La tutela dei lavoratori e delle aziende all’estero
La recente condanna dei vertici della società Bonatti di Parma, caso tristemente noto per la morte di due tecnici in Libia, deve far riflettere sullo stato di adeguatezza ai fini prevenzionistici delle aziende che inviano i propri lavoratori nei Paesi esteri.
Per quanto riguarda la sicurezza dei lavoratori all’estero, ho spesso riscontrato una mancanza di consapevolezza, magari in quelle PMI che rappresentano un’eccellenza tecnologica o qualitativa che le porta ad operare nei posti più reconditi del globo, ma che sono ben lontane dall’attuare quelle misure che sono divenute prassi per le multinazionali, le quali hanno ben recepito l’importanza della tutela delle proprie risorse umane in tutte quelle circostanze che costituiscono “occasione di lavoro”, applicando quindi una policy di safety and security che accompagna il lavoratore dall’inizio alla fine della missione .
Un approccio moderno alla prevenzione non può ammettere la carenza di consapevolezza; nelle trasferte all’estero spesso le imprese di medie dimensioni, anche quelle che hanno una storia di interventi internazionali diretti o in subappalto, spesso sottovalutano i rischi, non considerando che il mondo è molto cambiato nell’ultimo decennio e se nel secolo scorso ci è parso sempre più piccolo e le distanze sembravano accorciarsi con la globalizzazione, oggi dobbiamo tenere conto dei mutati scenari; "Siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli" diceva Papa Francesco nel 2014 durante il volo di ritorno dalla Corea del Sud; a questa affermazione - che da il senso delle crisi internazionali in corso - si devono aggiungere:
- il fenomeno terroristico;
- i sempre più frequenti disordini di natura socio-economica, di cui proprio in questi giorni abbiamo notizia dalla cronaca;
- i pericoli che derivano dalla criminalità organizzata, che in certi paesi ha proprio gli stranieri tra i bersagli preferiti per rapina, estorsione o rapimento;
- le calamità climatiche sempre più frequenti.
La tutela dei lavoratori è fondamentale, ma non è l’unico rischio da presidiare, la chiave di lettura di un security manager / security advisor - figure assolutamente pertinenti su questo tema - non può esimersi dal valutare i possibili impatti, sia reputazionali e sia rispetto alla possibile fuga di dati e preziose informazioni, cui il lavoratore e i suoi strumenti informatici sono più esposti proprio quando si trovano fuori sede.
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In materia di sicurezza non sempre abbiamo a disposizione norme attuative esplicite e cogenti e questo è il caso della cosiddetta “Travel security” (sicurezza dei lavoratori all’ estero,) dove non sono indicati adempimenti espliciti, ma allo stesso tempo non è possibile ignorare né il dovere di protezione generale, definito dall’ART. 2087 del Codice Civile e né i dettami del Decreto 81/08 circa la valutazione dei rischi, la formazione dei lavoratori e l’idoneità alla mansione; a ciò si aggiunga l’art. 18 del D.Lgs. 151/15 e l’art. 4 del D.Lgs. 231/01, che più puntualmente impongono di garantire al lavoratore in missione all’estero, un adeguato standard di sicurezza.
È opportuno ribadire che la valutazione prevista dal Decreto 81/08 (di cui all’articolo 17 e 28) deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, ovvero, nella fattispecie in esame, si devono considerare i lavoratori che possono essere impegnati in missioni all’estero per i quali è quindi necessario prevedere ed individuare i pericoli a cui possono essere esposti e le relative misure di tutela; ma per fare ciò non è possibile basarsi sulle normali e consolidate fonti tecnico scientifiche che si sono sviluppate dal 1994 con l’introduzione del noto Decreto 626/94; occorre quindi attingere dalle competenze specialistiche ed esperienze maturate da soggetti che hanno affrontato il problema in ambiti internazionali e che nel contempo sappiano calare le soluzioni nelle organizzazioni aziendali, perché non sempre gli esperti di “operation”, che pure hanno un know-how prezioso da integrare, dispongono poi degli skills giusti per interfacciarsi con le imprese.
Inoltre in questo ambito, a maggior ragione, la valutazione deve per definizione essere non solo dinamica, ma addirittura tempestiva negli aggiornamenti e nella specificità delle missioni.
Ritornando alla cronaca giudiziaria del caso Bonatti, mi rattrista sempre sapere di una condanna, perché al dramma morale e materiale dell’evento si aggiunge l’identificazione di una colpa (salvo diversi esiti degli annunciati ricorsi in appello) dalla quale si deduce con rammarico che la tragedia poteva essere evitata.
L’accusa verte sulla “cooperazione colposa nel delitto doloso”, a significare che, come sempre sostengo quando tratto questo tema, la possibile carenza prevenzionistica nella cosiddetta “travel security” risiede soprattutto in un problema organizzativo.
Il mondo della consulenza è reattivo e pronto a cogliere le domande dei committenti più attenti; in particolare si stanno moltiplicando le proposte di corsi di formazione per preparare i lavoratori all’estero; ma la soluzione è tutta nella formazione?
Una valida informazione, con una scheda di rischio paese, ed una formazione ad hoc, sono un requisito essenziale affinché il lavoratore si avvii alla trasferta con un’adeguata consapevolezza e con almeno una impostazione comportamentale che gli eviti di mettersi nei guai, ma sarebbe meglio che l’aspetto nozionistico fosse supportato da un vero e proprio intervento di “mind settings”, perché in certi paesi non solo il comportamento è fondamentale, ma può essere proprio l’atteggiamento a fare la differenza.
Comunque la formazione è solo il tassello di un intervento che, per essere efficace, non può prescindere da un’analisi del rischio e che deve comprendere l’intero processo della missione; proprio la corretta pianificazione della trasferta ha la funzione di definire quelle misure e risorse atte a evitare l’incidente ed ogni conseguenza derivata.
Ecco quindi che occorre una riflessione di tipo manageriale, con sinergiche competenze safety and security, per affrontare con completezza ed efficacia questo problema, a partire dai decision maker della trasferta affinché siano valutati i costi per un’attività in sicurezza che non sono meramente quelli di viaggio, vitto ed alloggio.
Vanno quindi considerati attentamente i “ costi della non sicurezza” perché la posta in gioco nel “worst case” è altissima moralmente e comunque alta sostanzialmente, sia per le possibili richieste di danni, che per le potenziali sanzioni derivanti dall’applicazione al D.Lgs 231; comunque, è meglio tenere a mente che cercare di rimediare ad un imprevisto a migliaia di chilometri di distanza è normalmente ben più costoso che prevenirlo.
Serve quindi un approccio che principia da un’analisi organizzativa atta a ripercorre la procedura interna di attivazione della missione; ecco alcuni spunti:
- il lavoratore o i lavoratori che hanno dimostrato le loro capacità in azienda sono davvero idonei ad operare in uno scenario diverso, problematico o addirittura ostile?
- Il Medico Competente è stato opportunamente coinvolto? Ha ricevuto le dovute indicazioni per esprimere un giudizio di idoneità alla missione?
Il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, assolvendo al proprio ruolo istituzionale, ha sviluppato validi servizi reperibili sul portale www.dovesiamonelmondo.it, tra i quali quello che consente, per singole categorie di viaggio - compresi i lavoratori, gli operatori umanitari e di cooperazione - di segnalare i propri riferimenti ed il proprio itinerario; questo diventa un valido supporto nell’eventuale frangente di crisi, ma è corretto ribadire alle imprese che l’attivazione di questa opzione non è esaustiva circa le misure di prevenzione, mentre un’azienda davvero preparata e credibile nell’operatività internazionale deve mirare a ridurre drasticamente le probabilità di incorrere in una crisi che arrivi a coinvolgere la Farnesina.
Occorre quindi fornire le competenze essenziali anche alle figure di back office che organizzano l’attività all’ estero, con specifiche responsabilità e deleghe operative e che potrebbero rientrare, a seconda dei casi, nelle prerogative del “dirigente” e del “preposto” come definite dell’Art. 2 del D.Lgs 81/08.
Laddove, nonostante le cautele, qualcosa vada storto - circostanza non improbabile in certi contesti - è necessario prevedere un piano di emergenza e recupero per il lavoratore, opportunamente supportato da coperture assicurative che sono essenziali affinché il “piano B” sia economicamente sostenibile e quindi concretamente attuabile.
Occorre anche disporre di soluzioni logistiche e di supporto in loco, comprese quelle di security, per garantire al lavoratore o al team, un livello adeguato di protezione dal rischio aggressione.
Insomma è un problema complesso che non può essere trattato superficialmente, la cui implementazione richiede il supporto di provate competenze, capaci di interfacciarsi con le organizzazioni aziendali, non solo governative; un tema nuovo per le PMI e talvolta anche per organizzazioni maggiori, dove è necessario applicare gli standard più evoluti, per garantire un grado di sicurezza accettabile nei contesti internazionali attuali.
Matteo Cozzani
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Rispondi Autore: avv. Rolando Dubini - likes: 0 | 18/09/2020 (19:13:08) |
Utile introduzione ad un tema sempre più complesso. |