sia sempre scandito da vari spartiti e malgrado le qualità dei contenuti magistralmente realizzati da ogni singolo orchestrale, ignorando la partitura ovvero la complessità sistemica, il risultato sarà drammaticamente disarmonico e senza dubbio vano. La sfida, oggi, è riconoscere che l’essere umano non è il problema da correggere, ma il punto di partenza per costruire un modello di sicurezza che sia davvero sostenibile, evolutivo e trasformativo. Solo così potremmo smettere di addossare colpe al lavoratore come anello debole ed iniziare a costruire ambienti che favoriscano attenzione, presenza e consapevolezza. Riccardo D’Angelo – Dottore Magistrale in scienze della Prevenzione Team del progetto Mindfulsafety sull’uso della mindfulness e biofeedback nella sicurezza sul lavoro. |